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 25 novembre 2017: le Donne occupano Montecitorio

25 novembre 2017: le Donne occupano Montecitorio

Un'invasione (pacifica) di donne per dire, insieme alle istituzioni, che la violenza sessista va combattuta e condannata

Martedi, 28/11/2017 - La recente invasione pacifica di donne all’interno di Montecitorio, voluta da Laura Boldrini in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, nell’intenzione della presidente della Camera dei deputati era finalizzata a “dare la parola alle donne che il silenzio l’avevano rifiutato”. E, difatti, le vittime di violenza di genere partecipanti all’incontro erano fortemente consapevoli della sua valenza, quasi a rimarcare che il Parlamento non dovesse ignorarle, proprio in virtù del coraggio messo in campo per uscire da una vita segnata da abusi e sopraffazioni maschili. D’altronde anche le donne invitate all’incontro erano più che mai coscienti delle responsabilità in capo alle istituzioni nel contrasto alla violenza di genere e, forti del ruolo di essere idealemente rappresentative delle donne italiane, costituivano la degna platea per l’iniziativa denominata #InQuantoDonna.
Al di là delle drammatiche storie narrate si è creata una partecipata e vibrante empatia, che ha indotto le quasi 1500 donne presenti a condividere fortemente le istanze promananti dalle singole testimoni della violenza di genere. Gli innumerevoli applausi ricevuti stanno a rimarcare che quella solidarietà necessitata dalle emozioni delle loro storie era tutta lì a suffragare le conseguenti richieste. Così per la dottoressa Serafina Strano, nello scorso settembre ripetutamente violentata durante un turno notturno di guardia medica in Sicilia, che ha chiesto una gestione migliore e più sicura per le dirigenti sanitarie dei presidi territoriali italiani di guardia medica, a mo’ di risarcimento istituzionale “altrimenti il mio grido di dolore continuerà”. Altrettanto per Grazia Biondi, vittima di soprusi da parte del coniuge, che parlando anche a nome dell’associazione Manden, gruppo di auto-aiuto tra vittime di violenza familiare di cui è presidente, ha denunciato il mancato supporto delle istituzioni e rimarcato quanto “i tanti addetti ai lavori non sempre si sono dimostrati all’altezza della situazione”.
Touria Tchiche, un’immigrata vittima di maltrattamenti e violenza, invece, ha sottolineato come nel proprio cammino di emancipazione da un marito oppressore il Tribunale dei minori le abbia dato “filo da torcere perchè mi dicevano che lui era il padre dei miei figli”. Drammatiche sono state le parole di Emanuela De Vito, sopravvissuta ad un tentato femminicidio all’età di sedici anni, che, dopo la scarcerazione del suo aguzzino, confessa “non riesco più a vivere la mia vita sociale se so che fuori c’è uno che mi terrorizza”.
Antonella Penati, il cui unico figlio è stato trucidato all’età di otto anni dal padre, pur svolgendosi gli incontri in modalità protetta, ha prima denunciato la mancata condanna di quanti dovevano tutelare quel bambino non propenso ad incontrare il genitore violento e successivamente ha chiesto ufficialmente che “si riconosca il figlicidio, come forma di femminicidio”. Concetta Raccuia, madre di Sara Di Pietrantonio, barbaramente uccisa lo scorso anno dall’ex fidanzato, dal canto suo ha sottolineato la necessità di uno sforzo staordianario affinchè “ogni giorno ci si impegni a che una donna non sia uccisa perchè donna”.
Alice Masala, adolescente vittima di bullismo, ha raccontato che, pur avendo pensato di trovare nella morte l’estremo rimedio ai soprusi subiti, alla fine “dopo tanto tempo” ha scelto di vivere. Quasi a chiedere che quel tanto tempo dovesse essere più breve, se solo le fosse stato consentito un idoneo supporto per fuoriuscire da quella particolare forma di violenza che l’angustiava fino ad annullarla.
Maria Teresa Giglio, madre di Tiziana Cantone suicidatasi dopo 15 mesi di insulti e derisione in rete a causa della divulgazione di un suo video personale, ha ripetutamente rivendicato il riconoscimento normativo del reato di revenge porn, già esistente in altri Paesi, atteso che sono sanzionabili i social che non rimuovono su richiesta dell’interessato i correlati contenuti sensibili. La testimonianza più intensamente coinvolgente, perchè chiamava in causa non solo le istituzioni ma l’intero consesso sociale, è stata quella di Blessing Okoedion, vittima di tratta. Dopo il racconto delle modalità del suo ingresso in Italia e del suo immediato avvio alla prostituzione da parte dei trafficanti di esseri umani, la donna nigeriana gridando a viva voce che era stata “un prodotto in vendita, da usare, sfruttare e buttare” ha reclamato “con tanto di faccia messa in mostra” che nel nostro Paese avvenga “un’opera di sensibilizzazione per fare capire che la tratta è un crimine contro l’umanità”.
Quando Laura Boldrini, da donna impegnata nel contrasto alla violenza sessuata, ha chiesto di non stare più zitte di fronte agli abusi, immediatamente dopo nel ruolo di Presidente della Camera dei deputati ha rimarcato con fermezza che le istituzioni devono ascoltare con attenzione quante rivendicano “la possibilità di un riscatto che sono riuscite ad imporsi”. D’altronde la strada è segnata perchè, come ben evidenziato da Linda Laura Sabbadini (video) nel suo intervento “si è creato un clima di condanna sociale del fenomeno della violenza di genere”, frutto degno della forza delle donne che si sono mobilitate in tal senso al di là delle proprie appartenenze politiche. L’esperta di statistica ha anche riconosciuto che questo risultato si deve al “lavoro delle femministe, delle operatrici dei centri antiviolenza, delle donne dei media”. Il passo successivo diventa così obbligato, ossia il coinvolgimento degli uomini che hanno capito quanto la forza delle donne unite possa essere capace di dare vita ad un mondo nuovo.
Alla fine del suo contributo, Emanuela De Vito ha chiesto “alle istituzioni di ascoltare il grido di dolore delle vittime della violenza di genere”. Quante volte dalla televisione, dai giornali, sui social, dai racconti personali ascoltiamo quel grido dalle sopravvissute e dai familiari delle donne uccise di femminicidio. Lo scorso sabato quel grido, ora forte ora debole, è risuonato come un urlo da parte delle centinaia di donne presenti a Montecitorio. Un urlo che quel palazzo, come ogni altra sede istituzionale, ha il dovere di ascoltare nella sua giusta tonalità, perchè la violenza non continui ad essere il nostro destino.

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