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A Rieti Il Nido di Ana racconta la violenza di genere

A Rieti Il Nido di Ana racconta la violenza di genere

Le esperienze del Centro antiviolenza, dove le donne trovano ascolto e professionalità. Videointerviste a Alberta Tabbo, Martina Torda, Anna Vigilante

Martedi, 27/04/2021 - “Fin dall’inizio del nostro cammino, nel 2005, abbiamo redatto un protocollo d’intesa con le istituzioni e le forze dell’ordine allo scopo di creare una rete efficace per combattere la violenza contro le donne e i minori, ma operiamo con non poche difficoltà dovute ai tempi lunghi sia della giustizia sia della burocrazia per ottenere i fondi necessari a sostenere le attività, cioè a pagare le bollette e a garantire il necessario per l’accoglienza”. Alberta Tabbo, fondatrice del Centro Antiviolenza Il Nido di Ana che è gestito dall’associazione di volontariato Capit Rieti, ci accoglie insieme alle operatrici e volontarie nella sede della struttura che è ospitata in locali del Comune di Rieti. “Queste lungaggini, amministrative e giudiziarie, sono un problema grave per chi, come noi, deve dare assistenza concreta alle donne che, quando intendono allontanarsi da situazioni violente, hanno bisogno di risposte immediate per fuggire dal pericolo che il maltrattante costituisce per loro”.
Foto, manifesti e locandine appese alle pareti raccontano le iniziative svolte negli anni per sensibilizzare le donne sulle attività del Centro e sul diritto di reagire alle violenze. “Il Nido Diana dalla sua apertura ha preso in carico 236 donne (37 solo nel 2020) italiane e anche immigrate, donne che hanno tra i 40 e i 60 anni. Arrivano da noi per violenze psicologiche (insulti, umiliazioni e stalking) e anche per violenze fisiche. Talvolta hanno contattato il numero nazionale 1522 o hanno trovato il nostro numero su internet oppure sono indirizzate dalle forze dell’ordine”. Martina Torda è una giovane operatrice che collabora nel CAV dal 2018, ha già maturato una discreta esperienza nell’accoglienza e, nell’ambito di queste interviste raccolte per il progetto della Regione Lazio ‘Donne, Sicurezza, Legalità’, descrive così il suo lavoro. “Il Centro è per ogni donna un luogo in cui può essere ascoltata, dove può raccontare la sua storia senza essere giudicata e dove può ottenere aiuto e assistenza in un percorso di uscita dalla violenza che non è breve né semplice, anche perché spesso le donne continuano a vivere con il maltrattante perché non hanno sufficiente autonomia economica. Comunque un primo passo importante per loro è acquisire coscienza di sé, in questo lavoro interiore noi siamo supporto e punto di riferimento. Diciamo sempre che parlare con noi non è la stessa cosa che confidarsi con un’amica o una sorella, soprattutto quando si tratta di violenze sessuali. Noi siamo soggetti terzi e abbiamo la professionalità adeguata a raccogliere il racconto di questi drammi che le donne hanno bisogno di esternare, noi sappiamo dare i consigli giusti finalizzati ad uscire dalla violenza. L’indipendenza economica è fondamentale e i sostegni dello Stato (il reddito di cittadinanza o il contributo di libertà) non sempre sono sufficienti ad appianare tutte le difficoltà. Per questo puntiamo a rendere forte la donna a livello psicologico”.
Anna Vigilante, medica in pensione, ha deciso di contribuire come volontaria alle attività del Nido di Ana. “La violenza di genere è un argomento talmente vasto e complicato che riesce difficile fare una sintesi e allora provo a fare degli esempi che riguardano le ripercussioni sulla salute. Vivere all’interno di una spirale di violenza determina prima la comparsa di ansia e poi di depressione, e la depressione priva le donne dell’energia che serve per reagire da sole e persino per chiedere aiuto, questo le rende doppiamente vulnerabili: sul fronte del fisico e nel contesto sociale. L’essere chiusa in un contesto violento che non ha alcuna considerazione di lei la porta a non avere, lei stessa, attenzione al suo corpo né cura della sua salute: peggiorano le crisi di emicrania, si altera il ritmo ormonale ed il ritmo del sonno, si aggrava il tabagismo ed aumenta il consumo di alcool. Rinuncia ad attività fisica, culturale e alla cura della persona. Per esempio tende a non seguire screening di prevenzione o le visite mediche di controllo. E si potrebbe continuare ancora..”. Questa raffigurazione è tremenda, ma aderente alla realtà vissuta da molte donne, protagoniste di drammi che hanno valenza sociale e non più tollerabili. “Non si può continuare dando solo sostegno - continua Vigilante -, occorre fare di più e puntare al cambiamento che ci aspettiamo nel dopo-covid. Se si dice che niente tornerà come prima, questo dovrebbe poter significare che le cose potrebbero essere migliori di prima. Penso ai fondi del Recovery Fund, che devono dare maggiore occupazione femminile privilegiando le donne che subiscono violenza, almeno in una fase iniziale. Se la società ha creato la cultura della violenza di genere, deve dare alle donne che la subiscono un aiuto più tangibile”. Una proposta, quella della dr.ssa Anna Vigilante, che sembra andare nella giusta direzione.

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