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Carceri: attentato alla Riforma - di Eugenia Fiorillo*

Carceri: attentato alla Riforma - di Eugenia Fiorillo*

Un disegno di legge minaccia la sopravvivenza delle aree educative penitenziarie

Domenica, 24/01/2021 - Il 26 luglio del 1975, con la legge n.354 viene riformato l’ordinamento penitenziario che fissa nuove norme sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà.
Una svolta epocale per il nostro paese, che fino ad allora aveva mantenuto pressoché inalterato l’originario carattere afflittivo della pena.
La legge di riforma è stata la conclusione di un lungo processo di trasformazione avviato, nel 1948, con la Costituzione che ha fissato nuovi principi nel campo del diritto penale e in quello di applicazione della pena.

I principi fondamentali sono fissati dall’art.13 sull’inviolabilità della libertà personale, dall’art.24 sul diritto alla difesa e in particolare dall’art. 27: La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra.

La rieducazione fino al 1975 è stata intesa più in chiave di riabilitazione morale.
Dal 1975 in poi si afferma una visione della pena di respiro sociale, come gran parte delle riforme varate negli anni Settanta e Ottanta. Anni di alate trasformazioni culturali. Lo Stato con esse si adegua alle profonde trasformazioni sociali e culturali avvenute nel Paese.
Risale a quegli anni la nascita dello Statuto dei lavoratori; la legge sul divorzio; la maggiore età passa dai 21 ai 18 anni.
Di quegli anni anche: la Riforma del diritto di famiglia che sancisce l’eguaglianza fra coniugi e la condivisione di quella che oggi chiamiamo responsabilità genitoriale; la parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro; il superamento della logica manicomiale con la legge Basaglia; l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale; le norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria dellagravidanza; l’abrogazione del delitto d’onore.
La lista è lunga ma aiuta a cogliere l’accelerazione impressa dal Paese in tema di riconoscimento dei diritti individuali e collettivi.
Oggi alcune leggi possono risultare ininfluenti come ad esempio quella sul divorzio, dato il proliferare di legami more uxorio. Possono essere dati per scontati alcuni diritti, come il diritto alla salute e alle cure, salvo poi accorgersi -in questo tempo segnato dalla pandemia- che tale diritto può vacillare.
In una società liquida, come Zygmunt Bauman ha definito quella che stiamo vivendo per via dei rapidi cambiamenti che non hanno il tempo di sedimentarsi per diventare abitudini, c’è il serio rischio che vacilli anche l’impianto democratico del Paese se non ce ne prendiamo cura.

La legge n.354 del 1975 segna uno spartiacque tra il prima e il dopo: la pena non è più intesa come mera afflizione ma tempo da mettere a frutto per ristabilire il patto sociale violato.
L’articolato impianto normativo traccia la strada per arrivare a rimuovere gli ostacoli che sono stati di pregiudizio ad un positivo inserimento dell’autore di reato nel corpo sociale e per la prima volta prevede figure quali: educatori, psicologi, assistenti sociali, volontari (solo per citarne alcune). Possiamo dire che con queste figure la società civile fa ufficialmente il suo ingresso in una delle istituzioni più chiuse e impermeabili agli interventi esterni.
I primi educatori, dei veri pionieri, entrano nelle carceri nel 1979. Da allora in poi hanno sostenuto e accompagnato il processo di cambiamento che àncora il sistema custodiale al principio di recupero sociale.

Si è trattato di un processo lungo e faticoso, caratterizzato dalla diffidenza e dall’ostruzionismo di chi, fino a quel momento, aveva dato per assodato che il detenuto aveva solo doveri e non anche diritti.
Va evidenziato inoltre che la mancanza di una pre-formazione di base comune (agli educatori non veniva richiesto un diploma o una laurea specifica) ha reso ancor più difficile l’affermarsi di un ruolo del tutto nuovo nel panorama penitenziario.
Oggi però possiamo dire che quei pionieri hanno contribuito a tracciare un profilo dell’educatore penitenziario e una pratica educativa a cui tuttora si fa riferimento.
Il campo d’azione in cui si muove questa figura è così vario e mutevole da richiedere tuttavia costanti aggiustamenti rispetto all’utenza, al contesto di riferimento che solo una preparazione altamente specifica può garantire.

Nel marzo 2010, con il Contratto collettivo nazionale integrativo al profilo professionale dell’educatore penitenziario viene attribuito un nuovo nome: funzionario della professionalità giuridico pedagogica (d’ora in poi funzionario).
Purtroppo anche in questo caso, ai nuovi funzionari non viene richiesta una formazione specifica. Ancora una volta la platea degli operatori penitenziari risulta indeterminata, affollata di professionalità diverse per lo più sottoutilizzate oltre che scarsamente retribuite e senza sbocchi di carriera.

Di recente alcuni funzionari, nel rivendicare l’importanza del ruolo rivestito, hanno chiesto di confluire nei ruoli tecnici del Corpo della polizia penitenziaria.
La richiesta ha dato vita a un disegno di legge, il DDL S. 1754, attualmente in discussione.
Nel condividere la richiesta di sviluppi retributivi e professionali, si esprime un forte dissenso rispetto all’ipotesi di confluire nel Comparto sicurezza e ai motivi profilati.

In questa ipotesi si individua il serio rischio di azzerare la pluralità delle forze in campo maggiormente rappresentative: l’area sicurezza e l’area educativa. Nell’una trova posto il Corpo della polizia penitenziaria, nell’altra i funzionari (già educatori).
Le due aree, nell’assolvere i preminenti compiti istituzionali, sicurezza da un lato e recupero sociale dall’altro, risultano reciprocamente l’una al servizio dell’altra, senza soluzione di continuità nel perseguimento del comune obiettivo: la rieducazione del condannato (art.27 Cost.).
Le due aree, trasferendole nel nostro più ampio sistema sociale, riflettono le differenze che lo caratterizzano intorno all’inesauribile discussione sui temi della tutela sociale e della polifunzionalità della pena.

Il disegno di legge DDL S.1754, propone un sistema penitenziario in netta antitesi con l’assetto plurale e democratico che oggi lo contraddistingue.
Se è pur vero, che dal varo della L.354/1975 ad oggi, ancora si assiste a dispute tra istanze di risocializzazione e di sicurezza e si registrano atteggiamenti di reciproca diffidenza tra gli operatori penitenziari, tali problematiche non possono essere ricondotte all’attuale assetto organizzativo dei profili professionali, né alla dicotomica differenza di status tra gli operatori di polizia penitenziaria (Comparto sicurezza) e i funzionari della professionalità giuridico pedagogica (Comparto funzioni centrali).
C’è bisogno di ben altro per far sì che la mission di un servizio pubblico sia condivisa e validamente perseguita dai suoi attuatori.

Il DDL S.1754, a firma della senatrice D’Angelo e altri sette parlamentari, propone l’istituzione -nei ruoli tecnici del Corpo di polizia penitenziaria- del ruolo tecnico dei direttori tecnici del trattamento. In altri termini un assorbimento degli attuali funzionari della professionalità giuridico pedagogica nel Corpo della polizia penitenziaria.
Secondo il disegno di legge l’assorbimento di un ruolo nell’altro conferirebbe maggiore effettività alla funzione rieducativa della pena, altrimenti invalidata se i ruoli non fanno parte della stessa famiglia, quella della polizia penitenziaria.

Ma siamo sicuri che far parte della stessa famiglia ci mette al riparo dalle controversie?

La senatrice D’Angelo, a cui ho manifestato la mia preoccupazione e disaccordo rispetto al disegno di legge, ha cercato di rassicurarmi: “le funzioni restano separate perché separate sono le finalità. Di uguale ci potrebbe essere solo la copertura contrattuale e solo per chi lo vorrà”.
Se così fosse, se lo scopo è solo quello di uniformare gli stipendi dei funzionari della professionalità giuridico pedagogica a quelli della polizia penitenziaria e prevedere progressioni di carriera, perché non si punta direttamente a questi obiettivi?
Per migliorare le condizioni di questi operatori e dell’intero assetto organizzativo è necessario investire risorse che innovino in modo virtuoso la pubblica amministrazione.
È necessario incrementare le risorse umane, tenuto conto che l’organico della polizia penitenziaria è cronicamente carente e quello dei funzionari (già educatori) non è mai stato proporzionato al numero dei detenuti. Attualmente negli istituti di pena sono presenti 736 funzionari a fronte di una popolazione detenuta che si avvicina alle 60.000 unità, con questi numeri è difficile dare corso a una efficace presa in carico dell’utenza.
È inoltre necessario il superamento di una logica organizzativa dirigistica, verticalizzata e centralizzata del carcere. In suo luogo sono preferibili modelli organizzativi a reti, con sistemi flessibili, aperti al coinvolgimento e alla costruzione di un dialogo, orientati a conciliare le esigenze istituzionali con quelle della dimensione sociale e personale. Modelli capaci di creare valore condiviso, capaci di coinvolgere efficacemente e in modo mirato, non solo gli operatori penitenziari ma tutte le tipologie di operatori coinvolti in azioni di recupero sociale.

La Raccomandazione del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee, R(2006)2, esorta: Le autorità penitenziarie devono promuovere dei metodi di organizzazione e dei sistemi di gestione atti a facilitare una buona comunicazione tra gli istituti penitenziari e tra le diverse categorie di personale di uno stesso istituto e un buon coordinamento dei servizi - interni ed esterni all’istituto - che forniscono prestazioni a favore dei detenuti, specialmente per quel che concerne la loro presa in carico e il loro reinserimento.
Esorta anche ad avvalersi di “un numero sufficiente di specialisti quali psichiatri, psicologi, operatori sociali, insegnantied altri." 
Esorta anche ad assicurare al personale penitenziarioi benefici e le condizioni di impiego riservate alle forze dell’ordine senza però alludere a qualsivoglia assorbimento dei funzionari della professionalità giuridico pedagogica nel Corpo della polizia penitenziaria o viceversa.

Il DDL S.1754 in discussione al Senato, risulta essere in netto contrasto con la Raccomandazione R(2006)2 e con le nuove Regole penitenziarie europee (EPR), emanate nel luglio 2020.
La parte V delle nuove Raccomandazioni -che ricalca in gran parte il precedente testo- include regole che sottolineano l’importanza del ruolo di servizio pubblico delle carceri e la necessità di elevati standard professionali in capo al personale addetto agli istituti di pena.
Per spingerci in avanti, è quindi necessario sviluppare il gioco di squadra che già caratterizza il nostro sistema penitenziario, implementando l’impianto interprofessionale, dove ognuno è parte di un tutto e quand’anche lo si volesse definire la parte più importante, si tratterebbe pur sempre di parte accanto ad altre parti.

Gennaio 2021, *Eugenia Fiorillo - Coordinamento Aree Educative Penitenziarie
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Documenti a supporto delle motivazioni descritte:

ANTIGONE

Coordinamento Nazionale Aree Educative Penitenziarie

UNIONE CAMERE PENALI  NO-agli-educatori-in-divisa


DDL_S1754.pdf

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