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Chi sono, io, oggi? Un caregiver familiare - di Sara Bonanno

Chi sono, io, oggi? Un caregiver familiare - di Sara Bonanno

Mi chiamo Sara Bonanno e mio figlio è un bellissimo ragazzo di 24 anni purtroppo in gravi condizioni di salute e disabilità....

Giovedi, 12/12/2019 - Mi chiamo Sara Bonanno, sono di origine lombarda anche se sono anni che vivo a Roma con mio figlio, un bellissimo ragazzo di 24 anni purtroppo in gravi condizioni di salute e disabilità.
Come molti caregiver familiari ho perso il lavoro - ero impiegata alla ASL come assistente sociale ma, esauriti tutti i permessi e le aspettative nell'assistenza di mio figlio sono stata costretta a licenziarmi - ho perso le relazioni affettive - mio marito è deceduto dopo una patologia oncologica, amici e parenti si sono via vai rarefatti fino a sparire - ed ho perso anche gran parte della mia salute.
Come molti caregiver familiari ho visto esaurirsi i risparmi di una vita, non so più cosa significa avere una minimo di sicurezza economica e mi sono ritrovata a vivere alla giornata accanto al mio ragazzo.
Sembra strano a dirlo ma è mio figlio che mi da il coraggio e la serenità di vivere ogni giorno la vita come se fosse un'avventura: sappiamo entrambi che lui non avrà una vita lunga ma...non potersi permettere di sognare il futuro non significa vivere alla giornata. Significa decidere di vivere una vita LARGA, piena di tutto ciò che può riempire una vita: emozioni, relazioni, scoperte e passione.
Ed è questo il mio prioritario impegno con mio figlio: fare in modo che il mondo ogni attimo della sua vita raggiunga la stanzetta al settimo piano della casa popolare che abitiamo e gli riempi la vita.

La disabilità entra in una famiglia senza bussare, devastante come un terremoto.
Come con un terremoto, che in un attimo porta via tutto, casa, lavoro, amici, famiglia... il “dopo” fonderà radici profonde su una condizione traumatica che segnerà l'intera esistenza.
Basterebbe questo per comprendere l'estrema condizione di fragilità di chi vive una situazione del genere.
Ma in Italia non basta.
Secondo l'Istat il 14,9% degli Italiani (ovvero 7,3 milioni di persone) è un familiare che vive la propria esistenza nel legame affettivo ed assistenziale di chi non è autosufficiente.
Ma cosa significa “non autosufficiente”?
E' una condizione di vita per cui è indispensabile avere un'assistenza continua sia per gli aspetti più “fisici” - muoversi anche solo per girarsi nel letto, vestirsi, mangiare, bere, grattarsi il naso o...respirare - che “espressivi” - comunicare , chiedere aiuto, relazionarsi con il mondo, disbrigare pratiche, telefonare, ecc.
Tanto è più grave la disabilità tanto più è complesso ed articolato l'intervento richiesto nel garantire a questa persona una decorosa assistenza.

L'intervento assistenziale italiano è, invece, totalmente residuale: pensato ed organizzato per rispondere a limitate incombenze disomogenee e disaggregate, spesso contrassegnate da pressapochismo se non vera e propria negligenza istituzionale.
Davanti a simili difficoltà il familiare caregiver, che è in larga maggioranza una donna, è costretto a sostituire totalmente ciò che lo Stato Italiano non garantisce ai proprio cittadini più in difficoltà, e nel farlo acquisisce delle competenze uniche ed anche molto elevate al punto di essere in grado perfino di...salvare ripetutamente la vita.
Perché è inutile girarci intorno: ci sono delle condizioni di disabilità talmente estreme da rendere indispensabile un intervento sanitario tempestivo in un contesto di emergenza quotidiana, a volte anche più volte al giorno.
E' importante però sottolineare che, anche diventando espertissimo nelle pratiche rianimatorie, il familiare caregiver non passa indenne da queste esperienze perché la persona che sta cercando di riportare in vita non è un estraneo: è il proprio figlio, il genitore, il partner in una stratificazione di continuo stress psico fisico, collezionando traumi, che dal punto di vista medico, è ormai scientificamente acclarato, rappresentano una condizione ad elevatissimo rischio sanitario.
L'aspettativa di vita di un familiare caregiver è di gran lunga inferiore alla norma: essere un caregiver familiare significa ammalarsi più degli altri e...morire prima.
In Europa questo “Status” sanitario riceve attenzione e vigilanza.
Perché la consapevolezza che è solo attraverso il coinvolgimento affettivo del caregiver familiare che si riesce a garantire alla persona non autosufficiente un'esistenza dignitosa, ha portato le politiche di supporto delle nazioni civili ad investire massicciamente nella salvaguardia di questa importante risorsa, unica in grado di offrire risposte assistenziali realmente individualizzate.
Ed è proprio nell'individualizzazione delle risposte che esiste il maggior risparmio economico e sociale.
Solo in Italia non esiste alcun riconoscimento e tutela al diritto alla salute del famigliare caregiver.
Nessuna tutela.
Al contrario: nei vari consessi politici dove si discute della materia infiocchettando la questione con promesse ormai così vuote da suonare false anche a chi le pronuncia, da tempo si maneggia il riconoscimento dello Status dei familiari caregiver orientando la discussione su come sfruttare questo crescente bacino di donne, sempre più sole e sempre più stanche, in modo da sottrarre ulteriormente lo Stato a quei pochissimi obblighi assistenziali verso i cittadini con disabilità.
Si è arrivati a confondere questa condizione di estrema fragilità sanitaria, sociale ed economica con un “ruolo lavorativo”: una forza lavoro a buon mercato da sfruttare fino al totale prosciugamento.

Una prestazione lavorativa ha dei precisi presupposti: almeno 11 ore di “stacco” fisico e mentale nelle 24 ore, il diritto di restare a letto quando si ha la febbre alta, il diritto di dormire ogni notte almeno 6 ore...Eppure le nostre istituzioni sembrano ignorare che la non autosufficienza non ha un orario d'ufficio, non va in ferie, non smette di esser tale nemmeno la domenica: è un impegno totale senza soluzione di continuità. Un impegno talmente gravoso che questi famigliari scivolano inesorabilmente nella povertà, nella malattia e, troppo spesso, anche nella follia arrivando ad immaginare come unico sbocco il togliersi di mezzo insieme alla persona che amano.

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