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Contraddizioni genitoriali in uno Stato che fa fatica a tutelare i diritti umani

Contraddizioni genitoriali in uno Stato che fa fatica a tutelare i diritti umani

L’Italia si ostina a non capire che essere genitori non è solo una questione di biologia, neanche quando viene condannata dalla Corte europea dei diritti umani

Domenica, 20/11/2022 - La vita e il mondo sono fatti di contraddizioni, e a volte è davvero incredibile come queste contraddizioni non appaiano immediatamente visibili agli occhi di tutti e tutte. “Io vedo tutto, questo è il mio problema”, disse Anna Politkovskaja. E vedere tutto è davvero un problema, perché nel momento in cui si vedono quelle contraddizioni create dall’ignoranza, dalla presunzione e dal pregiudizio degli esseri umani, non è possibile girarsi dall’altra parte.

Il 10 novembre la Corte europea dei diritti umani ha nuovamente condannato l’Italia. Dovrebbe bastare questo per fare notizia, eppure sembra che l’Italia continui a collezionare condanne nella più totale indifferenza delle istituzioni – che sono obbligate ad adottare i provvedimenti necessari per eliminare le cause della violazione commessa – e della comunità – che dovrebbe essere interessata a vivere in uno Stato in cui sono assicurati i diritti civili. Leggo nella scheda della Corte europea riservata all’Italia che solo nel 2021 la Corte ha pronunciato nei nostri confronti 39 giudizi, di cui 33 hanno condannato l’Italia per almeno una violazione della Convenzione europea dei diritti umani che ha ratificato nel 1955. 33 su 39! Non è il caso di vergognarsi?
Anche stavolta l’Italia è stata condannata in una materia che l’ha vista inadempiente più volte: quella della tutela delle donne e dei bambini vittime di violenza maschile. Il ricorso è stato promosso dall’avvocata Rossella Benedetti dell’associazione Differenza Donna nell’interesse di I.M., una giovane donna che dopo aver deciso di lasciare il proprio compagno violento – dalla relazione con il quale aveva avuto due figli nati nel 2010 e 2013 – ed essersi rifugiata presso un centro antiviolenza, ha dovuto subire anche la violenza istituzionale dello Stato di cui è cittadina, perché, nonostante lei avesse denunciato le violenze subite dal suo ex compagno, il tribunale per i minorenni costrinse i bimbi per tre anni ad incontri privi di protezione con l’uomo, nonostante i ripetuti comportamenti minacciosi e aggressivi di lui. Informato di tali comportamenti, il Tribunale non adottò alcun provvedimento restrittivo nei confronti dell’uomo; tuttavia, quando all’inizio del 2016 il Tribunale fu informato che la madre non aveva portato i bimbi a due incontri (posti a 60 chilometri di distanza dalla sua abitazione) a causa di un nuovo impegno lavorativo, e nonostante lei avesse preventivamente avvisato di tale impossibilità, sospese la responsabilità genitoriale di entrambi, motivando la propria decisione nei confronti della madre con un suo atteggiamento ostile di rifiuto degli incontri programmati. Solo nel maggio 2019 il Tribunale restituì a questa madre la responsabilità genitoriale e privò della stessa l’uomo, nel frattempo condannato a sei anni di carcere per reati legati agli stupefacenti.
Valutata la violenza istituzionale subita da questa donna, la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare): riguardo ai bambini, il Tribunale italiano “non sembra aver preso in considerazione il loro benessere, specialmente perché gli incontri li hanno esposti ad essere testimoni della violenza commessa nei confronti della loro madre e anche della violenza che hanno sofferto direttamente come risultato dell’aggressione paterna”. La Corte europea dichiara di non comprendere perché il Tribunale italiano abbia deciso di proseguire gli incontri “anche se il benessere e la sicurezza dei bambini non erano garantiti”. La Corte ha dichiarato di non comprendere come ciò sia stato possibile! Evidentemente la distanza – non solo geografica ma soprattutto culturale – tra queste due magistrature non consente di comprendere come ciò possa accadere, mentre la Commissione parlamentare sul femminicidio ci ha già informati che ignorare la violenza maschile è una prassi comune nei processi di affidamento dei minori in Italia. Per la Corte europea i magistrati italiani “hanno fallito nel loro dovere di assicurare la salute e la crescita serena dei bambini”. Non solo; la Corte europea ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 8 anche nei confronti della madre, perché il Tribunale italiano “non ha preso in considerazione la situazione di violenza vissuta dalla ricorrente e i suoi bambini, o dei procedimenti penali pendenti nei confronti di G.C.” Secondo la Corte europea, i tribunali italiani “hanno fallito nell’esaminare la situazione della ricorrente con cura e hanno deciso di sospendere la sua responsabilità genitoriale sulla base del suo presunto atteggiamento ostile verso gli incontri e la condivisione della genitorialità con G.C.”
La giustizia italiana ha fallito. E non è la prima volta.

Il secondo provvedimento giudiziario che ha colpito i miei occhi in questi giorni è stata una decisione del Tribunale civile di Roma che ha disapplicato ritenendolo illegittimo un decreto emanato nel gennaio 2019 dall’allora ministro dell’interno Salvini che imponeva sulla carta d’identità dei minorenni le diciture “padre” e “madre” al posto di “genitore”. Il ricorso era stato avviato da una coppia di mamme – sostenute dalle associazioni Lenford e Famiglie Arcobaleno – che comprensibilmente rifiutavano che sulla carta d’identità della loro bambina una di loro fosse chiamata “padre”. Una simile sciocchezza sarebbe barrata con la penna rossa a scuola dalla maestra (o, per le pari opportunità, dal maestro), perché non ha alcun senso appellare con parole sbagliate le persone. Ma c’è da dire che in Italia l’attenzione all’uso corretto delle parole è parecchio scarsa, eppure le parole hanno un potere straordinario! La previsione del decreto non viola solo i principi della lingua italiana, ma – chiarisce il Tribunale di Roma - anche i principi costituzionali e sovranazionali cui l’Italia ha aderito, e costituisce un falso in atto pubblico perché i dati della carta d’identità non corrisponderebbero con quelli dell’atto di nascita e di adozione dei figli.
Quel decreto, quindi, era stato adottato per far fare un passo indietro ai diritti civili in questo Paese, perché prima di allora la dicitura era quella rispettosa della pluralità genitoriale che nel mondo esiste, perché le famiglie dei bambini e bambine sono le più varie: hanno una mamma e un papà, solo una mamma, solo un papà, due mamme, due papà, o nessuna di queste due figure perché la vita è andata in un modo diverso. È andata per esempio in modo che quello che sulla carta d’identità veniva chiamato padre ha ucciso la madre di due bambine che oggi sono affettuosamente cresciute dal fratello della loro madre, uno zio facente funzione di papà, insieme a suo marito, un altro papà. Queste sono le bambine di Alice Bredice. È andata per esempio in modo che quello che sulla carta d’identità veniva chiamato padre ha ucciso la madre di due bambine che oggi sono affettuosamente crescite dai nonni materni, chiamati ora ad essere un po’ nonni e un po’ genitori. Queste sono le bambine di Elisa Bravi. È andata in modo che quello che sulla carta d’identità veniva chiamato padre ha ucciso la madre di una bambina che oggi è affettuosamente cresciuta dai nonni materni, i quali hanno ottenuto dal Tribunale che quella bambina avesse finalmente il cognome dell’unica genitrice che l’ha amata, sua madre, rifiutando il cognome dell’uomo che biologicamente si arrogava l’appellativo di padre ma che nulla aveva del padre: quella bambina si chiama Vittoria Rea, non più Vittoria Parolisi. Perché tutti esempi di uomini-non-padri che uccidono madri? Perché la statistica dice questo. E dice purtroppo molto altro. Dice anche di uomini-non-padri che uccidono i figli per punire le donne delle quali non accettano la libertà.
Possibile davvero che si faccia ancora finta di non comprendere che l’affetto prescinde dalla biologia? Possibile davvero che ci si ostini a chiamare “padre” chi agisce pervicacemente violenza contro madri e figli? Un uomo che decide di agire violenza sui suoi figli e/o sulla loro madre non è un padre, è un padrone. E fate attenzione a notare che la radice della parola è la stessa, perché è da quella cultura della proprietà umana da parte del maschio che veniamo, e quella cultura è tutt’altro che superata se siamo ancora qui a contare quante donne vengono uccise ogni anno da uomini con cui avevano avuto una relazione sentimentale.

Ecco quindi la contraddizione: viviamo in uno Stato che da un lato si ostina a considerare famiglia un aggregato di persone in cui al legame biologico non corrisponde affetto, che si ostina ad imporre a bambini e bambine un rapporto con uomini violenti mettendo a rischio la loro incolumità personale e la loro crescita psicologica, mentre dall’altro lato si rifiuta di dare piena dignità di famiglia ad un aggregato di persone non legate tutte dalla biologia bensì dall’affetto sincero.

In entrambi i casi oggi raccontati si è raggiunta una vittoria dopo aver subìto una grande sconfitta. In entrambi i casi la vittoria non rimedia alla sconfitta subita, perché l’offesa ai diritti è talmente grave che anche se superata non può essere compensata. In entrambi i casi la vittoria è stata raggiunta a prezzo di grande fatica da parte di poche e pochi coraggiosi che hanno l’audacia e la possibilità di sfidare le istituzioni del proprio Stato, perché non si riconoscono in quelle istituzioni.

Ma uno Stato democratico non può contare sull’audacia di pochi e poche per tutelare i diritti: non sono i cittadini e le cittadine a dover lottare per i propri diritti, è il nostro Stato a doverceli garantire.

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