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Violenza intrafamiliare e violenza istituzionale: se ne è parlato a Salerno

Violenza intrafamiliare e violenza istituzionale: se ne è parlato a Salerno

Contro la medicalizzazione dei processi di affidamento familiare: ovvero quando (alcun)i magistrati si affidano troppo ai consulenti per decidere l'affidamento familiare

Giovedi, 13/06/2019 - Succede che un caso di cronaca, relativo all’esecuzione di un provvedimento giudiziario di allontanamento di un minore dalla madre, con correlata allocazione presso una casa famiglia, possa diventare momento di approfondimento che va oltre la singola vicenda in sé. Il riferimento è a quanto accaduto in Puglia la scorsa settimana, allorchè un bambino di 7 anni è stato prelevato da un presidio ospedaliero, all’atto delle sue dimissioni, per essere portato in Questura in attuazione di un decreto della Presidente del Tribunale dei minori di Lecce. Di fronte alla visione delle immagini filmate, relative a varie fasi della vicenda, documentate dall’articolo di Marilù Mastrogiovanni “Non denunciate la violenza, sennò vi tolgono i figli” pubblicato su Il Tacco d'Italia, la prima reazione potrebbe essere di sconcerto, talmente assordante è l’urlo di dolore di una mamma costretta a subire ciò che a suo parere è ingiusto.
“La presidente del Tribunale, la giudice Lucia Rabboni, supportata da assistenti sociali e dai consulenti, ha stabilito che la madre è “condizionante”: significa che, secondo loro, il bimbo non vuole vedere il padre perché condizionato dalla mamma. Dimenticano e non prendono in considerazione i fatti oggettivi: le botte, l’aver assistito alle percosse verso la madre. Il bimbo ricorda tutto, purtroppo. Ma per il Tribunale, la responsabilità è da ascrivere alla mamma” (op. cit.). Potremmo dire che siamo di fronte all’ennesimo caso giudiziario connotato dall’attribuzione di specifiche responsabilità ad una madre per il rifiuto che il proprio figlio adduce a non volere frequentare il padre.
Con questa considerazione e le conseguenti riflessioni, il giorno successivo, ossia il 7 giugno scorso, ho partecipato ad un convegno tenutosi a Salerno, su violenza intrafamiliare e violenza istituzionale, organizzato dalle associazioni Manden diritti civili e legalità, dal CIF Centro Italiano Femminile Salerno – A Voce Alta Salerno e dalla Camera per i Minori di Salerno.
In tale occasione ho avuto modo di trovare alcune risposte ad una serie di interrogativi che vari casi, oltre a quello di Lecce, si erano instillati in me. A fornirmele sono stati gli interventi del dott. Fabio Roia, attuale Presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano, e della dott.ssa Elvira Reale, Responsabile Centro Dafne - codice rosa, Azienda Ospedaliera Cardarelli di Napoli.
Il magistrato, relazionando sul tema oggetto del confronto tra esperti ha premesso che la violenza sulle donne non si risolve nelle aule di giustizia, perché necessitante di una rete sociale che sia realmente effettiva. Nello specifico, ha successivamente sottolineato un particolare aspetto che riguarda i giudizi che vedono coinvolte le madri: “Andiamo verso la medicalizzazione dei processi. Ci affidiamo troppo a Ctu, taluni dei quali non vogliono leggere e “pesare” la violenza domestica. Il minore non viene sentito ed i consulenti d’ufficio propinano la Pas, chiamandola alienazione genitoriale. Non si fanno diagnosi differenziali”. In relazione ai casi di separazione o divorzi, il dott. Roia ha precisato che da una ricerca commissionata da una giudice di Bologna risulta che nelle conseguenti sentenze “Non viene mai usata la parola violenza. Il giudice deve invece nominare quella accertata e non parlare genericamente di conflittualità, che non può essere invocata laddove ci sia asimmetria di rapporti, ossia squilibrio relazionale”.
Il magistrato milanese, già componente del Consiglio Superiore della Magistratura, ha anche evidenziato la necessità di una specializzazione dei giudici sulla violenza di genere, informando i presenti che all’uopo a Scandicci sono state predisposte dalla Scuola Superiore della Magistratura delle precipue Linee guida sulla violenza domestica, finalizzate ad evitare che la si confonda con la conflittualità tra coniugi. Tali direttive, come risulta dal sito istituzionale della Scuola Superiore della Magistratura, intendono “affinare gli strumenti di contrasto a disposizione del giudice civile, non solo con riguardo agli “ordini di protezione”, ma anche in relazione alle modalità di affidamento e visita dei figli minori ed alla compatibilità delle esigenze di protezione con quelle di garanzia della continuità affettiva tra minore e genitore asseritamente maltrattante”. Il dott. Roia, nel prosieguo del suo intervento, ha specificato che il Csm ha nominato 4 magistrati che devono verificare il grado di applicazione di tali protocolli nei singoli presidi giudiziari, di modo che si mettano i magistrati nelle condizioni di avere un approccio multidisciplinare anche sulla violenza domestica.
Quest’ultima parte dell’intervento del dott. Roia ha dato la possibilità alla dott.ssa Reale di trattare l’argomento della violenza sulle madri, in qualità di psicologa che nel corso della sua attività professionale presso il centro Dafne ha refertato dal 2009 all’incirca 1500 donne. “Si è andato ad individuare su di loro il punto debole del sistema definendole ambivalenti. Ma tale condizione è conseguenziale alla paura di perdere i figli. Questo è il vero tallone d’Achille, ben più dell’autonomia finanziaria”. I giudici civili, a detta della responsabile del centro Dafne, si sono appiattiti su alcune procedure psicologiche, affidandosi a consulenti d’ufficio che propongono procedimenti fotocopia, partendo dal presunto diritto alla bigenitorialità. Inesistente, “perché abbiamo invece un diritto in capo al minore ad essere soddisfatto nei propri bisogni primari, salute, educazione equilibrio psicologico e quant’altro. Partire, come fanno i Ctu, dal diritto alla bigenitorialità è il primo errore metodologico, “perché da esso consegue che alla fine debba transitare sempre il diritto all’affido condiviso. Molte donne vengono convinte dai consulenti d’ufficio a ritirare le denunce ed in alcuni casi addirittura dagli stessi giudici”. Quando un ex coniuge o compagno è accusato dalla donna di violenza di genere, come è accaduto a Lecce, “i giudici civili non ne tengono conto se non alla fine del terzo grado penale. Devono, invece, avviare procedure di accertamento della violenza, nonché sistemi di sua valutazione, di modo che si chiedano ai Ctu determinate domande”.
Gli interventi sia del dott. Roia che della dott.ssa Reale, andandosi ad intrecciare sul genere di interazione che dovrebbe avvenire tra i magistrati ed i loro consulenti tecnici, nonché sulla necessità di un raccordo tra i procedimenti civile di separazione ed affidamento familiare con quelli penali aventi ad oggetto denunce di violenza di genere o domestica, hanno dato l’occasione di prospettare possibili soluzioni a casi come quello avvenuto in Puglia. Invocare sempre e comunque la bigenitorialità, quale un diritto in capo ai genitori, come ben ha precisato il moderatore del confronto, il dott. Pasquale Andria, già Presidente del Tribunale dei Minori di Salerno, “è un tipo di violenza sui minori”. Nel prosieguo del suo intervento a chiusura del convegno, ha pure precisato che “Occorre lavorare sul tema delle specializzazioni dei magistrati. Immaginare di destinare risorse a determinate materie fa parte di una cultura giudiziaria, che fa ancora fatica ad affermarsi. Necessita un monitoraggio costante su quello che avviene e conseguentemente sulla qualità delle risposte, come pure che tale monitoraggio sia portato sui territori”.
I buoni propositi promananti da questa iniziativa sulla violenza intrafamiliare ed istituzionale appaiono sempre più necessari nella loro concretizzazione. Non solo per evitare traumi indelebili nei minori, ma anche violenza precipua sulle loro madri, particolarmente vulnerabili nella fase di separazione coniugale, soprattutto se essa sia stata motivata da violenza di genere ed assistita. Come ben ha rimarcato il dott. Roia “Le donne che subiscono violenza sono ambivalenti per definizione, conseguentemente bisogna che ci siano magistrati preparati a comprendere tale condizione, perché specializzati. Una mancanza di tale condizione è stata ben evidenziata dalla passata Commissione parlamentare sul femminicidio, che per tale motivo, accompagnato dall’eccessiva durata dei processi, dall’assenza di dialogo tra il procedimento penale e quello civile, ha ritenuto insufficiente la risposta giudiziaria sul tema della violenza sulle donne ed i loro figli”.
E, quindi, da auspicarsi che al più presto in ogni Palazzo di Giustizia si applichino le Linee guida di Scandicci, che si venga a monitorare da parte del pool di magistrati designati dal Csm la loro attuazione, come anche che si addivenga a specifici protocolli dell’Ordine nazionale degli psicologi sulla valutazione delle vittime di violenza, come ha ben specificato la dott.ssa Reale. Il tutto nella direzione che si evitino situazioni drammatiche come quella avvenuta a Lecce, perché come ha scritto Marilù Mastrogiovanni nel sottotitolo dell’articolo succitato, “Nessuna giustizia può permettere in nome del popolo italiano che un piccolo cittadino subisca simili traumi violenti. #noninmionome”.


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