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Dedicato ai Beni culturali il nuovo numero di EticaPA

Dedicato ai Beni culturali il nuovo numero di EticaPA

Da Walter Veltroni a Dacia Maraini a Lorenzo Casini: cono alcune delle firme del numero di EticaPA curato da Guido Melis

Giovedi, 16/03/2017 - Uscito il nuovo numero di EticaPA (nr 8 , marzo 2017) (pdf)



Il focus di questo numero è sulla storia dell’amministrazione pubblica e sulle politiche dei beni e delle attività culturali. È stato ideato e coordinato con Guido Melis, tra gli autorevoli componenti del nostro comitato scientifico, autore del pregevole contributo in cui ripercorre la storia dei beni culturali intrecciata alla storia del paese, dalla quale emergono le peculiarità della nostra PA, per coglierne “eredità e innovazione”.

È decisivo che ciascuna amministrazione ripercorra le fasi storiche, valuti le scelte presenti, si proietti nel futuro. Ma ancora più importante è che questo avvenga per l’amministrazione pubblica che gestisce il patrimonio culturale, non solo memoria del passato ma anche eredità del futuro (Lorenzo Casini), da vivere consapevolmente e da consegnare alle future generazioni.

Abbiamo voluto rimarcare la centralità dei beni e delle attività culturali, ma anche contribuire, da una specifica visuale, alla convinzione che le amministrazioni pubbliche siano articolate, con peculiari e settoriali legami tra scelte organizzative e politiche,con dinamiche e sviluppi specifici anche nella dislocazione del potere e nei rapporti con l’utenza. Gli interventi riformatori, sia sul piano organizzativo che nelle politiche, per essere efficaci, non possono forzatamente e indistintamente assimilare e omologare i differenti ambiti dei poteri e delle politiche pubbliche.

Perché concentrarsi sul Ministero dei beni, delle attività culturali e del turismo?

Vi è un legame certo tra il grado di investimento nella cultura e il livello di competitività del paese; investire nella cultura è puntare sul futuro, riannodando i rapporti con la storia collettiva. È indispensabile per costruire fiducia e partecipazione,con soluzioni non convenzionali, grazie alle nuove tecnologie e alle possibilità,anche nei saperi,di superare i confini tradizionali e ripensarli in relazioni più evolute ricostruendo anche gli intrecci tra scienza e arte. Sempre a partire dalla consapevolezza della comune storia del paese. I beni e le attività culturali costituiscono davvero, per ampiezza e dilatazione delle tematiche coinvolte, perla specificità del nostro paese, per la molteplicità degli ambiti e dei settori, per le sinergie necessarie, terreno prioritario e privilegiato per l’analisi e per l’intervento.

Il focus è introdotto dalle bellissime interviste a Walter Veltroni, proprio a partire dall’esperienza di ‘indimenticato Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo’ - che ha scelto significativamente, come Vice Ministro, il Ministero dei Beni culturali, da tanti ritenuto invece marginale -, alla grandissima Dacia Maraini, a Lorenzo Casini, autore di importantissimi testi e attualmente anche con un ruolo di forte impegno nell’amministrazione. Invitiamo a leggerle, a riflettere sui suggerimenti, a trarne occasioni per valutare esperienze e scelte effettuate, a ragionare sugli scenari possibili, sulle nuove e diversificate opportunità,così efficacemente intraviste da Madel Crasta. La scelta di Veltroni di trasformare la denominazione da Ministero dei Beni culturali a quello attuale del Mibact non è solo terminologica, ma costituisce un’opzione densa di sviluppi.

Pur con il livello, l’autorevolezza e la vivacità degli interventi, non abbiamo la pretesa di aver affrontato e neppure solo indicato tutti i molteplici ambiti e aspetti della tematica. Tante sono le specificità e le problematiche del cinema, dell’editoria, degli archivi, dei siti, dei musei, del paesaggio. Neppure pensiamo di aver potuto rispondere ai nodi prioritari su come si debba orientare la PA rispetto ai quattro principali dilemmi per i beni culturali, efficacemente sintetizzati da Lorenzo Casini e individuati nella relazione tra pubblico e privato, nelle dinamiche tra ‘retenzione’ e circolazione, tra internalizzazione ed esternalizzazione, tra natura e cultura. Abbiamo voluto solo contribuire al ragionamento sulla specificità dell’amministrazione dei beni culturali, sull’articolazione delle competenze, sul ruolo del pubblico e del privato, sulle problematiche specifiche dei fruitori, e di aver accresciuto anche la nostra sensibilità rispetto al tema in una società democratica, che promuove partecipazione e evoluzione da“audience e partner”(Madel Crasta).

A partire dalle responsabilità – antiche ma con urgenze inedite - rispetto alle emergenze, superando la logica degli interventi episodici:le emergenze irrompono continuamente e gli accadimenti sono ragionevolmente prevedibili, suggerisce Alberto Clementi nel bell’articolo dal titolo esplicito e inequivocabile “Le incerte vie del governo post sisma”.

Non a caso le riflessioni di Clementi, vertendo sulla governance del territorio, evocano un modello flessibile che consideri le specificità del territorio, valuti inevitabili errori e non ricominci ogni volta da zero: lo dice a proposito dell’esperienza realizzata nel post sisma, ma si può generalizzare.

La governance nel settore è sicuramente complicata dalla moltiplicazione e dall’intreccio, peraltro confuso, tra i livelli di governo, dalla straordinaria valenza politica e dalle necessità di competenze specialistiche. Basti pensare, ad esempio, alle sovrintendenze ‘deposito’ di sapere e di competenze straordinarie per il paese (W. Veltroni) e al dibattito in corso sul loro ruolo, allo straordinario legame con il governo delle grandi città, sul quale pure dovremmo interrogarci, però oltre le contingenze patologiche delle vicende della capitale, per nutrire di idee e programmi una visione di sistema.

Il nostro Paese è avvitato e deve riannodare le fila con il passato, per vivere il presente e proiettarsi con fiducia nel futuro. È fondamentale. Ma per questo, nella vita pubblica al pari che in quella privata, si ha necessità di imparare ad amarsi. Lo ha affermato Dacia Maraini: amare l’Italia vuol dire innanzitutto amare e curare i beni culturali disseminati, i paesaggi, farne fruire i cittadini, investire sul turismo. Occorre fare tanto, e fare bene: insomma, è indispensabile tanta PA, di qualità e rigorosa. Tanta PA anche per coinvolgere le comunità e attivare sinergie con il privato.

LA PA deve essere punto di riferimento autorevole, rassicurare, aumentare le certezze sui tempi, sui modi dei servizi effettuati, sulla sostenibilità delle scelte effettuate. Soprattutto bisogna sentire vicina e presente la PA, imparziale e non distante. Lo vediamo tutti i giorni, e lo abbiamo avvertito con forza dopo il terremoto (Alberto Clementi). Il paese ne ha bisogno, è scoraggiato, vuole allargare il proprio sguardo al futuro e riagganciarlo. Lo può fare solo sentendosi comunità, tutelando e valorizzando - senza scorgere in ciò contraddizione - il proprio patrimonio naturale e culturale. Ed è così che la PA può verificare nel concreto la capacità di esercitare la propria leadership etica.

Vi è bisogno di fatti, di qualità dell’agire amministrativo, ricostruendo il tassello delle competenze e ritrovando ruolo per il pubblico e per il privato, e ordine e coerenza nell’ambito delle competenze pubbliche. Qualche tempo fa Dacia Maraini ha affermato che in Italia potremmo vivere di arte e bellezza ma non ne riconosciamo il valore. Madel Crasta muove dal “nostro specialissimo…. impasto irripetibile di storia, paesaggio, arte, cibo una fitta trama di luoghi della cultura ad alta densità di significati di relazione fra loro”. Senza la regia pubblica e qualificata non è possibile che si attivino i territori, che si coinvolga l’associazionismo, che si attraggano le energie necessarie, tante e diversificate. Occorre promuovere le diversità come elemento costitutivo del patrimonio, ricostruire l’identità, ma un’identità plurale e articolata. Diversità nell’approccio sono indispensabili anche rispetto alle variegate specificità dell’utenza. Invitiamo a leggere l’innovativo contributo di Stefania Vannini, che apre a prospettive, ancora poco conosciute, e sollecita a riflessioni e azioni consapevoli rispetto all’accessibilità e ai fruitori, ponendo in esplicita relazione cultura e coesione sociale. Stefania Vannini ci racconta le esperienze in corso al MAXXI.

L’amministrazione eticamente orientata partecipa alla leadership etica di cui il paese ha necessità vitale, e l’autorevolezza nell’esercizio dei poteri pubblici, sia nella politica che nell’amministrazione, si esercita e si rafforza anche non sottovalutandola dimensione estetica e le relative correlazioni. Suggestivo il titolo del contributo di Giuseppe Gaeta “Kalos Kaiagathos. Creatività e buone pratiche tra estetica ed etica”. Suggestivo e denso di prospettive. È la buona e bella amministrazione quella che evoca, proponendoci una riflessione inusuale sulla valutazione nel settore artistico e dei beni culturali. Muoversi consapevolmente tra la dimensione etica e quella estetica: una sfida ?

Non è un’amministrazione pubblica più faticosa, pesante, equidistante (l’imparzialità è il contrario dell’equidistanza) ma la PA presente, vitale, capace di concretezza e di differenziazioni, più leggera e meno piena di orpelli e “normette” inutili perché più orientata, funzionale nei comportamenti, e che condivide con i cittadini senso, valori, obiettivi. È l’amministrazione pubblica eticamente orientata e ispirata dai principi costituzionali che ha bisogno di meno norme, ma conosciute e riconosciute dalla collettività e di differenziazioni piuttosto che di omogeneizzanti ma inapplicati reticoli normativi.

Un’amministrazione che per tutelare e valorizzare ha bisogno di tutte le risorse disponibili, di progetti, di tempo.

Recuperare la fiducia dei cittadini vuol dire anche sottrarre le risorse pubbliche al degrado e agli sprechi, soprattutto in ambiti significativi quali quelli di competenza del MIBACT.

La spending review è anche questo, e non solo spegnere le luci negli uffici qualche ora prima.

Giuseppe Roma, profondo conoscitore del paese che per molto tempo ha diretto il Censis, con il consueto acume fornisce una interessante lettura del recente libro di Alberto Clementi, già autore, per la nostra rivista, di interessanti saggi. Analizza il territorio urbano, considerandolo un territorio intriso di socialità. “Il territorio è occasione per trattare diffusamente i temi della contemporaneità, con una visione ispirata dalle ragioni dell’etica”.

Sul territorio urbano, i cui confini, si ricostituiscono e in cui si ridisegnano luoghi e forme di coinvolgimento, Giuseppe Roma sviluppa il ragionamento, cogliendo aspetti non scontati e di rilevanza sociale e non a caso intitolando “Le forme imminenti di una società impaurita”.

Giungendo alla conclusione “che il punto di equilibrio rispetto all’obiettiva necessità di ripensare la forma urbana non ci viene dalla dimensione fisica ma da quella etica”: ancora una volta.

L’esercizio della leadership etica nel nostro paese si esercita riconoscendo tra le priorità il preservare le inestimabili opportunità,anche estetiche, nell’arte e nel paesaggio naturale,

Occorre fare convergere tutte le competenze in progetti chiari e condivisi.

L’etica pubblica e il conseguimento degli obiettivi chiari e utili al paese è il terreno effettivo di intersezione interdisciplinare nella pubblica amministrazione, per attivare le risorse utili, utilizzarle al meglio, risponderne al paese

Troppo a lungo hanno albergato a riguardo equivoci. Si è talvolta intesa l’interdisciplinarietà con l’accompagnare a giuristi, non più solitari ma perennemente al vertice dell’amministrazione, specialismi e tecnicismi che, svolgendo funzioni strumentali e ancillari, hanno solo rafforzato le logiche preesistenti e non hanno contribuito a interrogarsi sulla nuova direzionalità da imprimere all’agire della pubblica amministrazione.

Sono tematiche di cui discutere con continuità, coinvolgendo competenze differenti e interdisciplinari.

Ci è sembrato coerente anche rimarcare l’importanza delle riviste culturali, come affermato da Valdo Spini, del quale presentiamo riflessioni tra “cultura e riviste”, che “sono qualcosa di più di un quotidiano e di meno di un libro”.

Non è casuale la scelta di valorizzarne la funzione. E non è casuale neppure il nostro proporci come rivista dentro la pubblica amministrazione, per contribuire a riflettere e a stimolare il dialogo,liberandolo dalle coazioni a ripetere.

La nostra rivista è nata dentro la pubblica amministrazione e si rivolge a tutti gli attori interni alla PA o a essa interessati. È promossa dall’associazione Nuova EticaPA ma con l’ indispensabile libertà di opinioni e di orientamento di chi vi scrive. Si propone anche come occasione, tra le altre, per il confronto tra associazioni e singoli dirigenti che nella PA sentono lo stimolo e la voglia di intervenire sulle tematiche di comune interesse. Abbiamo voluto pubblicare il bel contributo di Barbara Casagrande, che pone questioni in sintonia con “I tormenti del lavoro pubblico” di cui parla (Alessandro Bellavista).

Accompagniamo sempre ai contributi le recensioni, sovente redazionali, che corrispondono all’intento di segnalare letture utili o di condividerne l’interpretazione. È alla redazione, e particolarmente al Comitato di Coordinamento, che dobbiamo l’uscita della rivista, e soprattutto a Roberta Morroni che ne condivide con me la preparazione. Come ci ricorda Valdo Spini “dentro ogni rivista, cartacea oppure on line, c’è un gruppo, quasi sempre di volontariato culturale, che vuole crescere insieme su determinati argomenti e offre i risultati di questa crescita all’opinione pubblica potenzialmente interessata”. Valdo Spini, giustamente, ritiene questo processo tanto più necessario oggi, in quanto “siamo di fronte allo sviluppo dell’anti cultura, quella del disprezzo dell’etica pubblica della solidarietà collettiva”. Ecco, questo è il senso del nostro impegno collettivo.

Proseguiremo nel dibattito investendo anche altri settori delle politiche pubbliche. In questo numero proponiamo contributi di Simona Testana sul welfare, Marina Imperato sulla scuola, Liana Verzicco sugli enti pubblici di ricerca, settore quest’ultimo, investito da una riforma normativa per favorire uniformità e semplificazione nella disciplina. Varrà la pena di riparlarne.

Molte tra le questioni prospettate si intrecciano con quelle poste nel focus.

Il delicato e complicato rapporto tra la politica e l’amministrazione pubblica è alla base del nostro ragionamento.

Concordiamo con l’obiettivo di contribuire a rafforzare e migliorare l’operato della dirigenza pubblica. Molto se ne è discusso e se ne continua a discutere. La necessità di migliorare e di innovare è indiscutibile.

La solita ricetta semplificata (immettere percentuali di esterni, cambiandone la posologia, nel perimetro ritenuto paludoso della pubblica amministrazione) non ha funzionato, e non poteva essere diversamente. Occorre il coraggio di affermarlo, individuando modalità più utili e ragionamenti coerenti con le complessità dei problemi, per contaminare le eccellenze del privato con le migliori performance della pubblica amministrazione.

Recentemente Francesco Giavazzi e Giorgio Barberi si sono interrogati - in un libro significativamente intitolato ‘Ai signori del tempo perso’ con l’eloquente sottotitolo “i burocrati che frenano l’Italia e come provare a sconfiggerli” - su che cosa facciano gli ultimi samurai, cioè gli appartenenti alla burocrazia pubblica. Hanno trovato così geniale e prospettico l’interrogativo da dedicarvi un libro intero, per altro denso di esempi considerati decisivi ma che in realtà non attengono alla pubblica amministrazione (si pensi, per esempio, alla parte dedicata al ruolo dei TAR e dei Consiglieri di Stato).

L’analisi è la solita, le ricette pure: il ricorso ai mercati. Ricorre, evocato come un mantra in Italia da tutti per sempre per ogni ambito, purché non sia il proprio.

È l’ottusità dei burocrati che non consente, secondo gli autori, di assumere la medicina (il ricorso alla concorrenza), la stessa medicina che i politici, professori universitari, consulenti (e tassisti?) sembrerebbero sempre ansiosi di far assumere a tutti ma non alla propria categoria o corporazione.

Si trascurano le caratteristiche attuali della politica, il peso delle corporazioni, si mitizza il ‘privato’, che nella realtà italiana si intreccia invece con le degenerazioni del pubblico. Le debolezze della politica, le difficoltà nel governo, contribuiscono oggi a moltiplicare i rivoli dell’illegalità e della corruzione. Presentiamo con Leonella Cappelli il recente libro del Presidente dell’AMDI Piercamillo Davigo. Ne riparleremo, sempre senza attenuanti nell’analisi delle responsabilità della PA, ma anche non censurando l’ovvia considerazione che la corruzione non riguarda mai solo la PA: non potrebbero esistere i corrotti senza i corruttori. Nessuna facile assoluzione, ma rigore e serietà, indispensabili per problemi complessi. La pubblica amministrazione, si è detto di recente, non è abitata da monaci buddisti tibetani, ma neppure da tanti samurai e mandarini e non è in corso la battaglia di Satsuma. Non sono stati utilizzati esempi felicissimi: la realtà è più complessa, più complicati sono pure i rapporti tra pubblico e privato, tra la politica priva della forza dei grandi partiti organizzati e la dirigenza apicale. La priorità dei meccanismi di selezione per questi ultimi va affrontata in modo organico. Gli insuccessi frequenti dei manager privati prestati nella PA dovrebbero definitivamente scoraggiare la semplicistica soluzione di negare la specificità e la complessità della PA, come condizione (paradossale!) per governarla con efficienza. Tutte le volte che si constata che un manager privato prestato alla PA non ha corrisposto alle aspettative, ci si dovrebbe quanto meno utilmente e umilmente interrogare o sulla bontà della ricetta “più privato nel pubblico” o, quantomeno, sulle capacità di chi ha operato la selezione. Almeno una delle due non funziona. Insomma è realistico pensare che si possa riproporre l’immissione di qualche manager o esperto dal settore privato come panacea, salvo concludere, dopo evidenti fallimenti, che si è scelto l’esperto sbagliato? L’autocritica, quando c’è, si ferma qui. E se fosse errata proprio l’operazione semplicistica?

Come non interrogarsi, invece, sulle disarticolazioni tradizionali e sulle nuove frontiere del rapporto tra pubblico e privato?

Non è sufficiente che un manager privato occupi un posto nella PA per integrare il meglio tra le due realtà. Va invece svelata la relazione tra la politica debole e la selezione nella pubblica amministrazione di pubblici dirigenti non corrispondenti alle aspettative e ai bisogni dei cittadini, così come disegnato nella costituzione. Vi è troppa arroganza? E i cittadini la percepiscono nei rapporti con la PA? Certo, ma si è arroganti quando non si è all’altezza dei compiti propri, spesso.



L’ultima riforma della dirigenza pubblica è stata bloccata dalla sentenza della Corte Costituzionale, che non ha invece riguardato una parte consistente delle tematiche implicate. Ne continueremo a seguire l’applicazione. Proponiamo i contributi di Alessandro Bellavista “I tormenti del lavoro pubblico” e Barbara Casagrande su “La mistificazione del merito”.

E se provassimo a considerare la sentenza della Corte Costituzionale un’occasione per un confronto serio sulla dirigenza pubblica della Nazione? L’associazionismo della dirigenza pubblica e, anche i singoli dirigenti, devono proporre le proprie posizioni e aprirsi al confronto, senza complessi. Ci spaventa il colpevole assecondare la ricerca del consenso da parte dell’opinione pubblica, che dirotta contro la PA e la dirigenza pubblica – a volte a torto e a volte a ragione – rabbia e insoddisfazione, che sono strumentalmente utilizzate per disinvestire sull’intera PA e sulla dimensione pubblica nel suo complesso.

Spesso, anche nel modo con cui si affronta da parte della stampa e dell’opinione pubblica la questione dell’assenteismo, – gravissima, è ovvio! - non vi è il rigore necessario. Alla terminologia ‘furbetti del cartellino’ si accompagna un atteggiamento quasi affettuoso, sembra di vedere buffetti sulle guance. È ora invece che dentro l’amministrazione si proceda con il rigore necessario, che implica soprattutto che i comportamenti riprovevoli debbano essere contrastati nell’ambito della stessa amministrazione, lasciando alla giustizia penale il compito che le è proprio.

I dipendenti pubblici hanno il privilegio e l’onore di lavorare per l’amministrazione pubblica, devono amarla e riflettere tale consapevolezza nel rapporto con i cittadini. Non è vero che sono troppi o pagati troppo, anche rispetto agli altri paesi europei. E questo riguarda la dirigenza pubblica.

È superficiale sostenere, ad esempio, che i dipendenti pubblici siano troppi, soprattutto nel sud, e che il rapporto tra dipendenti pubblici e privati nel mezzogiorno sia troppo elevato a vantaggio dei primi, senza notare che questo dipende dal basso tasso di occupazione nel privato.

I dipendenti pubblici, soprattutto la dirigenza, e la politica devono trovare insieme un rinnovato slancio, motivazione e senso di appartenenza alla dimensione pubblica.

Concludiamo sul punto con Walter Veltroni, e non si potrebbe dire meglio. “Ho avuto esperienze di governo e ho capito quanto siano fessi i pregiudizi stereotipati sulla capacità di agire della PA. Bisogna far sentire i dirigenti, funzionari e impiegati coinvolti in qualcosa che li riguarda, che li appassiona, che li coinvolge. Un successo deve essere di tutti, non solo del Ministro o del Sindaco di turno. Mi viene in mente una bella frase di Saint Exupery: se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito”.

Occorrono ulteriori riforme? Il frutto mancato, secondo la definizione di Mochi Sismondi, in occasione del rapporto annuale 2016 di FPA. Ogni legislatura ritiene doveroso cimentarsi con il cosiddetto mito della riforma della PA (Alessandro Bellavista).

Alcuni aspetti della disciplina per la dirigenza evocano interventi ancora da scrivere. Penso, in particolare al ruolo unico della dirigenza, che nella amministrazione irrazionalmente frastagliata costituirebbe un elemento di razionalizzazione e ingrediente per l’innovazione. Ma non bisogna cedere alla tentazione di procedere subito a nuovi interventi normativi.

Molte parti della recente riforma attendono ora attuazione e valutazione. Concentriamoci su questo.

La valutazione è fondamentale anche nel campo dell’arte e dei beni culturali, come suggerisce in modo argomentato Giuseppe Gaeta, che ne sottolinea la necessità per decidere e effettuare scelte che si trasformano in azioni.



La valutazione è decisiva sia per valutare il comportamento dei singoli che delle politiche. È fattore di cambiamento e di trasformazione, in quanto pone interrogativi etici e problematiche destrutturanti, destinate però ad aggregare l’innovazione. Credo proprio che la valutazione, in un’ ottica di genere – questo aspetto mi pare prioritario - costituisca il veicolo trainante per attrarre innovazione e attuare trasformazioni anche dentro la pubblica amministrazione, scardinando i confini tradizionali del sapere e dell’agire nell’organizzazione interna e nelle relazioni esterne. Declinare in un’ottica di genere è esercizio non consueto ma indispensabile, che riporta obbligatoriamente alla concretezza e alle diversità del vivere e degli individui, che introduce istanze nuove, dirompenti ma anche riaggreganti, che sventaglia l’esercizio dei pubblici poteri in ambiti e con modalità non automaticamente attingibili ai linguaggi conosciuti e alle esperienze già praticate.

Vi è un legame tra l’ottica di genere e il miglioramento della PA, tra valutazione e migliore funzionamento. La lettura di genere contribuisce a svelare parzialità, discriminazioni, il carattere desueto di codici comportamentali e mentali.

Soprattutto, la valutazione introduce consapevolezza. E attorno alla consapevolezza si costruisce una concezione moderna della responsabilità, che non scaturisca da logiche, pure attente, di tipo adempimentale. Non è aumentando il reticolo degli adempimenti che accresce la consapevolezza, ma concentrandosi su obiettivi, finalità, praticando valori condivisi e orientando la strumentazione. L’uso attento e consapevole della valutazione implica capacità di mettersi in gioco e di seguire il cambiamento.

È quanto abbiamo appreso da Nicoletta Stame, componente del nostro Comitato Scientifico.

Invitiamo a leggere Nicoletta Stame e Mita Marra



Nicoletta Stame ha opportunamente riflettuto su come l’aver respinto attraverso il voto referendario la proposta di riforma del Senato (che contemplava esplicitamente tra le funzioni del Senato quella della valutazione), non implica affatto che il Parlamento non debba comunque occuparsi di valutazione. Il legislatore, senza gli occhiali della valutazione è miope o presbite : vede poco e male, e non costruisce un ponte tra le leggi e l’attuazione che ne opera la pubblica amministrazione.

La valutazione aiuta e favorisce anche il dialogo, è per definizione etica e pluralistica , aiuta a ‘prendersi cura’, a disincrostare luoghi comuni, a non attingere a stereotipi. Con Giuseppe Gaeta: “lo scopo (e la sfida) è che la valutazione sia liberata presto dello scomodo ruolo del ‘convitato di pietra’ per incarnare quello, più auspicabile, di facilitare l’accelerazione e l’armonizzazione dei processi di individuazione e di valorizzazione della qualità”

Valutare gli interventi non significa decretarne il fallimento. Bisognerebbe abituarsi a non far coincidere le riflessioni sui temi con interventi aprioristici che ricalcano gli schieramenti politici. Sarebbe bello se di fatto tra le forze politiche ci si accordasse per sottrarre alla strumentalizzazione e alle contingenze l’operato della PA, nell’interesse di tutti. Per i beni e le attività culturali vi è bisogno di tempo.

Sono proprio gli interventi che funzionano che meritano, dopo un’attenta e seria valutazione, sviluppi e proiezioni. Occorre riflettere sulle scelte operate per migliorarne comunque l’efficacia. Come invita Walter Veltroni, con l’auspicio di evitare che chi arriva a governare, sempre e comunque, disfi ciò che è stato fatto prima.

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