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Discriminazioni sessiste: una battaglia mondiale

Discriminazioni sessiste: una battaglia mondiale

- Divieti arcaici per le donne, mutilazioni genitali femminili, ossessione religiosa verso il corpo. Il mondo è più piccolo e l’impatto delle discriminazioni investe tutti i paesi

Stefania Friggeri Domenica, 13/11/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Novembre 2016

La scorsa estate in Arabia Saudita è comparso sui social media l’hastag #StopEscalvingSaudiWomen (mettete fine alla schiavitù delle donne saudite), un appello che chiede la fine della totale sottomissione delle donne alla volontà del maschio, sia esso il padre, il marito, il fratello e addirittura il figlio. È noto che in Arabia Saudita le donne non possono guidare, ma in realtà non è solo questo divieto che complica loro la vita poiché, condannate alla segregazione come un tempo gli schiavi in Sudafrica, devono avere l’assenso di un parente maschio per qualsiasi loro iniziativa al di fuori delle mura domestiche. Scrive Mona Eltahawy: “Tutti dipendevamo da mio padre che doveva scarrozzarci a destra e a manca … in autobus (io e mia madre) dovevamo arrancare fino alle ultime due file … quelle riservate alle donne”; ancora: “…. Essere femmine in Arabia Saudita significa essere l’incarnazione ambulante del peccato … i religiosi che spesso intervenivano nei programmi della TV saudita erano ossessionati dalle donne e dai loro orifizi, e soprattutto da quel che ne usciva … se un neonato maschio ti urinava addosso, potevi tenere gli stessi abiti, ma se lo faceva una femminuccia allora ti dovevi cambiare”. Sesso e religione, questo il binomio della misoginia presente nei paesi musulmani fin dai tempi medioevali in cui, complice il livello primitivo della scienza medica, si guardava, al corpo della donna con inquietudine e morbosità, come dice Mona: il corpo femminile è una tentazione che induce al peccato, è un mistero che dà alla luce la vita, è un ente ripugnante perché ne esce un sangue corrotto. Scrive la scrittrice egiziana Rifaat: “Il fatto è che crescere non dà alcuna gioia ad una femmina, non è che una sequela di disastri al cui termine ci si ritrova vecchie, inutili e, se si ha fortuna, in compagnia di qualcuno che ci compatisce.” E fra i disastri cui allude Rafaat ci sono i matrimoni precoci, anche con un uomo anziano, la colpevolizzazione della donna in caso di stupro e, in alcune regioni, le Mgf, le mutilazioni genitali femminili. Le Mgf, praticate in nome della purezza, spengono il desiderio sessuale in una cultura dove infatti è abituale, per le motivazioni più varie, sottoporre le donne al “test di verginità”, come è accaduto quando hanno osato entrare nello spazio pubblico durante la cosiddetta “primavera araba”. Perché le donne del Medio Oriente e del Nordafrica devono fare due rivoluzioni: una per rovesciare il regime, l’altra per combattere la misoginia. Al Nour, il partito religioso salafita, in occasione delle prime elezioni in Egitto, al posto del viso della candidata ha messo l’immagine di un fiore: la religione infatti, alleata storica dei costumi patriarcale, conferma la bontà della tradizionale sottomissione femminile e contribuisce ad espellere la donna dalla sfera pubblica. Con effetti nefasti perché, avendo la religione una forte valenza sociale, civile e politica in senso lato (vedi i “beni non negoziabili” del magistero cattolico), le usanze, i valori nati nel tempo attraverso le convenzioni sociali, e dunque modificabili, sono diventati sacri e dunque eterni, immutabili.

È vero che il mondo oggi si è fatto più piccolo, che la rivoluzione nel sistema delle comunicazioni sta creando in quei paesi, dove la maggioranza della popolazione è giovane, una bomba sociale destinata prima o poi ad esplodere, influenzando anche la condizione della donna. Ma intanto anche l’Occidente deve fare i conti con questa realtà incandescente. Lo si è visto nell’estate con il caso del burkini in Francia è stato vietato. La risposta dei francesi ha suscitato un grande dibattito: il divieto del burkini è sembrato ipocrita sia perché, in nome del femminismo, ha imposto alla donna un divieto, anzi l’ordine di spogliarsi, cioè un messaggio autoritario, sia perché ha impedito alle donne di scegliere liberamente. In realtà pare esagerato parlare di libera scelta da parte di donne oppresse dalle costrizioni familiari e comunitarie, da pressioni culturali che agiscono sulla psiche con forza inaudita. È più probabile che la scelta del burkini, e non solo, nasca dal meccanismo di asservimento volontario già descritto secoli fa da Etienne de la Boétie. Inoltre, come ha detto Azar Nafissi, l’autrice iraniano-americana di “Leggere Lolita a Teheran”, “Sono d’accordo con chi dice di avere il diritto di indossarlo (il velo o il burkini) se difende anche le donne in Iran e in Arabia Saudita”. Infatti il burkini non è una moda, ma il segno che l’islamismo radicale, l’islam della teocrazia iraniana e l’islam wahabita e salafita promosso dai petroldollari sauditi, sono ovunque all’offensiva: non si tratta di una questione religiosa, ma politica. Che usa il corpo delle donne come segnale simbolico. È vero: “Ritenere che la libertà femminile si misuri dai centimetri di corpo esposti allo sguardo altrui è far torto alla dignità delle donne. Per non dire che, come ci insegna Roland Barthes, il valore estetico-erotico insito nell’abbigliarsi risiede proprio nel gioco di nascondere alcune parti del corpo… al pari del velo il burkini è in fondo un oggetto feticistico costruito dal discorso egemonico che vale a evocare una differenza irriducibile fra ‘noi’ e ‘loro’”(A.M. Rivera). Ed infatti alcuni sindaci, di fronte alla differenza fra i generi sbandierata in modo così visibile ed irragionevole sulle spiagge, si sono fatti parte attiva nel promuovere la parità di genere sul territorio francese. Ma l’iniziativa, bocciata poi dall’Alta Corte, non avrebbe potuto ottenere l’effetto desiderato: è assurdo che in nome di un’ideologia e/o del femminismo (vissuti però come una forma di colonialismo dell’Occidente), una società “liberal” imponga alle donne di svestirsi, impedendo loro di “sentirsi a casa” e, si spera, di familiarizzare con le francesi e di sentire il loro sostegno; perché solo la collaborazione femminile può incrinare il muro della discriminazione. Non v’è dubbio insomma che l’emancipazione femminile, in un mondo che ignora la laicità e ispira il codice alla sharia, potrà avvenire solo grazie ad un cambiamento spontaneo interno alla società; un processo di più generazioni ma intanto il dibattito sul burkini ha indotto i musulmani francesi, e non solo, ad interrogarsi e a guardare in modo più consapevole alla religione e al suo impatto in tema di diritti delle donne (a partire dal diritto alla salute perché la mancanza di sole nuoce alla pelle e alle ossa). Diritti che non a caso vengono regolarmente schiacciati nei paesi governati da un regime, là dove i valori “virili” dell’autorità si sposano con il richiamo all’ordine “naturale” della religione, in un cammino di reciproca convenienza nel negare alle donne il diritto all’autodeterminazione. L’abbiamo visto in Italia al tempo del fascismo, ricompare oggi in Polonia dove le donne ad ottobre si sono mobilitate, vestite di un nero funereo, per protestare contro il progetto di legge promosso dai cattolici fondamentalisti che vieta l’aborto anche in caso di malformazione del feto, di stupro, di incesto. La mobilitazione delle donne, culminata nel “lunedì nero”, ha costretto il regime a fare marcia indietro. Per ora. Infatti, essendo la destra reazionaria un’alleata storica degli ambienti religiosi più arretrati, le donne devono vigilare per non perdere i diritti faticosamente conquistati: oggi la crisi economica e il problema dei migranti sta facendo avanzare in Europa una ideologia conservatrice, nazionalista ed antidemocratica, che le donne devono combattere con determinazione perché, in nome della religione, sarebbero le prime vittime dell’intolleranza e dell’autoritarismo.

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