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Donna delle Istituzioni al servizio del Paese: Iole Falco, dirigente di Polizia Penitenziaria

Donna delle Istituzioni al servizio del Paese: Iole Falco, dirigente di Polizia Penitenziaria

Avvocata, ha scelto di entrare in Polizia: un'interessante esperienza umana e professionale (Intervista di Livia Capasso)

Giovedi, 31/08/2023 - Quando sei sulla spiaggia e non fai il bagno a mare né sei distesa sulla sdraio a prendere il sole, che fai? Chiacchieri con la tua vicina di ombrellone. È così che ho conosciuto Iole Falco, una bella ragazza, mora, minuta, sempre curata e raffinata (si può essere raffinate anche in costume e copricostume!). Ho conosciuto per la verità prima la mamma, che scende in spiaggia col nipotino, figlio di Iole, e da lei ho appreso il particolare lavoro della figlia, dirigente del Corpo di Polizia Penitenziaria, e mi è venuta la curiosità di saperne di più. Le ho proposto quindi un’intervista che lei ha accettato molto volentieri.

Che tipo di formazione hai e quando hai deciso di entrare in Polizia? Come o da cosa è stato determinato l’orientamento verso questa scelta?
Provengo da studi classici, mi sono laureata in Giurisprudenza alla Federico II di Napoli. Ho conseguito poi l’abilitazione all’esercizio della professione forense e prima di entrare in Polizia ho svolto la libera professione con particolare riferimento al contenzioso amministrativo. Tutto è iniziato per caso: spinta da una cara amica e collega, mentre comunque mi dedicavo con passione al mio lavoro di avvocata, ho voluto condividere con lei un’esperienza concorsuale, quella per Commissario di Polizia Penitenziaria. Superato il concorso, il primo a cui partecipavo, ho dovuto affrontare poi una non facile scelta: abbandonare l’avvocatura e intraprendere questo nuovo, ma sconosciuto percorso, o continuare una professione che comunque amavo. Quando ho scelto di presentarmi il primo giorno al corso di formazione biennale, ho capito che quella decisione era qualcosa di più di una mera scelta professionale, era una scelta di vita che aveva una forte vocazione umana e per fortuna quella vocazione mi accompagna ancora oggi.

Ci racconti brevemente la tua carriera? Quali sono stati i maggiori ostacoli incontrati lungo il percorso? Quali le maggiori soddisfazioni?
Dopo il corso di formazione, che si è svolto presso l’Istituto superiore di Studi Penitenziari di Roma, sono stata assegnata alla casa circondariale di Padova con funzione di Vice-comandante del reparto. Successivamente ho ricoperto l’incarico di Vice-comandante della Terza casa circondariale di Roma Rebibbia. Dopo questa esperienza in Istituti c’è stato per me un nuovo, intenso, diversificato percorso extra-moenia, prima nel Servizio Interforze di Analisi criminale del Dipartimento di P.S. del Ministero dell’Interno, e poi presso il Ministero della Giustizia come responsabile dell’ufficio Terzo, Grazie e Casellario Giudiziario centrale della Direzione generale Affari interni del dicastero. Attualmente sono responsabile della sezione Contenzioso Affari Legali dell’Ufficio Terzo dell’Amministrazione penitenziaria. Mi ritengo molto fortunata per aver svolto una carriera, per quanto ancora giovane, ma già piena di entusiasmanti esperienze, molto diverse tra loro. Ho sempre incontrato persone capaci di guardare oltre l’apparenza, ma non nego che in alcuni momenti, specialmente quelli iniziali, vissuti in Istituto, il senso di diffidenza, di scetticismo l’ho avvertito in maniera anche prepotente. Quando ho varcato la porta di un carcere, agli inizi della mia carriera, ho chiaramente sentito la difficoltà da parte del personale maschile, comunque gerarchicamente a me subordinato, di interfacciarsi con una donna giovane, per di più in posizione di comando. L’ho percepito nei comportamenti, nella gestualità, negli sguardi. Devo essere onesta e ammettere che sono stata molto fortunata, perché non mi è mai capitato di essere oggetto di comportamenti sessisti, e ho sempre goduto del rispetto che formalmente competeva al mio ruolo. Ora che lavoro extra-moenia in sede ministeriale questa sensazione si è affievolita È un dato inconfutabile che ancora oggi ai vertici delle strutture della P.A. in generale e di quelle della Polizia e delle Forze Armate in particolare le donne sono ancora in netta minoranza, come è altrettanto vero che agli occhi, per fortuna non di tutti, ma di molti, donna e comando sono due realtà fra loro incompatibili. Le soddisfazioni che ho avuto, però, sono state tante, prima fra tutte il quotidiano riconoscimento da parte dei miei collaboratori e dei miei superiori di quello spazio di autorevolezza che negli anni faticosamente sono riuscita a conquistare. Oggi ho relazioni lavorative, ma anche umane di amicizia, di rispetto reciproco, di collaborazione, di stima che mi ripagano dei sacrifici fatti.

Hai avuto delle figure che hanno influito sulla tua storia professionale?
Senza alcuna distinzione di genere, nel mio percorso professionale ho osservato con attenzione nel tempo molti dei mei colleghi dirigenti e molti direttori dei vari uffici presso cui ho prestato la mia attività, acquisendo grazie a loro il senso vero e profondo della nostra professione, della mia professione in un ambito ampio e complesso quanto è quello dell’esecuzione della pena, caratterizzato da molteplici aspetti, da numerose sfumature che possono essere comprese solo con una profonda passione, solo con un vero spirito di abnegazione, e con un senso di appartenenza al Corpo e alle Istituzioni dello Stato in generale.

Durante la tua carriera sei sempre stata considerata alla pari dei colleghi o, in qualche circostanza ti sei sentita in dovere di dimostrare qualcosa di più? Quanto è difficile essere donna in Polizia?
Non sono mancati momenti, circostanze, occasioni, soprattutto nei periodi iniziali della mia carriera in cui ho avvertito la necessità di dover dimostrare qualcosa di più, soprattutto di essere all’altezza, di potercela fare in quella costante, faticosa richiesta del proprio valore, in un processo di affermazione di sé agli occhi degli altri. Di fronte a quello che in un primo momento sembrava un rifiuto della mia posizione, ho capito poi che nella maggior parte dei casi era soltanto paura, paura del cambiamento, paura di qualcosa di diverso rispetto al passato. Questo credo sia stato fortemente condizionato anche dal contesto essenzialmente maschile, ma anche dalla storia, considerato che a differenza degli altri Corpi di Polizia le donne sono entrate nel Corpo di Polizia Penitenziaria soltanto con la legge di Riforma del Corpo 395 del 1990. Essere donne in Polizia non è semplice, non è nemmeno difficile, diciamo è diverso e rappresenta per la storia delle istituzioni, per il Corpo che mi pregio di rappresentare, ma lo è sicuramente per tutte le altre Forze Armate, un valore aggiunto, un valore che non deve essere sfacciatamente esaltato, ma nemmeno forzatamente celato. Vestire l’uniforme, magari anche ricoprendo incarichi in ruoli di vertice da donna significa semplicemente dimostrare che la forza di un’istituzione non ha connotazione di genere, ma sta nella mente, nell’intelligenza, nella capacità di intervento, nell’autorevolezza e nel cuore di chi quell’uniforme la indossa ogni giorno.

Come giudichi la componente femminile in Polizia? C’è un orientamento a riequilibrare la componente femminile?
Le donne in Polizia sono sicuramente sempre di più, e oggi ricoprono tutti i ruoli, da quelli ordinari, tecnico-scientifici, fino a quelli dirigenziali. Per il Corpo di Polizia Penitenziaria il discorso è un po’ diverso in quanto la presenza di donne nel Corpo che rappresento è una novità introdotta con la legge del ’90. Per i ruoli apicali la diversificazione di impiego tra uomini e donne non è prescritta, mentre permane per gli altri ruoli del personale femminile che può essere impiegato esclusivamente in reparti femminili. Secondo me l’abrogazione, il superamento di tale norma, chiaramente attraverso il giusto contemperamento degli aspetti giuridici, psicologici e comportamentali, consentirebbe di disporre di significative quote di professionalità, di avere una più razionale distribuzione delle risorse in termini di efficientamento del Corpo e del sistema penitenziario in generale.

Cosa dovrebbe essere fatto per garantire uguali diritti ed opportunità di carriera alle donne in Polizia e non solo?
Per fortuna oggi le opportunità di accesso e di carriera per una donna in Polizia sono le stesse che per un uomo; quello che secondo me rimane un retaggio maschilista è la percezione che di una donna in divisa magari anche in ruoli di comando ha il mondo esterno nella vita di tutti i giorni. Allora diventa un problema di cultura, però non solo di cultura del contesto lavorativo di appartenenza e del ruolo che si riveste, ma un problema di cultura nazionale, perché che sia una donna dirigente di Polizia Penitenziaria o manager di una grande azienda o primaria ospedaliera c’è ancora chi si stupisce. Ciò vuol dire che ancora molto c’è da fare, visto che siamo nel 2023 e il paese che si pone tra le prime potenze e democrazie tra le più importanti del mondo occidentale non dovrebbe certo sorprendersi se in certi ambiti il potere e il comando sono nelle mani di una donna. Bisogna allora promuovere delle reali condizioni di uguaglianza tra uomini e donne in Polizia e in generale nel mondo del lavoro, attraverso l’adozione di misure anche legislative idonee, favorire l’emancipazione culturale, civile, sociale della donna, ma anche in generale della società nei confronti della donna che lavora, in Polizia, nelle Forze dell’Ordine, e in ogni ambiente lavorativo. Bisogna continuare la battaglia nelle commissioni, nei comitati di Pari Opportunità, che sono stati istituiti nelle varie amministrazioni per garantire condizioni necessarie di reale parità tra uomini e donne, valorizzando anche la differenza per consentire di coniugare con successo l’attività lavorativa con le proprie scelte di vita. Bisogna iniziare a costruire dal basso, soprattutto attraverso attività di interlocuzione con le istituzioni, le condizioni per l’elaborazione di proposte anche governative su temi fondamentali, quali lo sviluppo della persona, le politiche salariali, la vivibilità negli ambienti di lavoro, la tutela della famiglia, la salute di genere, la maternità, e continuare quella battaglia importante di civiltà che riguarda le molestie sul lavoro nei confronti delle donne.

Che consigli daresti alle giovani laureate in giurisprudenza che si stanno affacciando al mondo del lavoro per emergere e dimostrare le proprie capacità?
Sicuramente consiglierei di seguire le proprie passioni, di cercare di superare i propri limiti senza avere paura del giudizio degli altri, credendo sempre fortemente in sé stesse. A questo proposito ti racconto un aneddoto: sulla sciabola regalatami da mia madre in occasione del giuramento ho fatto incidere un motto latino coniato da Gabriele D’Annunzio Memento audere semper. Ecco, se dovessi lasciare alle giovani donne laureate in Giurisprudenza oggi un messaggio, direi loro di osare sempre proprio per poter realizzare i propri obiettivi nel rispetto del valore della legalità quale principio ispiratore del proprio percorso di studi e del proprio futuro professionale.

Come concili lavoro e famiglia?
Lo faccio con entusiasmo e con sacrificio, spesso con qualche rinuncia sia da una parte che dall’altra, ma sempre animata da un profondo senso di appartenenza al corpo che mi onoro di rappresentare. sempre fiera e orgogliosa di essere una donna delle Istituzioni, al servizio del Paese.
Intervista di Livia Capasso


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