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I nostri corpi, un mondo da scoprire

I nostri corpi, un mondo da scoprire

Parliamo di bioetica - Riflessioni e suggestioni a margine della Mostra Body World. Ovvero quando lo spettacolo della morte sembra profanazione e per altri è invece consolazione

Susanna Penco Martedi, 28/06/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2016

Se è vero che la verità non è ciò che è ma ciò che sembra, viene proprio da pensare che gli ex proprietari dei corpi esposti alla Mostra Body World (a Genova fino al 31 luglio 2016) siano morti senza soffrire. Contenti e vitalissimi. In barba ai detrattori dell’idea, di chi crede che sia quasi blasfemo offrire un cadavere in posa plastica allo sguardo dei curiosi. È forse stata questa la sensazione più confortante: se anche hanno sofferto e hanno varcato la soglia più destabilizzante ora, mentre li guardo, essi sono felici. Sono entrata timidamente, quasi mi sarei messa le dita sugli occhi come quando guardavo i film horror da ragazzina. Dopo pochi passi ero rapita dalla visione, inedita perfino per me che ho assistito a maleodoranti autopsie, del corpo umano spogliato di pelle e grasso. Pezzi del corpo umano custoditi in teche, cadaveri interi praticamente immortalizzati e purificati sapientemente aperti sugli organi interni per mostrare la tecnicità perfetta del nostro corpo, filmati che raccontano come esplode un’arteria infartuata, o il passaggio della corrente elettrica nei nostri nervi e, per coinvolgere l’udito oltre che la vista, la quasi esoterica e monotona musica del cuore: il famoso “tum-tà” ben noto ai cardiologi. Detto così viene paura. Molte persone quasi inorridiscono di fronte alla spettacolarizzazione della morte, che per me è stata invece consolazione. L’esposizione della nudità estrema, quella vera, giudicata oscena, disdicevole, indecente, quasi lubrica, per me è stato al contrario trovare un senso alla morte. Io non temo la solitudine. Anzi, sono pubblica e sociale più per necessità che per intima vocazione. Ma la bambina che c’è in me evidentemente teme la solitudine dei morti perché, se la solitudine dei vivi mi sembra una risorsa, quella dei morti non la conosco e per questo mi inquieta. Motivo per cui vegliavo il sonno degli animali morti quando ero piccola. Dire che la mostra è didatticamente ineccepibile, che è fonte di conoscenza perfino per gli addetti ai lavori, che anche il consiglio di abbandonare il pacchetto di sigarette all’uscita è perfetto, è banalizzarne il senso. È pur vero che ho finalmente scoperto come è davvero fatto il nervo sciatico e che mio marito si è dato pace scoprendo che la prostata è una castagnetta posta vicino alla vescica e che, se si ingrossa, rende urgente il bisogno di fare la pipì. Ma non stata soltanto l’osservazione inedita dei cadaveri aperti visti da vicino che mi ha entusiasmato, e neppure la descrizione del geniale metodo di “plastinazione” dei morti (una sorta di imbalsamazione moderna), bensì il senso filosofico della visione dei vivi che guardano i morti facendo loro compagnia. Quei corpi a strisce bianche e rossastre, spogliati della pelle, messi in pose vive e plastiche (la concentrazione del pensatore davanti agli scacchi con il mento appoggiato alle mani, la realisticità dell’acrobazia della coppia di pattinatori, la bellezza fiera della coppia cristallizzata eppure così vitale dei Titanic, con lei con i piedi piantati sulle cosce di lui e le braccia spalancate) mi hanno tolto il senso di pudore e quasi di vergogna dello spiare un corpo senza vita. Ero lì apposta per vederli, guardarli, osservarli, e giudicarli. C’era un’altra sorpresa: la stanza della maternità, cui poteva acceder solo chi se la sentiva. Immaginate il mio stupore quando ho visto, intorno alle piccole teche con dentro feti di varie età, dai più piccoli meno inquietanti fino a quelli coperti di finissima peluria che erano quasi dei neonati, alcuni vitalissimi bambini affettuosi e per nulla intimiditi dalla morte, che scrutavano il sesso dei feti, e commentavano con frasi infantili il concetto dell’aborto volontario, mentre le madri, con sorrisi un po’ imbarazzati, cercavano quasi scusandosi l’ indulgenza nel mio sguardo che per caso ascoltavo l’allegria delle nuove vite vicino a bambini mai nati…Se tutto ciò può apparire irriverente, io so bene che quei cadaveri (e le madri dei feti) avevano dato, da vivi, il loro placet a quel trattamento immortalizzante, senza condizioni: un vero consenso informato responsabile. Credo che loro, come me , forse temessero la freddezza della bara e della sepoltura oppure l’incandescenza della cremazione: hanno scelto liberamente di restare alla luce, all’aperto, in compagnia dei vivi e di altri morti. Forse avevano fame di infinito, sete di immortalità, claustrofobia e ..vanità. Come li capisco! Tanto io sono stata e sono donna per nulla vanitosa da viva (anzi, talvolta quasi sciatta!) quanto vorrei recuperare apparenza da morta. Desidero farmi guardare, osservare, perfino ammirare nuda senza pelle, libera dai batteri e dalla putrefazione (sono ossessionata dalla decomposizione come il regista Peter Greenaway ne “Lo zoo di Venere”), eternamente (o quasi) intatta, curata, accudita, amorevolmente trasferita di città in città, per la curiosità (o per il superamento della paura) di chi mi starà accanto per un tempo breve ma intenso, con la voglia di carpire i segreti della mia vivace immobilità.



*Biologa del Dipartimento di Medicina Sperimentale dell’Università di Genova

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