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Il diritto di dire NO ALLE ARMI

Il diritto di dire NO ALLE ARMI

In un mondo sempre più precipitato nella guerra, c’è ancora chi fermamente rifiuta la violenza

Mercoledi, 20/04/2022 - Sono stata in un luna park: i bambini vengono invitati a sparare contro dei bersagli per ottenere un premio.
Sono stata in un negozio di giocattoli: il reparto azzurro è pieno di pistole, fucili, spade laser e carri armati.
Sono stata in un negozio di elettronica: molti videogiochi consistono nell’uccidere avversari umani, mostruosi o alieni con vari tipi di armi.
Ne ho dedotto che nell’educazione dei nostri bambini giocare con le armi sia considerato piuttosto normale, e che sia considerato sano “giocare alla guerra”.

Tuttavia, c’era una volta un bambino, non molto tempo fa, a cui non piaceva giocare alla guerra e che non provava alcun piacere nel maneggiare una pistola o un fucile. O perfino una spada laser. Quel bambino preferiva la pace. E non temeva per questo la derisione dei suoi compagnetti, non temeva per questo di sembrare meno maschio, di venire etichettato come una “femminuccia” (anatema scagliato contro i maschi che non corrispondono ad un certo canone sociale di virilità considerato deplorevolmente e ignorantemente “naturale”). No, quel bambino non temeva niente di tutto ciò e giocava alla pace.
Qualche anno più tardi quel bambino divenne un uomo, e il suo Stato lo chiamò per assolvere al dovere che tutti gli uomini devono al proprio Stato: prestare servizio militare, allenarsi cioè a fare la guerra, quella vera. Quell’uomo, però, continuava a disprezzare le armi, e perciò oppose la sua coscienza alla chiamata dello Stato: obiettò che la sua coscienza gli impediva di allenarsi ad usare armi e ad agire violenza contro qualcun altro. E il suo Stato dovette rispettare la sua obiezione.
Qualche anno ancora più tardi quell’uomo decise di andare a lavorare nel Corpo di Polizia municipale di Ferrara, uno dei pochi Comuni italiani che ancora non prevedeva l’armamento dei suoi agenti, ribadendo anche in quell’occasione la propria obiezione di coscienza ad un eventuale armamento; obiezione che anche in quell’occasione fu accolta e rispettata dal suo Stato. Da allora svolse sempre il proprio lavoro con dedizione e soddisfazione, interpretando quel ruolo a servizio della sua comunità.

Qualche anno ancora più tardi il suo Comune, cioè il suo datore di lavoro, decise che fosse indispensabile l’armamento della Polizia municipale, e di conseguenza, preso atto della sua precedente obiezione di coscienza e senza offrirgli alcuna alternativa, lo trasferì in un ufficio che non prevede alcuna attività esterna; in questo modo non solo sottraendolo all’attività operativa che aveva sempre svolto, ma anche provocandogli un danno economico legato alla diminuzione dello stipendio.
Che fare? Arrendersi o provare ad obiettare ancora?

Quel bambino a cui non piacevano le armi, diventato un uomo a cui non piacciono le armi, decise di obiettare ancora: nella decisione unilaterale e indiscutibile del suo datore di lavoro c’era qualcosa che non andava, qualcosa che chi ama parlare di giustizia definirebbe ingiusto.
Obietta pure che neanche gli altri e le altre agenti sono stati messi nelle condizioni di poter manifestare la propria obiezione di coscienza: né le donne, mai soggette alla leva, né gli uomini nati dopo il 1985, non più soggetti alla leva obbligatoria. Per un totale di 57 agenti.
La giudice chiamata a decidere sul suo caso, abituata ad aprire noiosi fascicoli riguardanti sanzioni disciplinari e trasferimenti negati, si ritrova tra le mani una questione che coinvolge la libertà di manifestazione del pensiero e di coscienza, il principio di eguaglianza e di non discriminazione, una questione che coinvolge alcuni dei fondamentali principi della nostra Costituzione repubblicana.
L’obiezione di coscienza “costituisce una modalità di estrinsecazione del diritto alla libertà individuale e dell’autodeterminazione di ogni persona”, che “possiede esplicito riconoscimento nelle convenzioni internazionali vincolanti per l’ordinamento giuridico italiano”, nonché nel diritto costituzionale interno e nella giurisprudenza.
La giudice, per capire se la discriminazione sussista o no, studia la Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale e scopre che gli agenti “ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza POSSONO, previa deliberazione in tal senso del consiglio comunale, portare senza licenza le armi”. Possono, non devono, quindi. Prova di ciò è proprio il fatto che a quell’uomo fu conferita la qualifica di pubblica sicurezza al momento della sua assunzione nonostante il suo status di obiettore. Perciò, ne deduce intuitivamente la giudice, non vi può essere incompatibilità tra lo status di obiettore di coscienza e l’appartenenza alla Polizia municipale. Lo diviene solo se lo stabilisce il regolamento locale. Ebbene il nuovo regolamento adottato dal Comune nel 2020 prevede tale incompatibilità, ma in nessun caso, osserva la giudice, questa incompatibilità può avere effetti retroattivi nei confronti di quel personale a cui non è mai stata data la possibilità di esprimere la propria obiezione di coscienza (perché donna o perché uomo più giovane). Si tratta “di dipendenti che nel momento genetico del rapporto di lavoro non si sono dovuti confrontare con un obbligo che all’epoca non esisteva e che ora è invece in grado di toccare, almeno potenzialmente, il nucleo profondo dei loro convincimenti etici e/o religiosi”.
Ebbene qui sta la discriminazione, in base a tre fattori: convinzioni personali, genere ed età. Una discriminazione diretta nei confronti di quell’uomo obiettore, e una discriminazione indiretta nei confronti delle agenti donne e degli agenti uomini più giovani cui il Comune ha imposto unilateralmente la dotazione di un’arma.
Per queste ragioni la giudice ha dichiarato “il carattere discriminatorio della condotta del Comune” e imposto un “piano di rimozione delle discriminazioni accertate”, disponendo che a tutto quel personale precedentemente assunto venga data la possibilità di dichiarare le convinzioni della propria coscienza, e assegnando chi avrà dichiarato la propria obiezione a tutti i servizi anche esterni senza l’obbligo di porto dell’arma; nonché riassegnando l’agente obiettore da cui ha avuto inizio tutto questo alle sue consuete mansioni operative.

C’è una giudice a Ferrara, insomma.
E soprattutto c’è un uomo – una volta bambino – che nonostante il mondo continui a ripetergli che la violenza è normale e che l’uso di armi è normale e anzi doveroso, continua ad obiettare che la sua coscienza gli impedisce di impugnare una pistola.
In un mondo in cui uomini uccidono altri uomini per esibire il proprio potere, in un mondo in cui uomini si lanciano bombe e missili per esibire il proprio potere, in un mondo in cui uomini costruiscono armi sempre più sofisticate per esibire il proprio potere, in un mondo che giustifica la violenza e la guerra come mezzo per rispondere ad altra violenza e altra guerra, esiste ancora qualche uomo – e qualche donna – che rifiuta la violenza, ogni forma di violenza, senza timore di essere deriso. Perché è solo la sua coscienza quella a cui deve rendere conto. Esiste ancora qualche uomo – e qualche donna – che vuole costruire ponti tra i popoli e non muri, che vuole investire in senso civico e non in armamenti, che vuole accogliere e non rifiutare gli altri.

Quel bambino a cui non piacevano le armi, diventato un uomo che rifiuta le armi, oggi ha un bambino. Un bambino che imparerà che può esistere un mondo senza armi e senza guerra, e un mondo in cui i diritti di ciascuno e ciascuna vengono rispettati. Può esistere, se tutte e tutti ci impegniamo a costruirlo.

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