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Il pipistrello, il racconto di Matilde Tortora

Il pipistrello, il racconto di Matilde Tortora

..."I brefotrofi accoglievano ... i derelitti figli di derelitti..."

Giovedi, 14/05/2020 - Il pipistrello, il racconto di Matilde Tortora

Non si è detto niente dei collegi, degli orfanatrofi, dei brefotrofi. Intendo riferirmi a coloro che ancora oggi sono rinchiusi, altri direbbero ospitati in quelle strutture. Bambine, bambini, ragazze, ragazzi ce ne saranno tuttora in quelle, usiamo per tutte esse un eufemismo, case accoglienti.
Sorti per proteggerli qualche secolo fa, i brefotrofi, in particolare, accoglievano quelli a rischio, un domani, di delinquere, i derelitti figli di derelitti, ma pure tutte le altre istituzioni dovevano accogliere, preservare.
Da bambina fui ospitata in un brefotrofio che stava in una piccola città che ebbe poco dopo una devastante alluvione, per l’esondazione del suo fiume. Orfana, c’era un assembramento in quella grande casa che portava il nome di Maria Regina Maris, si era talmente in tanti lì che i posti letto erano insufficienti. Sicché noi bambine dormivano in due in un solo letto, posizionate una a capo, l’altro ai piedi del letto, oscillando tutta la notte come in una stretta imbarcazione (Regina Maris?), al mattino svegliandoci nel letto bagnato di urina non sapendo di chi di noi due fosse quella pipi scappata nel sonno.
Fu nella terrazza coperta dell’Istituto, dove salivamo per aiutare le Suore a stendere le lenzuola su delle grandi funi colà tese, quelle stesse lenzuola di cui avevamo assaporato prima il liquido caldo che si espandeva inarrestabile, poi la pozza divenuta fredda e urticante fino al mattino.
Fu in una di quelle fredde mattinate, che lo vedemmo. Ne avemmo paura, ne conoscemmo il nome.
Il Pipistrello si era infilato ed era entrato da una di quelle grandi arcate senza protezione della terrazza.
Anche le Suore ne ebbero paura. Le loro tonache cominciarono a svolazzare, svolazzi aggiunti a quelli del Pipistrello, che pure esso cercava una via di uscita tra quelle lenzuola umbratili ancora della nostra urina, solo all’apparenza definitivamente lavata via. Ma resistente e pertinace come ogni nostra orma corporale, seppure invisibile ormai.
Dovette essere all’incirca in quel periodo, che le Suore tagliarono a tutte noi i capelli ancora più corti del solito, e ci passarono in testa col pettine fitto così lo chiamavano, un pettine apposito, di osso durissimo (non c’erano ancora quelli di plastica), con un accanimento che era quasi rabbia, per stanare i pidocchi e ogni pur piccola larva, minuscole uova di pidocchi, dalle nostre teste.
Più tardi, ci misero tutte in fila, nel corridoio e ci spruzzarono il capo con un lungo aggeggio di alluminio che aveva uno stantuffo, di DDT.
Oggi vietato, perché altamente nocivo alla salute, il DDT. Ma tant’è, noi tutte ci sentimmo pulite e risanate e serbammo quello odore insinuante come di benzina nelle narici, nella mente e sul capo.
Mi venne fatto di pensare, se anche al Pipistrello le Suore avessero pensato di spruzzare addosso il DDT. Ma di questo non seppi nulla. Anche se a rivedermelo nel pensiero quella bestia mi terrorizzava ancora.
Come fu, come non fu, crebbi anch’io e anni dopo, molti anni dopo, mi capitò di leggere “Ma c’era un pipistrello. Un maledetto pipistrello, che ogni sera, in quella stagione di prosa alla nostra Arena Nazionale, o entrava dalle aperture del tetto a padiglione, o si destava a una cert’ora dal nido che doveva aver fatto lassù, tra le imbracature di ferro, le cavicchie e le chiavarde, e si metteva a svolazzar come impazzito (…) dove la luce della ribalta, delle bilance e delle quinte, le luci di scena, lo attiravano: sul palcoscenico, proprio in faccia agli attori”.1
E mi ricordai che avere, tutta la notte, i piedi in faccia dell’altra bambina che spartiva con me il piccolo letto, non fosse poi tanto dissimile dall’avere un incontrollato pipistrello che notte dopo notte mi svolazzava in faccia.
Ed ero, per questo sicura, che per lo spavento, per l’angustia, per il piccolo maremoto su quel giaciglio, fossi io, proprio io, a fare la pipì a letto, con tanta frequenza e a sentirmene poi tanto in colpa, anche se i rimproveri e quasi l’odio di quelle Suore era spartito in egual misura e riversato su di me e sull’altra bambina.
E tra me e me trattenevo le lacrime, i singhiozzi e mi veniva fatto di soffiare, soffiare anche se lievemente, per non essere doppiamente notata, per la pipì notturna e il soffio diurno.
Come fu, come non fu crebbi anch’io e anni dopo, molti anni dopo mi capitò di leggere “Ah la vita che cos’è! Basta un soffio a portarsela via. E congiunsi il pollice e l’indice d’una mano per soffiarci su, come a far volare una piuma che tenessi tra quelle due dita.” 2
“Fendevo la calca e con le due dita davanti alla bocca soffiavo, soffiavo su tutte quelle facce sfuggenti, senza scelta e senza voltarmi indietro ad accertarmi se davvero quei miei soffi producevano l’effetto già due volte sperimentato. (…) Si venne difatti a sapere. Tutti i giornali, la mattina dopo, ne furono pieni. La città si svegliò sotto l’incubo tremendo d’una epidemia senza scampo scoppiata fulmineamente”. 3

1- 2- 3) Le citazioni sono tratte da due racconti di Pirandello, la prima da Il pipistrello, la seconda e la terza da Soffio.

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