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Inchiesta sulla ndrangheta Massoneria

Inchiesta sulla ndrangheta Massoneria

La ndrangheta e la sua ascesa. Le logge massoniche deviate. La politica connivente con le cosche. Il processo Meta.

Giovedi, 02/08/2012 - LA SANTA

Soldi, soldi, soldi, soldi, soldi, soldi, una montagna di soldi arrivarono in Calabria negli anni dopo i moti di Reggio degli anni ’70 con il pacchetto Colombo. Soldi che dovevano servire per industria metallurgica e per lo stabilimento della Liquilchimica, e che invece finiscono in mano alle cosche. Soldi che si moltiplicano con la droga: eroina prima, cocaina poi. E con i soldi si compra tutto. In quegli anni viene fondata la Santa: un’élite di ndraghetisti entra in contatto con le logge massoniche, un raccordo che li metterà in contatto strettissimo con professionisti e uomini dello Stato: magistrati, poliziotti, servizi segreti. Enzo Ciconte è uno dei massimi studiosi di ndrangheta: “La Santa è utile per gli affari con la borghesia di un certo livello: notai, commercialisti, professionisti, ma anche poliziotti, magistrati, uomini dei servizi, cioè persone che normalmente non si incontrerebbero alla luce del sole”. Ma il salto di qualità della ndrangheta c’è tra gli anni ’70: “era il periodo in cui c’era il terrorismo, lo Stato si interessa di più al terrorismo e lascia stare sia la mafia, sia la ndrangheta. E' l’ingresso nel grande traffico della cocaina ed eroina, il rafforzamento della ndrangheta al nord, l’ingresso in massoneria e i sequestri di personae. L’insieme di tutte queste cose rende più forte la ndrangheta”. Negli anni ’60 si spopolano le campagne: una parte degli emigrati va al nord e una parte nelle città dove si costruisce in modo selvaggio, è l’epoca del boom economico, e le cosche crescono e con loro i poteri e gli interessi della borghesia imprenditoriale legata al settore dell’edilizia. E’ il periodo dei grandi appalti, della gestione della cosa pubblica i terreni devono passare da agricoli a edificabili, per ingrassare le cosche il rapporto con la politica in questa fase diventa fondamentale. Ed è già in questi anni che la ndrangheta decide di collocare i propri uomini direttamente in politica.



REGGIO CALABRIA UN BUCO NERO

I tempi cambiano velocemente e la ndangheta si muove altrettanto velocemente. E Reggio diventa un buco nero che fagocita soldi, interessi, migliaia di uomini cominciano a muoversi come pedine in tutto il mondo. E Reggio diventa un buco nero, dove tutto è inghiottito, dove tutto si confonde, dove non vola una mosca se non lo decide uno sparuto gruppo di uomini, dove la gente normale non ha più diritto di vivere, dove tutto rientra nell’indifferenza della Stato che in questo luogo diventa straniero, assente, latitante. E quando si esce dal buco nero, niente è più come prima. Non si riconosce più il verso delle cose. Francesco Forgione ex Presidente della commissione parlamentare antimafia: “Con la Santa si determina un livello di collusione con pezzi dello stato e della politica che prima non c’era. Prima c’era connivenza, poi dalla connivenza si passa all’internità. Non si sa mai chi è lo Stato, qual è quello giusto o quello sbagliato. Questo livello di internità c’è solo in Calabria, non lo troviamo né nella Sicilia di Cosa Nostra, né nella Napoli della camorra”. Da quel momento in poi si perdono le tracce della vecchia ndrangheta contadina che si occupava soprattutto di contrabbando di sigarette, da quel momento in poi Reggio è meta privilegiata di uomini dei servizi segreti, spie, personaggi dai mille volti e dalle mille mani impregnate del sangue di migliaia di uomini che avrebbero insanguinato quelle strade negli anni successivi con le guerre per il predominio sul territorio. La seconda guerra di mafia finisce nel ’91 perché Cosa Nostra lo impone, nel ’92 cominceranno le stragi e i morti di Reggio infastidiscono. Vincenzo Macrì, ex sostituto procuratore nazionale antimafia: “La fine della seconda guerra è stato un episodio talmente importante che ci sono state una serie di riunioni che normalmente non si verificano alle quali parteciparono i siciliani, i canadesi, insomma arrivarono delegati da tutte le parti del mondo, perché si doveva chiudere la guerra nel ’91 in quanto cosa nostra aveva qualcosa di più importante da fare e cioè le stragi del ’92”. Ma la ndrangheta disse no a Cosa Nostra quando si trattò sull’appoggio alle stragi. Lo dice oggi, a distanza di venti anni, il pentito Nino Fiume nel processo Meta parlando del boss Peppe De Stefano figlio del mammasantissima don Paolo che considerava “Più facile avvicinare un magistrato o al massimo distruggerlo con campagne denigratorie”.

Perché? Come è potuto succedere di svegliarsi oggi dopo la strage di Duisburg del 2007 e accorgersi che la ndrangheta era diventata così potente, efferata, che aveva affiliati e cosche in Europa e nel mondo. Siamo stati sordi. Tutti. Alle grida di quelle madri che urlavano il dolore dei propri figli uccisi, di quella terra che si lasciava abbandonata alle risa beffarde di questi che non si può chiamarli uomini, perché non lo sono più. Il perché ha una sola risposta: perché i soldi comprano tutto, anche l’anima, quando questa si lascia comprare, naturalmente. 30 novembre 2011 il giudice Vincenzo Giglio viene arrestato e insieme a lui il gip di Palmi Giancarlo Giusti, l’avvocato Vincenzo Minasi, l’assessore regionale calabrese Francesco Morelli e con loro indagati o sotto inchiesta tutta una schiera di avvocati, giudici, commercialisti, imprenditori che in questo caso si dividono tra la Calabria e Milano nell’ambito dell’inchiesta contro la cosca Valle-Lampada.

Con l’operazione Medusa a Lamezia Terme la magistratura colpisce nelle scorse settimane un’altra cosca, quella dei Giampà, egemone in questo territorio. L’on. Doris Lo Moro del Pd che di quella città è stata sindaca da ’93 al 2001: “L’operazione Medusa ha una sua rilevanza, le mie interrogazioni parlamentari denunciano il fatto che prima di tutto l’operazione Medusa viene dopo 12 anni in cui non si è fatto nulla sulla cosca Giampà, quindi non si capisce se non c’era l’organico come hanno sempre denunciato alla procura o per altri motivi. Sono coinvolti due carabinieri, due poliziotti, agenti giudiziari, o delle due l’una o lo Stato non c’è, oppure quando c’è, è inquinato”.



OPERAZIONE META

“La Reggio bene faceva la fila per sposarsi un De Stefano”. lo dice il pentito Nino Fiume, ex parente dei De Stefano, la famiglia più potente della ndrangheta reggina. Il processo Meta sta svelando le sue pieghe interne e i meccanismi che la governano, attraverso la conoscenza diretta di questo pentito che era fidanzato con la sorella di Peppe de Stefano “Crimine”, il capo assoluto della cosca più potente: “Reggio ha sempre vissuto di massoneria, Mico Libri quando parlava dei massoni li chiamava “nobili” e diceva non li tocchiamo sennò ci rovinano”. E continua “Con Carmine De Stefano una volta andai ai Parioli in uno studio notarile (…) Carmine aveva il timore che qualcuno scoprisse la sede di quello studio legale. Ricordi che l’avv. Tommasini una volta mi disse che Peppe De Stefano facevano società con persone in luoghi inaccessibili anche al Presidente della Repubblica.…”. Un potere massonico di altissimo livello, strettamente collegato ai servizi segreti deviati. E il processo Meta, sembra un mostro dalle mille propaggini che non si potrà risolvere in questo soltanto. E’ gestito dal pm Giuseppe Lombardo, temuto dalle cosche, come poche volte nella ndrangheta: dalle minacce di lettere con proiettili, falsi ordigni, si è passato nelle ultime intercettazioni, come mai si era sentito prima, “stavolta lo facciamo saltare per aria” “prima ce lo leviamo di mezzo meglio è” arrivano dopo poche settimana della sua richiesta di pene pesantissime contro il clan Labate. Si teme per l’incolumità del magistrato soprattutto per l’inquietudine che si colgono da quelle intercettazioni. La ndrangheta si è sempre distinta per questo, ha sempre tenuto una politica di basso profilo, non ha mai fatto stragi clamorose se non i pochissimi casi tipo Ligato o Fortugno. Ma le cosche sono inquiete perché sono saltati i nodi che tenevano fortemente allacciati i vari livelli di potere. Nino Fiume parla e racconta di come Peppe è stato fatto “Crimine”, come ha iniziato la sua “carriera” che a soli 17 anni ammazzava in lungo e in largo in Italia, un vero boss, e dopo la morte di don Paolo, il padre, il cui omicidio secondo Fiume sarebbe stato deciso anni prima, i figli Carmine e Peppe vengono mandati a Roma per salvarli dalla guerra. Assassini spietati secondo il racconto di chi ha vissuto gli anni della guerra insieme a loro in strettissimo contatto. Lavoro sporco svolto dalla manovalanza su più fronti. Dopo gli anni della guerra c’è bisogno di ripulirsi, di lasciare i vestiti sporchi di sangue e di mettersi la camicia di seta e le scarpe lucide perché la “Reggio bene” preme per accattivarsi i De Stefano, che vanno nei posti più esclusivi del mondo e continuano a raccogliere soldi a palate con estorsioni e il malaffare. Viene deciso, così racconta Nino Fiume, di eliminare i ragazzi che si sono macchiati di sangue e che non sono “adatti” alle nuove strategie. Ecco perché decide di pentirsi: lui stesso era nella lista nera. Ma non bisogna dimenticare che ci sono altre guerre sotterranee che infettano il tessuto sociale e criminale, sono le lotte tra logge deviate e segretissime che non vengono mai fuori e che determinano carriere, interessi su vari livelli. Il vero potere dell’Italia repubblicana. Le parole di Nino Fiume nel processo Meta hanno una forza dirompente, che probabilmente aprirà nuovi filoni di inchiesta. Si apriranno? Il Pm Giuseppe Lombardo in varie occasioni blocca Nino Fiume “Non dica i nomi dei politici, non è questa la sede”. Ci saranno altre sedi?

“Questo è un processo emblematico, perché per la prima volta si sta processando in maniera sistemica la ndrangheta e non come organizzazione familistica. E’ un processo strategico per capire bene gli intrecci e i collegamenti “ ce lo dice Enza Rando avvocato nazionale di Libera che si è costituita parte civile in questo processo “Siamo strati ammessi e questa è una cosa straordinaria, giuridicamente straordinaria con un riconoscimento danni a Libera di 500.000 euro”. Straordinaria perché per la prima volta viene riconosciuta la società civile danneggiata dalla presenza della ndrangheta che è contro la cultura della vita, straordinaria perché crea un precedente. “Ora ci stiamo costituendo parte civile al processo Minotauro e ad un altro processo di camorra”.





I BENI CONFISCATI

Nel 2002 per la prima volta in Calabria Libera coinvolge diverse associazioni nella piana di Reggio Calabria coinvolgendo le associazioni sul territorio con don Pino Masi come referente nella piana. Il fulcro diventa la piana di Gioia Tauro, nel 2004 nasce la cooperativa Valle del Marro libera terra e che gestisce i primi trenta ettari di terreno confiscato alla famiglia Piromalli e poi nel comune di Oppido Mamertina confiscati alla famiglia Mammoliti. “La situazione è di smarrimento per la scarsa conoscenza dei beni confiscati e per il loro utilizzo. Non si era mai pensato prima di utilizzare un bene confiscato, in alcuni casi anche i comuni non sapevano nemmeno la consistenza del patrimonio dei beni confiscati che detenevano o l’ubicazione di questi beni”, ci dice Giacomo Zappia presidente Vallo del Marro. “Le difficoltà ci sono e si fanno sentire subito quando vai a mettere piede in un terreno confiscato che fino a poco tempo prima considerato intoccabile di inavvicinabile che fin da subito prova a mettere a frutto questi ettari e da quel momento non mancano le difficoltà di natura non solo economica, ma difficoltà ambientali perché le famiglie si fanno vedere e sentire spesso con attentati, danneggiamenti, ce ne sono stati diversi durante questo periodo”. Davide Pati coordinatore nazionale per Libera per la confisca beni in Calabria “Se facciamo il paragone dieci anni fa nel 2001, ci fu la prima mietitura a Corleone non si trovava una trebbiatrice, il prefetto la requisisce e i carabinieri si mettono a mietere, dieci anni dopo a Isola Caporizzuto nel 2010 nessuno vuole mietere i terreni degli Arena, ora in Sicilia non succede più, la regione dove è più difficile gestire i beni confiscati adesso è la Calabria dove ci sono pezzi di società civile che sono conniventi e senza essere legati alle famiglie in Calabria, la ndrangheta è talmente radicata da tutte le parti che lavorando tu non sai chi ti trovi davanti”.

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