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La cinematografia orientale tra bellezza e contraddizioni

La cinematografia orientale tra bellezza e contraddizioni

A tutto schermo - Asiatica Film Mediale, nota manifestazione apprezzata per il lavoro svolto in 16 anni, si è tenuta grazie a sostenitori privati

Colla Elisabetta Giovedi, 07/01/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2016

 Nonostante le difficoltà ed i tagli dei contributi pubblici, che sembrano colpire spesso chi opera nel settore culturale con maggior serietà ed impegno, anche quest’anno l’Asiatica Film Mediale-Incontri ravvicinati con il cinema asiatico, la manifestazione capitolina di maggior valore in materia di cinematografia orientale ideata e diretta dal bravo Italo Spinelli - attesa a Berlino nel 2016 - è riuscita a rilanciarsi ed offrire prodotti di elevata qualità artistica grazie alle donazioni del suo pubblico e dei suoi sostenitori, la cui solidarietà e partecipazione hanno confermato il valore della Rassegna. Ospitata al Maxxi - Museo nazionale delle arti del XXI secolo, la manifestazione, giunta alla sua XVI edizione, ha proposto una ricca ed originale selezione di opere (lungometraggi, documentari e cortometraggi) provenienti da Paesi di Orienti molto diversi tra loro, come Corea del Sud, Indonesia, Filippine, Cina, Taiwan, India, Pakistan, Sri Lanka, Azerbaijan, Iran, Turchia, Libano e Israele.



Da segnalare, fra le pellicole che hanno dato maggior attenzione alla condizione femminile, Oblivion Season, dell’iraniano Abbas Rafei, film duro e cupo, vincitore ex-aequo del Premio della giuria per il miglior film, ben inserito nella scia del cinema di denuncia contro le violenze ed i soprusi che soprattutto le donne (ma non solo) subiscono in un regime che tenta in tutti i modi di mantenere il controllo attraverso l’uso strumentale della religione e l’oppressione della parte più vitale della società, spesso giovani e donne. Qui la protagonista, pur maltrattata e segregata in casa dal marito paranoico, che vede ovunque tradimenti inesistenti e non riesce a perdonare un passato difficile con cui la donna continua saltuariamente a mantenere contatti - alcune amiche costrette a prostituirsi per necessità - si mette alla guida del furgone del consorte per guadagnare i soldi necessari a curarlo, in una Teheran dove il maschilismo si rivela in ogni situazione quotidiana, ma il suo slancio di generosità ed amore resterà incompreso.



Altro film interessante sui temi dell’identità culturale e di genere è Fig fruit and the wasps, del regista-pittore indiano Prakash Babu, storia di Gowri, una documentarista che insieme al suo cameraman giunge in un remoto e singolare villaggio indiano alla ricerca di un maestro di musica con conseguenze inattese. Ricordiamo inoltre due film molto diversi fra loro ma di grande forza evocatica: Taklub, stupenda opera già presentata al Festival di Cannes e vincitrice del Premio del Pubblico all’Asiatica, del noto e visionario regista filippino Brillante Mendoza, sulle drammatiche conseguenze socio-esistenziali del tifone Haiyan, e Tikkun, dell’israeliano Avishai Sivan, opera complessa e fortemente simbolica, a partire dalla scelta del bianco e nero, sui rapporti padre-figlio e sulle estreme difficoltà di aderire all’ortodossia religiosa (chassidica, in questo caso) per un giovane che si affaccia al mondo.



Fra le opere documentaristiche di maggior rilievo: Silence in the courts, di Prasanna Vithanage, dallo Sri Lanka, ove due donne osano ricorrere alla giustizia contro i loro rispettivi mariti ottenendo l’esatto contrario; One Million Steps di Eva Stotz, storia di una danzatrice di strada che ad a Istanbul si unisce ai dimostranti di Gezi Park; il bellissimo The Walkers, di Singing Chen, sul rapporto intimo e vitale tra la famosa coreografa taiwanese Lin Lee-Chen e la sua compagnia di danza contemporanea; Manshin, di Park Chan-kyong, docufilm coreano (il focus della Rassegna era sulla Corea del Sud) che racconta la vita di una donna sciamana, indagando al contempo l’attuale società coreana, che vive profonde ambivalenze, come quella di barcamenarsi tra la cultura dello sciamanesimo e quella del ‘progresso’; K2 and the Invisible Footmen, opera della vulcanica attivista e regista coreana di origini brasiliane Iara Lee - ideatrice del network Cultures of resistance ed ospite dell’Asiatica - che descrive il lavoro oscuro, massacrante e sfruttato dei portatori pakistani nelle spedizioni sul K2, spostando per una volta la prospettiva rispetto agli ‘eroici’ alpinisti scalatori delle vette.

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