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La confessione postuma di un femminicida

La confessione postuma di un femminicida

Il ritrovamento della lettera dell'autore di un femminicidio costituisce la conferma ulteriore delle tesi di quanti sostengono che tale efferato delitto non sia ascrivibile ad un raptus di follia

Sabato, 27/09/2014 - Ci fosse mai stato bisogno di un riscontro concreto alle affermazioni del dott. Claudio Mencacci, presidente della Società italiana di psichiatria (Sip), al riguardo delle responsabilità degli autori dei femminicidi, lo potremmo individuare nella disamina della lettera che uno di loro, Pietro Di Paola, ha scritto prima di compiere l’efferato crimine ai danni della sua ex fidanzata. Dall’esame di quanto scritto si da un senso compiuto a quanto ribadito dall’esperto suindicato, ossia che “nella stragrande maggioranza ci troviamo, infatti, davanti a uomini che hanno comportamenti violenti, aggressivi, prepotenti, semplicemente una personalità antisociale ed egoistica, che non tollerano la possibilità per la donna di operare scelte diverse e autonome". Difatti scorrendo le righe di quella lettera si scopre che egli preannunciava ciò che sarebbe avvenuto: “non mi sono lanciato subito con lei, anzi le ho fatto provare il terrore di perdere tutto amici, famiglia e futuro”.

Quindi, un delitto premeditato che, nell’immediatezza dell’evento, dai media purtroppo è stato descritto diversamente da quanto appalesato dalla missiva lasciata post mortem. L’assassino è stato descritto quale un ragazzo problematico, con un vissuto particolarmente sofferente per la separazione dei genitori adottivi, tanto da indurlo l’anno precedente a tentare il suicidio. Senonchè a strappare questa tela di palesi giustificazioni per l’omicidio dell’ex compagna, Alessandra Pelizzi, è subentrata la lettera ritrovata. Dall’esame del testo si evincono affermazioni particolarmente chiarificatrici del progetto delittuoso, che, preventivamente organizzato, non può certo essere catalogato come frutto di un raptus di follia. Un movente evidente ma, soprattutto, crudele: “un odio così forte da essere felice di sacrificare la propria vita per far provare all’altro la vera tristezza”. Eppure i media continuano ad utilizzare termini a cui naturalmente consegue la tesi dell’incapacità di intendere e di volere del femminicida, tesi che sarà utilizzata anche in sede processuale dai difensori dell’autore del crimine per ottenere un’eventuale riduzione della pena detentiva.

Lo stesso dott. Mencacci, a conseguenza delle sue precedenti affermazioni, ha consigliato vivamente i colleghi a non offrire alibi ai magistrati per non decidere in piena scienza e coscienza la giusta sanzione agli assassini. Rei di crimini la cui interpretazione è da ricercare “in un atteggiamento comportamentale e culturale, sempre più diffuso, volto all’intolleranza, alla prevaricazione ed alla possessività, per cui le persone perdono la loro identità e diventano oggetti che appartengono ad altri e di cui non si accetta l’idea che possano essere perduti”. Certo il caso in questione non si concluderà con un processo, atteso che il femminicida si è suicidato immediatamente dopo l’assassinio della ragazza, ma una volta per tutte deve essere chiaro agli operatori giuridici, alle forze dell’ordine, ai media, all’opinione pubblica quanto sia falsata l’interpretazione di questo reato quale un delitto d’impeto, conseguentemente punibile in maniera minore rispetto agli altri omicidi.

Un uomo che non si rassegna alla fine di un rapporto sentimentale, che continua a ritenere la compagna di proprio dominio, che non accetta che la donna decida anche per sé stesso di mettere fine ad una relazione amorosa, dovrebbe essere sanzionato in maniera diversa, qualora decida di togliere la vita a chi ha osato lasciarlo. Come sostiene il presidente della Sip “troppo spesso ricorrendo a giustificazioni psicopatologiche, che non hanno nessun fondamento, questi assassini si vedono rapidamente ridotte, nei diversi gradi di giudizio, le pene che erano state loro comminate. Quando, invece, occorrerebbe essere severissimi, applicare con maggiore attenzione i sistemi preventivi, abolendo le giustificazioni anche di natura psicologica perché nella maggior parte dei casi si tratta di un vero e proprio gesto aggressivo”. Ordunque, ai magistrati il compito di valutare il fatti ed i loro moventi per applicare le correlate sanzioni, ai parlamentari ed ai componenti del governo l’onere di mettere in campo norme nuove capaci di garantire un’ equa giustizia, in grado di onorare la memoria delle donne vittime di tali abietti crimini. Nel contempo, ai media l’impegno di utilizzare termini appropriati per descrivere tali delitti e a noi, tutti, l’invito a leggere quella lettera quale realmente esplicativa di un femminicidio premeditato e non di un omicidio causato da un raptus di follia.

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