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La sottile differenza tra dottrina e misericordia

La sottile differenza tra dottrina e misericordia

- Quando Francesco ha detto “Chi sono io per giudicare?” non si riferiva alla omosessualità ma al singolo omosessuale.

Stefania Friggeri Venerdi, 08/01/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Gennaio 2016

 La concessione dell’eucarestia ai divorziati e il consenso al matrimonio degli omosessuali: nel Sinodo della famiglia che si è concluso ad ottobre questi, fra gli altri, gli argomenti di discussione più delicati e problematici che, infatti, hanno trovato voce anche nei media dove le indiscrezioni giornalistiche hanno riferito di uno scontro aspro fra conservatori ed innovatori. Fra i primi, autori di una lettera di protesta contro il metodo sinodale adottato da papa Francesco, ritenuto troppo democratico; fra i secondi l’arcivescovo Claudio Celli (“Prendiamo il caso dei matrimoni falliti: non stiamo parlando di oggetti ma di uomini e donne che soffrono. E lo stesso vale per i gay: la Chiesa non giudica ma soccorre”) e il vescovo Domenico Mogavero (“Ci sono preti gay che consacrano se stessi nel celibato e lo vivono serenamente in una vita equilibrata”), parole che confermano la linea papale: non giudicare, accogliere (“Guardiamoci dall’avere un cuore duro che non lascia entrare la misericordia di Dio”) ma, contemporaneamente, rispettare la dottrina.



E infatti in nome della misericordia Bergoglio, attraverso un Motu Proprio che ha semplificato le procedure processuali, ha affidato ai vescovi l’esame di nullità dei matrimoni falliti affinché i divorziati, dopo un percorso di tipo penitenziale, possano accedere all’eucarestia. Una soluzione sagace che, senza rinunciare al principio dell’indissolubilità del matrimonio, permette di riaccogliere nella Chiesa questi fedeli reietti grazie all’adozione di un nuovo paradigma: “la fecondità degli sposi in senso pieno è spirituale”; ovvero: un’elaborazione più ampia del significato di fecondità ha allargato “il campo semantico” del termine “procreativo” fino ad includere alcune forme di “fecondità spirituale”. La vita di coppia è già feconda nel suo darsi perché è dono di sé per l’altro. Genera valore aggiunto… il noi emerge dall’ io-tu come qualcosa di nuovo” (Brogliato, Migliorini). Anche il magistero della Chiesa dunque ha compreso infine che la bellezza dell’unione matrimoniale non si limita alla fecondità biologica ma germoglia dalla generazione del noi. Si legge in “Razzismo e noismo” di L.L.Cavalli Sforza e Daniela Padoan: “(un sentire) in cui la sensibilità e la compassione indicano una possibilità di essere chiamati fuori di sé, a immedesimarsi con l’altro non per possederlo né per difendersene o trarne vantaggio….ma per dargli il sostegno della presenza”. Se il Motu Proprio mantiene di fatto inalterata la dottrina e la potestà del foro ecclesiastico sull’istituto matrimoniale, la tradizione fa sentire il suo peso anche intorno al tema della omosessualità.



Quando Francesco ha detto “Chi sono io per giudicare?” non si è riferito alla omosessualità ma al singolo omosessuale, ovvero ha ribadito la distinzione fra la dottrina e la misericordia, una parola-chiave che esprime l’ascolto e la sollecitudine della Chiesa verso chi soffre, pur sempre nel rispetto della norma generale che rimane immutata. Nonostante siano numerosi gli studi, l’eziologia della omosessualità non è stata ancora chiarita e nessuna delle teorie proposte (ormonali, psicologiche, genetiche) ha offerto una risposta convincente, causa l’intreccio complicato di vari elementi. La dicotomia etero-omo è dunque scientificamente inaccettabile: “La nostra modalità conoscitiva sta nell’identificare - idem facere, ridurre al medesimo - le cose che ci circondano….chiudendole in categorie che condividano le stesse caratteristiche; ma, come mostra la moderna biologia, e anche il comune buon senso, le soglie sono plurime e si compenetrano, rendendo un puro atto d’arbitrio le pretese di stabilire un confine netto….Definire le caratteristiche di ciascun evento biologico è senza dubbio necessario ma solo a fini classificatori; certo non per ingabbiare in una definizione rigida quanto di meno rigido vi è al mondo, ovvero la vita intesa nelle sue varie forme ed espressioni biologiche” (ibidem). E tuttavia la Relatio Sinidy non denuncia le leggi persecutorie che esistono in vari paesi, per tacere della rigidità dei vescovi africani che hanno promosso nella loro terra leggi omofobe che prevedono pene severissime, compresa la condanna a morte. La Relatio, infatti, spende poche parole sulle unioni omosessuali anche se la loro diffusione e solidità ha costretto il magistero a riconoscere che “il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita del partner”. Forse vale per la Chiesa cattolica quello che Wittgenstein ha detto di sé: “Il mio lavoro consiste in due parti: quello che ho scritto e inoltre tutto quello che non ho scritto”, ovvero: il silenzio tradisce l’incapacità della Chiesa cattolica di trovare una mediazione fra conservatori e riformatori, e dunque la soluzione è stata rimandata a tempi migliori, magari in attesa del rinnovamento delle alte cariche, ora ricoperte da personaggi nominati dai precedenti papi.

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