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'L’esatto peso della sirena', il libro di Matilde Tortora - recensione di Alessandra Nobile

'L’esatto peso della sirena', il libro di Matilde Tortora - recensione di Alessandra Nobile

Il testo è composto da 10 poesie e può anche essere letto come un poemetto unico, poiché unica, alla fine, è la storia che percorre i componimenti

Lunedi, 20/02/2023 -

“L’esatto peso della sirena” di Matilde Tortora, la Mongolfiera Editrice

Di questo piccolo e prezioso libro di poesie di Matilde Tortora, scrittrice, saggista e poeta, mi ha incuriosita subito il titolo: “L’esatto peso della sirena”. Ho pensato: quale peso? E poi: perché mai esatto? E mi sono accorta, man mano che proseguivo nella lettura, che ciascuna delle poesie andava a sciogliere, per me, il mistero racchiuso in quel titolo.

Il testo è composto da 10 poesie e può anche essere letto come un poemetto unico, poiché unica, alla fine, è la storia che percorre i componimenti. Al centro di queste poesie c’è da una parte il viaggio, dall’altra l’attesa. E il viaggio e l’attesa, alla fine, non sono altro che facce della stessa medaglia.

I versi sono pervasi da riferimenti letterari profondissimi, non ultimo dei quali naturalmente il viaggio di Ulisse nell’Odissea. E l’attesa è quella incarnata da Penelope: un’attesa tenace fino alla cocciutaggine, tenace fino quasi all’irragionevolezza.

Penelope è simbolo di tutte le donne che in silenzio aspettano un ritorno. Solo apparentemente sono ferme ad attendere. La loro fatica è pari, anzi forse è superiore, a quella di coloro che affrontano i pericoli del viaggio. E il loro silenzio muto fa più rumore di qualsiasi proclama strillato a gran voce.

E il tempo dell’attesa, un tempo pesante nella sua interezza, viene ben delineato in uno dei componimenti finali:“Soltanto a me viene dato / intero tutto il tempo, / tempo per fare cosa? / preda di sguardi, di protervia, / le stanze intorno attonite, ora / sono dieci anni esatti e muti.”

Fin dalla prima poesia incontriamo i naviganti che saranno protagonisti indiscussi dell’opera. Di loro si dice che, partendo, misero in conto l’opacità: “La polvere ci aveva tatuato le dita. / Il contrario di cosa trasparente / è l’opacità, spegnemmo / a mano a mano ogni memoria, / osammo nuovi tragitti, / mettemmo in conto l’opacità.”

Perché questo bisogna fare, per partire: mettere in conto che non esisteranno più, se mai sono esistiti, progetti limpidi e particolareggiati di come deve andare la vita. Chi parte rischia, anche di naufragare, e di non trovare più pace in nessuno dei porti che raggiungerà, in nessuno dei porti che potrebbero o dovrebbero accogliere coloro che, per mare, mettono a repentaglio la vita.

Perché il viaggio è sì avventura, ma talvolta è anche, è soprattutto, necessità. “Più volte da una costa all’altra, / dai venti spinti all’indietro, / esangui granchi, capimmo/che c’era chi ci voleva morti / o per lo meno obbedienti, muti, / per lungo tempo addormentati.”

Sono tanti i modi di uccidere. A volte basta fare come il vento: basta continuare a soffiare nella direzione opposta, fino a sfinire l’altro, e a togliergli la voce.

Chi parte deve lasciare. Lasciare i propri affetti, la propria casa, per andare verso altre case. Case spesso sentite come fredde ed estranee.

Come Elena di cui viene data una descrizione delicatissima ed emozionante. Di lei non sappiamo molto ma, in fondo, sappiamo tutto: “All’altezza dello sterno, / un’acuta memoria serbava, / tanto che tutto le doleva, / dei gattini lasciati alla vicina, / quando per mare s’era / dovuta, a forza, traslocare.”

È un mare straniante, quello che compare in queste poesie, bellissimo e crudele allo stesso tempo. Ed è una terra inospitale, quella che appare all’orizzonte: “I calanchi, i fianchi delle onde, / il mare si fa montagna. La luce / portava sulla coda notizie, / ogni avvistato falò denunciava /portali di guerra, infamie, / odi antichi e mai sopiti.”Un mare inesorabile, come il canto della sirena.

In queste poesie, anche in mezzo alle efferatezze delle guerre, è soprattutto d’amore, che si parla. Ed è “il mistero amaro dell’amore” a emergere. “Giacersi con una donna / era per l’uomo bruno / e marinaro anch’esso un umido / fatto (di guerra). / Per cornice le isole, il mare, / l’insensatezza, l’arrovellarsi.  / …  / dalla formica onda / un viso innamorato lo guardava, / lo pungeva.”

C’è dunque, in questi versi, l’amore impossibile: l’amore della sirena. E sono tante le sirene che mettono alla prova chi naviga. Ciascuna ha un peso che a proprie spese, lungo il percorso, s’imparerà a misurare, a misurare esattamente. “Volevamo erigere castelli, / divenuti sempre più caparbi, / con la voglia di sostare. / Non lo potemmo fare, / da capo a capo navigavamo / ad inseguire non si sa cosa.”Qui la navigazione si fa metafora della vita, e ci si accorge che l’esatto peso della sirena è anche questo: il desiderio di sostare per portare a termine i propri progetti che si scontra con l’amara impossibilità di fermarsi.

Anche chi naviga, alla fine, attende. Attende un porto fermo, ma è condannato a vagare e a inseguire, cosa non si sa. È questa l’insensatezza, ed è questo il senso profondo del vivere. Senso profondo che a noi, naviganti su questa terra, per quanto ci arrovelliamo a cercarlo, resta precluso. 

 

In copertina: “Leucosia”, opera di Gisella Meo, disegno a matita su carta, cm.36x24,5, anno 1957, per gentile concessione dell’artista


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