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Le istituzioni europee tutelino la Convenzione di Istanbul senza se e senza ma

Le istituzioni europee tutelino la Convenzione di Istanbul senza se e senza ma

La paventata fuoriuscita della Polonia dalla Convenzione di Istabul obbliga le istituzioni europee ad una netta e ferma difesa del principale strumento normativo di contrasto alla violenza di genere

Martedi, 04/08/2020 - La recente presa di posizione del ministro polacco della Giustizia, Zbigniew Ziobro, del piccolo partito Polonia Solidale, alleato della coalizione di governo guidata da Diritto e Giustizia (PiS), relativa alla richiesta, avanzata al suo esecutivo, di recedere dalla Convenzione di Istanbul per la prevenzione ed il contrasto della violenza contro le donne, necessita di essere interpretata alla luce del particolare momento politico che stanno vivendo le istituzioni comunitarie. La recente approvazione del Recovery Fund da parte del Consiglio UE e la correlata ratifica dell’accordo da parte del Parlamento europeo ha comportato che ad Ungheria e Polonia sia stato evitato l’imposizione di particolari condizionalità all’erogazione dei fondi del Recovery Fund e del bilancio pluriennale dell’Ue, condizionalità che avrebbero dovuto prevedere il pieno rispetto da parte di questi due Paesi dei diritti civili. Deprivato della obbligatorietà della piena tutela di tali diritti, il suindicato ministro polacco ne avrebbe approfittato per rispondere alla pancia del suo elettorato di riferimento, proponendo al proprio governo di ritirare la Polonia dalla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.
Senonchè sia la portavoce del PiS, partito a guida dell’esecutivo, Anita Czerwinska, che quello dello stesso organo istituzionale, Piotr Muller, hanno ben rimarcato che il governo di Varsavia non ha ancora preso una decisione ufficiale sul ritiro dal trattato. Il ministro Ziobro ha ufficialmente proposto la sua richiesta, lo scorso 27 luglio, ai colleghi titolari dei dicasteri del Lavoro e della Famiglia. All’interno del partito PiS (Diritto e Giustizia) di ispirazione nazionalista e conservatrice, al potere dalla fine del 2015, però le posizioni ideologiche al riguardo della Convenzione di Istanbul non sono omogenee.
L’ala oltranzista risponde in pieno al trinomio Dio-Patria-Famiglia, comune allo stesso Ziobro, che considera tale Convenzione «una fantasia e un’invenzione femminista volta a giustificare l’ideologia gay», facendo riferimento alla cosiddetta “ideologia gender”, quale teoria che nega la differenza biologica tra uomini e donne. Di contro la fazione più realista del PiS, che è favorevole ad uno Stato sociale forte e all'intervento statale in economia nei cosiddetti settori strategici, è pienamente consapevole del necessario supporto finanziario comunitario per pervenire ai propri obiettivi politici.
Per rispondere alla formale richiesta avanzata dall’alleato governativo Ziobro, il primo ministro della Polonia, Mateusz Morawiecki, ha deciso di percorrere la strada istituzionale, ossia interpellare la Corte costituzionale polacca, perché decida sulla conformità della Convenzione di Istanbul ai dettati della carta normativa fondamentale polacca. In questa decisione è stato suffragato dalla circostanza che la Polonia ha ratificato la Convenzione di Istanbul nel 2015 con la riserva che essa seguisse i principi costituzionali, “The Republic of Poland declares that it will apply the Convention in accordance with the principles and the provisions of the Constitution of the Republic of Poland”.
All’annuncio del ministro della Giustizia polacco di volere recedere dalla suindicata convenzione la segretaria generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejčinović Burić, ha espresso viva preoccupazione, dichiarando che “Se ci sono incomprensioni sulla Convenzione siamo pronti a chiarirle in un dialogo costruttivo. Lasciare la Convenzione di Istanbul sarebbe altamente deplorevole e un grosso passo indietro nella protezione delle donne dalla violenza in Europa”.
Una siffatta dichiarazione parrebbe comportare che ci siano in atto trattative a livello istituzionale affinchè il governo polacco non si intesti la volontà preliminarmente espressa dal ministro Ziobro di recedere da tale convenzione. Trattative che sarebbero in piena linea con la posizione manifestata dalla Commissione Europea, la quale si è detta dispiaciuta “che una questione così importante sia stata distorta da argomenti fuorvianti in alcuni Stati membri”. In un Paese come la Polonia dove, a detta del Centrum Praw Kobiet (Centro per i diritti delle donne) si stima che il fenomeno della violenza domestica riguardi circa 800.000 donne ogni anno, con 400-500 morti segnalate annualmente a causa di percosse, omicidi e suicidi legati alla violenza domestica, l’attenzione delle istituzioni europee deve essere molto alta.
Se il governo polacco volesse non tenere conto di questa emergenza nazionale, nascondendo sotto il tappeto di fuorvianti ed inesistenti ideologie gender il sangue delle vittime della violenza di genere nel proprio Paese, ecco che diventa prioritario il ruolo di loro garante da parte degli specifici organismi comunitari. Coniugare il rispetto dei diritti umani, visto che la violenza di genere è una loro violazione, con l’elargizione dei fondi del Recovery Fund diventa, quindi, l’arma che la diplomazia europea dovrebbe mettere in campo in tale vicenda, prima ancora che il governo polacco segua la richiesta del proprio ministro di Giustizia.
E’ di ieri la notizia che la Commissione europea non elargirà fondi a sei città polacche che si sono dichiarate “zone libere da LGBT”, scegliendo di non erogare finanziamenti a chi non rispetta i criteri di uguaglianza. “I valori e i diritti fondamentali dell’UE devono essere rispettati dagli Stati membri e dalle autorità statali” ha scritto su Twitter il commissario europeo per l’uguaglianza, Helena Dalli, a commento di tale decisione.
Se, conseguentemente, la Commissione non rende i propri programmi accessibili a chi pratica forme di discriminazione, non si comprende perché non possa comportarsi in eguale modo nei confronti di chi, come lo Polonia o l’Ungheria, vorrebbe intraprendere la strada della fuoriuscita dalla Convenzione di Istanbul.
La Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa, siglata ad Istanbul l'11 maggio 2011, attualmente si configura firmata da 12 Paesi, che però non l’hanno ratificata, come l’Ungheria, mentre invece 34 Paesi l'hanno firmata, ratificata e resa vincolante. Entrata in vigore il 1° agosto 2014, essa è l’insieme delle linee guida giuridicamente inderogabili, generatrici di "un quadro giuridico e un approccio globale per combattere la violenza contro le donne", ed è incentrata sulla prevenzione della violenza domestica, sulla protezione delle vittime e sul perseguimento dei colpevoli.
Come sostiene Carlo Patrignani “L'Europa di liberi, uguali e diversi, non della finanza e del mercato senza vincoli, non dei consumi e dell'individualismo sfrenati, non si fa senza l'affermazione dei diritti civili” cosicchè non solo il futuro dell’Europa, ma anche il suo presente non può prescindere da essi. Il diritto di una donna a non considerare la violenza come un suo inevitabile destino diventa, quindi, un imperativo categorico da perseguire da parte delle istituzioni europee, senza se e senza ma. Alcun tentennamento, alcuna ritrosia, alcun precipuo interesse economico può o deve sovrastare a questo principio, in nome non solo delle donne polacche, ma di tutte le donne europee che credono che la violenza di genere non possa essere il loro pane quotidiano.

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