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Le parole e i corpi: una specie di recensione - di Isabella Peretti

Le parole e i corpi: una specie di recensione - di Isabella Peretti

Maria Luisa Boccia, "Le parole e i corpi. Scritti femministi", collana sessismoerazzismo, Ediesse, 2018

Sabato, 01/12/2018 - Quando si legge un libro, ma anche quando lo si recensisce, si tende alla rapina e allo scarto: rapina dei concetti che più ci piacciono, che più sentiamo nostri, scarto sommesso di ciò che non sentiamo nostro. Ma in ogni caso, leggendo, ripercorriamo e ripensiamo le nostre stesse convinzioni, per avvalorarle, per arricchirle, per cambiarle. Se il libro è bello, cioè, fa scattare il pensiero. Certamente tutto ciò accade con il libro di Maria Luisa Boccia, Le parole e i corpi. Scritti femministi,( collana sessismoerazzismo, Ediesse, 2018).
E allora vorrei ripercorrere saggi e capitoli del libro proprio con questa rispondenza soggettiva, ritenendo che le mie domande, le risposte che cerco nei suoi testi, siano comuni a molte e molti. Per due motivi. Perché da Marx a Gramsci, a Simone De Beauvoir, Hannah Arendt, Simone Veil, Papa Francesco…sono figure tutte presenti nelle nostre letture e nei nostri pensieri, anche se solo per ricordi o per flash. Perché il corpo, i nostri corpi pensanti si pongono gli stessi interrogativi che Maria Luisa affronta, interrogativi che intersecano le nostre diverse esperienze e ci coinvolgono personalmente.
Ma prima di tutto diamo la parola all’autrice, alla sua introduzione.

Vi è anche una motivazione [ nell’aver composto questo libro ] legata al contesto attuale, contrassegnato dalla presenza di un movimento femminista, del quale sono protagoniste le generazioni giovani. Mi riferisco innanzitutto a «Non una di meno» e a «#Metoo», ma anche ad una più estesa e composita realtà di gruppi, centri, associazioni che operano nei luoghi e negli ambiti più diversi dell’esperienza. È una realtà che viene spesso definita come «nuovo» femminismo, proprio per marcare la discontinuità con il femminismo degli anni Settanta. Personalmente questo accento sul nuovo mi è risuonato come una «chiamata» alla mia generazione femminista a dare conto di sé: si può infatti parlare di «neo» femminismo, solo se si è consapevoli, vecchie e nuove generazioni, di cosa abbiamo in comune e quali sono le differenze. Senza individuare la prima dimensione, infatti, non si può neppure stabilire la discontinuità. Ma non è questo il compito che mi sono proposta, quanto quello di corrispondere a quella «chiamata»; dando conto, per me e dunque in modo parziale, del femminismo della differenza che ho praticato nel pensiero e nella politica. Anche per capire se e come è possibile metterlo in relazione con altri femminismi, non solo quello più recente. Ripercorrere alcune delle tappe più significative del mio percorso è stato un modo per riflettere sulle politiche comuni tra femministe differenti.
Faccio una premessa. I «femminismi», al plurale, non vanno intesi come sistemi di pensiero compiuti, finiti; come tali, inevitabilmente alternativi tra loro. Non lo dico per conciliare le diverse tendenze, tanto meno per ricondurle tutte in un indistinto alveo ideologico. Fare del femminismo un’ideologia, è infatti la mossa di chi vuole addomesticarlo; rendendolo compatibile con l’ordine esistente.


L’intento è chiaro: il confronto con i nuovi movimenti femministi, il dar conto del proprio femminismo, l’offrire il proprio pensiero maturato negli anni per “riflettere sulle politiche comuni tra femministe differenti”.

Dopo queste parole dell’autrice, inizio ora il mio percorso, e ripercorro il suo libro, con le mie di parole (in corsivo). Con tutte le citazioni (tratte dal libro) che servono, sacrificando le altre. E semplificando moltissimo, senz’altro troppo, un libro complesso.
Partiamo, come Maria Luisa fa, dalle grandi figure della storia del pensiero e delle rivoluzioni.

MARX
Sconfessato dalla storia, imbalsamato nelle sue utopie: questa la vulgata, da destra a sinistra. Ma non è colpa di Marx che sia prevalsa l’identificazione tra teoria e storia, l’una che si dovrebbe compiere nell’altra, “ il mito del compimento storico dell’Idea”, perché così si può rovesciare nel suo contrario, come è avvenuto e avviene nell’opinione corrente: o c’è stata distorsione della teoria – l’Urss, la Cina, la Corea del Nord…hanno distorto l’idea di Marx -, oppure smentita – il comunismo è irrealizzabile. Ma, sostiene Maria Luisa, se “della rivoluzione avvenuta con il pensiero di Marx, l’eredità che io scelgo è quella simbolica” allora quello che in Marx e di Marx è ancora vivo è il suo pensare l’impensato, il suo aprirsi al possibile evento. La fecondità di Marx non sono verità ingessate o mitizzate, ma il suo modo di significare la realtà che ha modificato la storia, ha generato la possibilità della rivoluzione. Nel Manifesto Marx non scopre qualcosa che c’è già, ma lo fa esistere.

La rivoluzione promessa da Marx ha fatto sì che per un numero enorme di esseri umani esistenza e storia si siano intrecciate in modi e con intensità del tutto inedite. Grande e tragica vicenda di libertà, carica di imprevisti, di smentite e scarti, non solo di conferme. Tuttora incompiuta interroga il nostro presente. (p.25)

Recuperare Marx in questo modo ci può consolare riguardando la storia, la nostra storia. Ma c’è di più, perché c’è chi ha raccolto questa eredità simbolica, e se la sta tenendo stretta in mano da molto tempo. E’ il femminismo.
Secondo Boccia, il femminismo ha raccolto l’eredità radicale del pensiero di Marx, mettendo in discussione quella autorità del sapere, divenuta partito e Stato, cui era demandata l’opera di trasformazione della realtà, in luogo di produrre modificazioni a partire da sé. Con le donne come soggetto imprevisto (Carla Lonzi), si ricomincia il cammino del mondo per percorrerlo con una differente forma di soggettività, quella del soggetto sessuato, per donne e per uomini. “E’ differente la soggettività che oggi va risignificata, che può divenire protagonista attiva delle modificazioni, delle possibili rivoluzioni” (p.31).
E a proposito di soggettività e di rivoluzioni, non è forse vero che l’unico movimento che smaschera e colpisce l’intreccio dominante di sessismo e razzismo è il movimento delle donne? In tutto il mondo.

SIMONE WEIL E HANNAH ARENDT
Politica, parola spesso abusata nei movimenti, oppure denigrata quando è solo conquista e detenzione del potere (nell’orribile gergo attuale: la casta, la poltrona). Ma perché la politica può essere al contempo una dimensione di potere, propria del sistema politico moderno, e il suo contrario, cioè l’interazione con la pluralità, la ricostruzione della convivenza, cioè quella che come femministe pratichiamo?
Ce lo spiegano Arendt e Weil. Ci vuole un po’ di impegno per leggere questo saggio, ma ne vale la pena, troviamo risposte proprio a questa domanda.
Secondo Weil e Arendt, pur con accenti diversi, essere liberi e agire politico coincidono, “la libertà non risiede nella soddisfazione del desiderio, nel dedicarsi ad accrescere la sfera del «proprio», sia come beni che come potere” (p.46) libertà è sempre un interagire con la pluralità, senza prefigurare i risultati ( non è il nesso mezzi-fini della razionalità politica moderna ); nell’imprevedibilità risiede la qualità libera dell’azione, che consente di eccedere la realtà data, produce nel mondo qualcosa di nuovo, come ogni nascita.

Per Arendt il potere esercitato nell’azione politica, dovendo dare forma e senso alla libertà, «scaturisce fra gli uomini quando agiscono assieme e svanisce non appena si disperdono » (p.37)

La libertà in Weil e Arendt è una pratica di pensiero feconda, una possibilità di ricostruire una forma di convivenza rispondente alle esigenze dell’anima e agli obblighi di ciascuno/a nei confronti dell’altro/a da sé. Prescinderne significa costruire una società e uno stato che prevalgono sugli individui (Weil) o la spoliticizzazione come carattere endemico delle democrazie di massa (Arendt).

A questa prevalenza del produrre e consumare Arendt connette la spoliticizzazione come carattere endemico delle democrazie di massa, in quanto trasformerebbe in spontanea preferenza la fuga nell’impotenza, la rinuncia alla facoltà di agire (p.42). Sta venendo meno l’interazione con il mondo (p.38).

Sia Weil che Arendt “non si rassegnano a considerare inevitabile che esso [il sistema politico moderno] rappresenti in modo esaustivo «che cosa è politica», nell’epoca contemporanea (p.43). “Non è vero che la libertà cominci dove la politica finisce. Ed infatti per la concezione liberale tra l’una e l’altra vi è un rapporto inverso: ad un meno di politica corrisponde un di più di libertà, nel senso che vi è una necessità ridotta di assicurare quest’ultima, incrementando la prima. Questo malinteso agisce negli individui sociali, tenendoli lontani dalla politica”. (p.52)

SIMONE DE BEAUVOIR
Un libro può cambiare una vita, Simone ha cambiato la storia, con il suo Secondo sesso, nel 1949. Il congedo dal «destino» del secondo sesso. L’ inaugurazione del percorso della libertà nel divenire donna.
Un percorso non più affidato a realizzare la Femminilità, come identità di genere. Ovvero a fare della donna un essere in funzione dell’uomo. (p.69).
A leggere quanto scrive M.L.B. quando confronta De Beauvoir con Carla Lonzi viene da parteggiare, ora per l’una ora per l’altra. Ci piace quanto le accomuna: “non si può prescindere dal fatto di essere donna”, ma la femminilità, il genere, sono una costruzione storica, socio-culturale che può, deve, essere disfatta. E qui subentra l’interpretazione di Judith Butler (p.66). Le donne diventano soggetto nel decostruire la Femminilità. Ma “ se donna non si nasce, ma si diventa, posso ri-divenire donna,come soggetto”. (p.64).
Il Secondo sesso è un testo vivo,aperto, proprio perché ci invita a problematizzare il fatto di essere donna, per dare significato alla propria esistenza. (p.71).

Solo andando a fondo del proprio appartenere al secondo sesso, una donna può divenire soggetto, acquisire libertà. Questa è la matrice comune tra de Beauvoir e il femminismo contemporaneo, sia delle teoriche del genere che di quelle della differenza sessuale. (p. 67).

Spostarsi dalla relazione con l’uomo, alla relazione tra donne è la discontinuità più forte introdotta dal femminismo.(p.75). Ma non per entrare a pieno titolo nella trascendenza data, ma per produrre una differente trascendenza. Questo il punto su cui de Beauvoir e femminismo della differenza divergono profondamente. (p.76).

«Solo una donna può dirti « ‘Forza, il mondo ti appartiene’». Può cioè aprire le vie del mondo alla libertà femminile, non all’inserimento e alla condivisione del mondo per come gli uomini lo pensano e lo praticano.(p.77).

Così conclude Maria Luisa:

«Donna» è per Butler termine aperto, al nostro intervento, alla politica e alla risignificazione. Se questo è il significato della differenza, non possiamo ricomprendervi Simone de Beauvoir, portandola dove lei non è voluta andare. Ma ci fa da ponte verso il suo pensiero, e ci permette di leggere il Secondo sesso come un testo che parla al nostro presente. (p.80).

MARIO TRONTI
Convergenze e divergenze tra differenza operaia e pensiero della differenza sessuale, entrambe pensate come differenza politica. Tra le convergenze, seppur parziali, vorrei citare:

Per Tronti l’universalismo è quella posizione «di parte» che si pone come totalità, come intero – Stato, Società, Umanità – ed occulta , il proprio punto di vista particolare. Ed è davvero pertinente il giudizio di Tronti: «È impressionante come chi lo fa poco sappia di sé». È questo che abbiamo detto degli uomini, la cui differenza si è celata nel Soggetto neutro-universale, perdendo corpo e materialità.
Chi sceglie di porsi come parte – noi donne, noi operai, ovvero la differenza politica – ha come avversario, teorico e pratico, l’universalismo. (p.83).


Tra le divergenze, ne scelgo una, rispetto al tema dell’organizzazione, emblematica. La sintetizzo. Fare il salto dagli interessi alla politica vuol dire per Tronti dare forma al conflitto, al soggetto, al pensiero – e con queste parole possiamo rileggere il saggio su Arendt e Weil del primo capitolo - . Il dare forma per Tronti significa organizzazione, che tiene insieme imprevisto e continuità, cioè il partito. Ma oggi la forma del partito operaio è finita.
Ma ancor prima il femminismo non praticava e contestava la necessità dell’organizzazione, impossibile rispetto a un conflitto che si svolge ovunque, nel pubblico e nel privato, imprevisto come ogni pratica dell’agire singolare e plurale; impossibile applicarvi il linguaggio militare della forza.

ALAIN TOURAINE
Per Touraine ( e per Maria Luisa) ai discorsi sulle donne – sulle loro difficili condizioni sociali, sulla persistenza delle discriminazioni - sono di gran lunga preferibili le parole delle donne che provengono dal quel monde des femmes in cui comunque, anche grazie a quel femminismo che magari disconoscono perché non conoscono, se non nella vulgata mediatica, sono protagoniste dell’opera di creazione di sé.

«Sono una donna», osserva giustamente Touraine, non è una constatazione ma una «volontà di essere». È questo che accomuna femministe e post-femministe, donne diverse per generazioni condizioni, culture ed appartenenze politiche. (p.102).

L’affermazione «io sono una donna» non si propone di definire o normare che cosa è una donna si pone su un altro piano, quello del chi sono, che Touraine chiama, con felice espressione, creazione di sé. (p.103)


E non è, secondo Maria Luisa, un ripiegamento nel privato:

la risposta di Touraine, che condivido, è che la rivoluzione antropologica è una radicale alternativa politica. Ed ha operato in modo efficace. Proporsi come soggetti della propria esistenza è in sé un mutamento politico; vorrei dire quello più profondo necessario. E’ già politica, perché non investe soltanto la dimensione individuale.

Finalmente capiamo le nostre figlie che non si professano femministe, anzi: è perché la rivoluzione femminista è già avvenuta, dentro di loro, dentro le loro vite. Oggi molte giovani donne, quando percepiscono sulla loro pelle che questa rivoluzione non è avvenuta nel lavoro, nelle politiche sociali, e che soprattutto è in atto una reazione avversa, violenta, omicida da parte di molti uomini, scendono in piazza, come Non una di meno, o nell’arena pubblica e mediatica, come #Me too.

IMMANUEL KANT, E NON SOLO
Sembra quasi ci sia un filo nella sequenza di questo e del precedente capitolo, uno di quei fili che, come si legge nella sua introduzione, Maria Luisa cerca per legare testi scritti in periodi diversi, e sta tutto in quel richiamo di Kant, Osa sapere, che Maria Luisa rivolge alle donne, sia quelle che considerano ininfluente il loro essere donna, sia quelle che praticano la passione della differenza. Osa sapere, contesta l’autorità maschile, costruisci un sapere autonomo a partire da te:

Per molte giovani essere nata donna è un accidente al quale non dare troppa importanza, proprio per non esserne condizionate e limitate. Un accidente, non un destino. E la differenza non le appassiona, perché, alla lettera, non la patiscono. O meglio credono di non patirla.

Viceversa sono convinta che sia tuttora viva e sorgiva nelle vite e coscienze delle giovani donne, la passione della differenza (p.122). Il mio invito di femminista ad una giovane donna è ancora quello di Kant: «Osa sapere!». Con una decisiva chiosa: «Fallo a partire da te, dal tuo essere donna,nel corpo e nella mente (p.123).


“In questa vita corpo e mente sono inseparabili e quando permettiamo che il nostro corpo sia trattato come oggetto, la nostra mente è in pericolo”, è una bella citazione di Adrienne Rich (p.116). In questo senso Osa sapere è un messaggio recepito e messo in pratica dai diversi movimenti prima citati, Non una di meno, Me too , gli spazi liberi delle donne,dalle Case ai Centri donna ai Centri antiviolenza, movimenti pervasi dal pensiero, dalla creatività, dall’analisi critica, dalla capacità di scoprire e elaborare il nuovo; con i quali questo libro si confronta

Della Misericordia: PAPA BERGOGLIO, PIETRO INGRAO, GUSTAVO ZAGREBELSKJ, E ANCORA SIMONE VEIL, HANNAH ARENDT…

Papa Francesco
«Siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro. Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del ‘patire con’ ». Indifferenza è l’abito che indossiamo nella vita di ogni giorno, il modo in cui ci poniamo di fronte agli eventi per lo più da spettatori. Definirei l’indifferenza lo spirito del tempo. Rispetto al quale misericordia, come compassione – patire con – scrive papa Francesco, può essere kairos per un cambio d’epoca: questo tempo è «tempo di misericordia » (p.127)

Gustavo Zagrebelsky
sembra che pensare/immaginare un cambiamento d’epoca, dunque un differente ordine materiale e simbolico di rapporti, sia «ideologia», mentre accettare l’ordine esistente è «oggettivo», rispondente a leggi naturali, «scientificamente» provate.(p. 129)

Pietro Ingrao
Mi pesa la sofferenza altrui. Non è un sentimento altruistico. Sono io che sto male, che vivo come insopportabili le condizioni di vita degli oppressi e degli sfruttati. (p.133)


Sono citazioni che parlano da sé, con cui ci immedesimiamo. Accostamenti inediti che Maria Luisa declina su diversi argomenti. In particolare rispetto all’immigrazione.

Sia papa Francesco che Pietro Ingrao, scrive Maria Luisa, evidenziano come l’indifferenza trovi la sua espressione principale - «pura» scrive Ingrao – nei confronti delle e dei migranti. Di coloro che vivono questo tempo e questo spazio in movimento da un luogo ad altri. (p.131)
Cosa c’è di più assoluto nell’egoismo del negare libertà di movimento all’altro/a? Di respingere il suo farsi prossimo, visibile, udibile, tangibile?...Negando ai/alle migranti libertà di movimento noi neghiamo loro il futuro, non solo il presente. E quindi neghiamo all’altro/a da noi, di essere portatori e portatrici di una differente possibilità di vita: una possibilità inedita, imprevista, in quanto proviene da un altrove. E dunque un’occasione, innanzitutto per noi. (p.132)

L’imperativo, allora, della misericordia è di uscire da se stessi. Di abbattere le barriere dell’indifferenza in primo luogo dentro di noi. È una condizione essenziale per aggredire e modificare i rapporti strutturali che la riproducono.
Misericordia è un messaggio evangelico. Tuttavia è stata anche una parola del lessico politico e può quindi tornare ad esserlo. (p.133)

[Misericordia declinata come ] responsabilità personale, che investe ognuno e ognuna. E responsabilità comune verso il mondo.La responsabilità personale è la prima radice della politica, se è intesa come «obbligo incondizionato» verso l’altro/a. Per Simone Weil l’obbligo, non i diritti, va posto a fondamento della società politica. I diritti, come ho già sottolineato con Zagrebelsky, pongono l’uno di fronte all’altro, e dunque dividono, opponendo il -«mio» diritto al «tuo». E chi non ha diritti che voce ha? (p.135)


ANTONIO GRAMSCI
«Odio gli indifferenti [...] mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha dato e gli pone quotidianamente […].Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia».
Poche, asciutte parole per porre con forza il nesso tra politica e vita: «Vivo, sono partigiano». La pratica politica dà forma alla vita, le pratiche della vita, anche quelle quotidiane, danno forma alla politica. La politica, per Gramsci, è il compito che ognuno e ognuna deve svolgere, a partire dalla propria esistenza. Compito singolare e compito comune, poiché per nessuno e nessuna vi è rifugio nella presunta innocenza di non «prendere parte». Nell’essere partigiano, dunque, la singolarità che adempie il compito, posto dalla sua stessa vita, entra in relazione con altri ed altre.
Prende cioè forma l’agire collettivo. (pp.137-138).


Sono parole, quelle di Gramsci, tante volte lette, citate, commentate. Ma qui si confrontano con le contraddizioni della storia, perché quando il partito - ma oggi lo si può dire anche rispetto all’associazionismo o alla riduzione della politica al voto, alla partecipazione on line – non è più stato luogo di pratica e di passione politica, quando l’organizzazione ha prevalso e si è trasformata in istituzionalizzazione, allora partiti e associazioni si sono separati da chi invece pratica la politica a partire dal nesso con la propria vita.

Se non interviene la passione politica donne e uomini non agiscono. E’ quindi essenziale per la politica produrre uno scambio tra le persone – le loro vite, sentimenti, desideri, bisogni – ed i progetti, gli obiettivi, gli strumenti e le sedi istituzionali. (p.143)

Il femminismo ha evitato il peso e l’irrigidimento dell’organizzazione.

Il femminismo ha infatti scommesso sulla possibilità di dare stabilità, continuità e, soprattutto, forma all’agire singolare e plurale, senza costruire un’organizzazione. … [ anche se ]si fa più forte il rischio di una sorta di parallelismo, come se quella femminista fosse non una differente politica, ma un’altra cosa… Viceversa la pratica femminista è stata feconda proprio perché ha attraversato, con conflitti e mediazioni, tutti i luoghi dell’esperienza,dal privato al pubblico, dalla famiglia allo Stato.(pp.145-148).

Ma se la sfera pubblica si sta via via desertificando a vantaggio della scena mediatica, il femminismo allora fatica a trovare i suoi spazi. Il referendum sulla legge 40 lo ha dimostrato, quando competenze e pratiche femministe sono rimaste escluse, quando erano gli uomini, gli esperti a parlare per noi. E quanto ci ha fatto soffrire allora e oggi accendere la televisione. L’esito del referendum – votò il 26% - ha dimostrato che “la straordinaria affermazione di Gramsci «Vivo, sono partigiano» si è rovesciata nel suo contrario. Vivo, e sono indifferente». (p.149).
Oppure oggi si potrebbe dire: mi indigno, protesto, voto, partecipo ai social, credo di partecipare, ma resto spettatore o tifoso.

FEMMINISMI
I tre capitoli seguenti sono dedicati al confronto con altri femminismi, il femminismo musulmano, il femminismo paritario, definito addomesticato; e alla politica della cura.
Femminismo musulmano. Qui la chiarezza ci chiama ancora una volta in causa:

Non ho competenza per parlare di femminismo musulmano o arabo. Posso invece parlare dello spiazzamento che mi ha prodotto il confronto con questa realtà. L’ascolto di voci ed esperienze di differenti femministe mi ha aperto domande sul «mio» femminismo. (p.!61).

Se non pratico l’incredulità verso le mie convinzioni non posso farmi interrogare, anzi spiazzare, dalla verità dell’altra. E non posso allargare il confronto e tessere la trama comune ai differenti femminismi nel mondo.
[… La pratica del dubbio]È una pratica più esigente rispetto a quella che affida la personale ricerca della Verità alla parola, al testo, di un’autorità costituita quella del Profeta che dice la verità di Dio, o quella della Scienza, che dice la verità della Ragione, o quella del Partito, o quella del Femminismo. Nella pratica del dubbio è qualcuna, o qualcuno, ad enunciare una verità che altri/e riconoscono. Una verità che cammina ed agisce nel mondo grazie alla fecondità del dubbio. E non al contrario, affermandosi contro di esso. (p.168).

Come soggetti pensanti siamo «estranee» a tutte le tradizioni; e però a tutte apparteniamo, in quanto «la donna» è il pensato che ci consegnano, nel quale siamo chiamate ad identificarci. E con il quale non possiamo non fare i conti. Al contrario, dobbiamo necessariamente intrecciare due movimenti: fare e disfare la trama del pensiero,con il filo del vissuto femminile, nel lavoro di presa di coscienza che facciamo tra donne (p.153).

Un mondo pensato da donne non può non mettere in evidenza la trama complessa disegnata dai corpi e dalle relazioni sessuate e sessuali. Una trama in grado di lacerare il velo delle immagini femminili: da quelle del
corpo celato dai diversi hijàb-burqa, pardeh, chador niqàb, a quelle del corpo celato dalla nudità, diversamente esibita e abbigliata, nella pubblicità, nel porno, nella quotidianità – pants, mini, scollature, topless, tatuaggi, ecc. –. Dietro lo schermo di immagini e linguaggi corporei va mostrato il conflitto tra soggettività e disciplinamento che tutte le attraversa (p.164).


La pratica del fare e disfare insieme nel confronto, nel nostro comune mondo di donne, è cosa ben più giusta ed efficace di quell’universalismo dei diritti che prescinde dalle soggettività, quando per liberare le donne da libertà negate tende a sottrarle alle autorità patriarcali e religiose per sottoporle al controllo dello Stato (vedi legge francese sul velo).

Femminismo addomesticato, è quello riscontrabile nelle posizioni di quasi tutte le parlamentari della maggioranza politica della scorsa legislatura. Un femminismo, soprattutto dalle più giovani, considerato benemerito ma superato, oppure una sorta di “miseria del Femminile” di fronte “alle magnifiche sorti e progressive” - citazione mia dall’ ironia della Ginestra di Giacomo Leopardi - della raggiunta parità. Maria Luisa ripercorre le interviste che io stessa, con Vittoria Tola, abbiamo condotto con alcune parlamentari del Pd e di Sel. E svolge le sue puntuali considerazioni.

[A chi vi ha creduto, il numero delle elette, la presenza nel governo e in posizioni nuove e apicali sono sembrati risultati molto importanti sia in termini numerici sia di accesso al potere ] Viceversa viene proprio da qui «uno sguardo attonito sulla scena parlamentare». Non solo non è stata raccolta la sfida del femminismo più radicale, ma quella scena delude anche l’aspettativa – per alcune la certezza – che tante donne in Parlamento e nel Governo avrebbero inciso sulle scelte politiche e sulla qualità della democrazia; «tutto smentito dalla realtà? Tutto miseramente caduto?» si chiedono Isabella Peretti e Vittoria Tola, in dialogo con alcune parlamentari del Pd e di Sel. In questione non è la presenza in sé, ma «la scomparsa della differenza» [ E’ proprio questo il titolo della ricerca citata da Maria Luisa, “La scomparsa della differenza nella politica istituzionale” contenuto nel volume di Barbara Mapelli “L’androgino tra noi”]. Il Parlamento più rosa della storia repubblicana appare infatti “il meno segnato da una differenza femminile riconoscibile». È interessante come Peretti e Tola declinano la loro domanda. «Se la politica non può oggi fare a meno della risorsa femminile, ci domandiamo se a loro volta le parlamentari […] esprimano una propria soggettività o condividano una mera inclusione
paritaria, una valorizzazione desessuata delle loro capacità». Ovvero le donne, sia pure dotate della forza del numero,
trasversale ai diversi gruppi politici, non portano, nella politica istituzionale la differenza politica. (pp.185-186) .

Da un lato donne che il genere lo rappresentano, hanno parola e visibilità; dall’altro donne che lo subiscono,[di cui le parlamentari si ergono a paladine] imprigionate nell’immagine e nella condizione, immutata .– immutabile – di oppresse, dipendenti, deprivate innanzitutto di soggettività e libertà. In questa scena la rivoluzione femminista, come notano più voci, è inevitabilmente fuori posto/«fuori squadra».(pp.196-197)


Cura del vivere, politica della cura. Qui mi limito- perché è il saggio che meno mi ha convinto - solo ad alcune citazioni del libro di Maria Luisa, che su questo nesso, con il Gruppo del Mercoledì, ha elaborato un testo e prodotto diverse iniziative.

[…]lavoro di cura e cura del vivere non coincidono. Se dovessi dare una definizione, direi che cura [ del vivere] è la trama su cui si regge il mondo, tessuta per lo più da donne. Di questa opera molte donne non vogliono liberarsi. (pp.172-173).
[…] se è vero che le donne sono state assegnate al ruolo domestico e riproduttivo, questo ha costituito l’esperienza storica del genere femminile. In epoca recente, grazie alla presa di coscienza femminista, ha prodotto un punto di vista
differente sul mondo e sull’umano. Ovvero che se va perduta la «cura del vivere», sedimentata nell’esperienza femminile, peggiora la vita di tutte e di tutti. Da qui bisogna partire… (p.174)
La cura è un collante che tiene il mondo, che tiene insieme gli esseri umani e permette loro di convivere; se è vero che
il mondo che gli esseri umani hanno costruito per adattare il pianeta alla propria specie, non è stato finalizzato solo alla produzione ed appropriazione di beni ma, necessariamente, anche alla riproduzione delle vite, alla – parziale – soddisfazione dei bisogni del corpo e dell’anima e alla costruzione di relazioni. Qui rintracciamo il «di più», la differente qualità, che la cura immette nell’esperienza umana. Riconoscerlo, nominarlo, fa della cura una leva di trasforma
zione. Non una terapia a supporto della riproduzione dell’ordine sociale e simbolico esistente, ma una pratica sociale e politica allargata in grado «di contendere il comando sulle vite in questa contemporaneità globalizzata » (p.175).
Quella tra restare intrappolate nel destino del genere femminile o, viceversa, trarre dalla storia e tradizione del proprio sesso un pensiero trasformativo.Cosa vuol dire allora mettere la cura al centro del discorso della politica?
Significa, alla lettera, contrastare l’incuria che la pervade…( p.177)
Se la vulnerabilità dei corpi è ontologica, se è «la semplice esistenza » dell’altro/a che dobbiamo riconoscere, ne consegue che la convivenza – le Costituzioni, sostiene Simone Weil – devono fondarsi prima e più che sui diritti individuali, sull’obbligo incondizionato. (p.178)
La violenza di cui parla Butler attraversa il soggetto come le relazioni che stabilisce con gli altri e le altre. Come la
vulnerabilità da riconoscere e della quale farsi carico, la violenza è mia come altrui. Di conseguenza non posso prendermi cura dell’altro/a, se non mi riconosco vulnerabile e non mi prendo cura di me (p.179).


CORPO A CORPO
Sul corpo pensante e il pensiero incarnato lascio la parola alla sintesi che ne fa Maria Luisa stessa nella sua introduzione (pp- 14-15-16). La complessità e attualità dei temi trattati è chiaramente visibile; basta scorrere l’indice e i titoli dell’ultima parte del libro: corpi mutanti nello scenario tecnologico, il corpo e la legge, procreare altrimenti, il grembo insostituibile, l’embrione sovrano, chi è madre.

Partire dai corpi muta i termini del confronto ed apre possibili piani di convergenza tra femminismi differenti.
Nel percorso femminista la riappropriazione del corpo, in tutte le sue forme, è stata centrale. Dalle pratiche del self , alle narrazioni dell’autocoscienza, alla critica dei saperi sul corpo (scienze biofisiche e sociali, storia, filosofia, psicoanalisi, arti e comunicazione) è stata fatta un’opera ampia e diversificata, volta a esplorare la corporeità, in tutta la sua ambivalenza e complessità, con le differenze storiche, culturali, sociali che ne segnano l’esperienza.(p.14).

Sul corpo hanno preso parola anche altri soggetti, con i quali il confronto/scontro è divenuto più rilevante in questi ultimi anni. È una parola che muove dall’esigenza di rifiutare l’identità assegnata, in quanto corpo e mira a stabilire una corrispondenza tra il corpo che si ha e il corpo che l’io sente e vive come suo. Chi muove dalla consapevolezza che «il corpo con cui sono nato/a non mi corrisponde» mette in discussione l’identità, ed il sistema rigido della polarità duale a cui ha dato luogo. Diversamente da quanto si afferma di frequente, questo non comporta la negazione della differenza sessuale e della sessuazione dei soggetti. Quanto ho affermato sopra – nasco corpo e con il corpo che ricevo devo fare i conti – non è in contraddizione con l’affermazione «questo corpo non sono io». Al contrario quest’ultima è possibile perché la differenza sessuale si è spostata, divenendo sempre più significante in luogo di contenuto del discorso. Detto altrimenti, la differenza sessuale non può non aprirsi alle differenze plurali, al manifestarsi di soggetti con corpi e menti diversi. Dannoso è invece il discorso che pretende di irrigidirla in identità immutabili: donna o uomo. Dalla quale discende la lunga catena degli opposti: bianco o nero, eterosessuale o omosessuale, cristiano o musulmano, nativo o straniero. (p.15).

Questa complessità non è costruita sul vuoto, ovvero sullo sradicamento dell’umano dalla natura. Poggia infatti sul dato naturale che la specie umana si riproduce per differenza sessuale, e questa è funzionale alla riproduzione. Come sappiamo su questo dato si è costruito l’edificio imponente del patriarcato. Ma la riproduzione è ancora il crinale del conflitto più aspro, come dimostrano le accese contese sulla riproduzione «artificiale».
Il «corpo a corpo» di cui si parla in queste pagine è quello tra la soggettività sessuata, incarnata e i corpi oggetto del discorso biopolitico volto ad assoggettarla. O sottoponendola a rigidi divieti e controlli o riconducendola nello spazio neoliberale della contesa tra diritti uguali. In entrambi i casi, negando l’asimmetria tra donne e uomini nella procreazione. Riconoscerla, viceversa, vuol dire spostare radicalmente l’intero impianto teorico e politico dei rapporti umani, non solo nella filiazione, ma nella convivenza politica. È il tema della cura del vivere, ed è la matrice di una differente concezione della libertà. (pp.16-17).


E con queste ultime parole dell’introduzione, possiamo congedarci e rimandare alla lettura complessiva del libro.

È stato lavorando su questo «corpo a corpo», a più riprese ed in diverse prospettive, che ho sentito più saldo nelle mani il filo del mio pensiero. E mi sono ritenuta autorizzata a proporlo.

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