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Maternità e lavoro. Una battaglia vinta nel nome del diritto

Maternità e lavoro. Una battaglia vinta nel nome del diritto

Parliamo di Bioetica - La testimonianza presentata nel corso del Convegno organizzato dalla Commissione Pari Opportunità dell’Ordine dei Medici veterinari della Provincia di Salerno

Sabato, 27/02/2016 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2016

“Mi chiamo Maria e la mia è la storia di una donna, un medico veterinario libero professionista, che si è di colpo trovata ad affrontare la difficile posizione di lavoratrice in “attesa”. Perdonatemi se preferisco mantenere l’anonimato, ma la dura battaglia che mi ha visto protagonista ha lasciato segni indelebili, che ancora fatico a cancellare.

Tutto ha inizio quando, con incarico di Specialista ambulatoriale a tempo determinato, vengo a conoscenza del lieto evento che di lì a nove mesi mi avrebbe reso madre.

In seguito a regolare controllo ginecologico, dal quale si evinceva il mio ottimo stato di salute, informai il mio datore di lavoro allegando copia del referto, nel quale si faceva esplicita richiesta, considerato lo stato gravidico, al cambio di mansione.

Tutto mi sembrava estremamente semplice e naturale, io non ero “malata”, dovevo semplicemente evitare che con il mio lavoro potessi mettere a rischio la vita della creatura che portavo in grembo.

Altrettanto semplicemente mi aspettavo che, in risposta alla mia richiesta, ci si sedesse per discutere su cosa, dove e quando avrei potuto e dovuto fare per continuare a lavorare serenamente.

D’altro canto ero completamente a digiuno in materia di diritti associati alla maternità.

Di una cosa però ero certa: dovevo tutelare la mia salute, la nostra salute, perché le mie competenze fino ad allora, avevano previsto ingressi in stalla, visite e prelievi di sangue per la profilassi di malattie infettive quali tubercolosi, leucosi, brucellosi e così via.

Fino a quel momento, infatti, non mi ero mai sottratta al lavoro che mi competeva. Ad un mese dalla mia richiesta scritta, mi venne comunicato che nulla poteva essere accolto, in quanto le norme relative al mio tipo di contratto non prevedevano il cambio di mansione per lo ‘specialista’.

In particolare, si sarebbe dovuto applicare l’art. 37, comma 6, dell’Accordo Collettivo Nazionale vigente, il quale recita “...per gli specialisti ambulatoriali e i professionisti, incaricati a tempo determinato, nei casi di certificata malattia, nei casi di astensione obbligatoria per gravidanza e puerperio, l’Azienda conserva l’incarico per un massimo di sei mesi senza diritto ad alcun compenso”.

Questa vicenda diventava per me ogni giorno più complicata, ma soprattutto emotivamente difficile da gestire. Ero arrivata al quinto mese di gestazione, ma alla gioia di sapere che tutto procedeva per il verso giusto, si aggiungeva l’amarezza dei conflitti e delle discriminazioni sul posto di lavoro.

La voce si era diffusa e cominciava a venir fuori anche una immotivata ostilità dei colleghi, i quali mi accusavano di non aver voglia di lavorare, piuttosto che comprendere che si trattava dell’esatto opposto.

La mia voglia di lavorare era tale e tanta che non volevo fingere una gravidanza a rischio: io non ero malata, ero in attesa, e tutto procedeva per il meglio. Avevo solo bisogno di fare un lavoro meno rischioso, dal punto di vista fisico e del contagio microbiologico.

Sono stati mesi durissimi, più e più volte sono stata tentata di rinunciare a combattere, di tornarmene a casa, perdente.

Ma paradossalmente, più il clima lavorativo si faceva freddo ed ostile, più mi sentivo aggredita, umiliata e screditata, più la mia voglia di riscatto cresceva, nella più totale consapevolezza che ciò che stavo facendo era “giusto”.

Non sapevo, all’epoca, che la mia battaglia, prima ed unica nel suo genere nella nostra professione, sarebbe potuta essere da esempio per chi, come me, si fosse trovata nella mia stessa condizione.

In più, a chiunque di professionalmente adeguato al settore mi rivolgessi, la risposta era sempre la stessa: “sono spiacente, ma non c’è caso similare al quale rifarsi legislativamente parlando”.

Lo sconforto era devastante, fino a che, tra mille dubbi, paure ed incertezze, iniziai a documentarmi in merito, venendo ben presto a conoscenza del Decreto legislativo del 26 marzo 2001 n.151 “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela a sostegno della maternità e della paternità”.

Ecco, la prova tangibile del fatto che esistono lavori pericolosi, vietati in maternità, indipendentemente dallo stato di salute della madre, indipendenti dalla solita “gravidanza a rischio”.

Più leggevo, più mi documentavo, più si fortificava in me la convinzione che il diritto alla salute mia e del mio bambino andava onorata, era sacrosanta… ancor di più perché proprio in quei giorni venni a sapere che si trattava di una femminuccia!

Testarda, caparbia e convinta di voler esercitare solo i propri diritti, continuai a frequentare quegli uffici, facendo enormi sacrifici nel tentativo di farmi scivolare addosso tutte quelle ingiurie.

Al sesto mese di gravidanza, come un fulmine a ciel sereno, mi venne recapitato un documento in cui venivo letteralmente esonerata dall’incarico, senza giuste motivazioni.

A quel punto, l’indignazione rispetto ai soprusi sopportati lasciò il posto alla rabbia.

Pensai che l’unica cosa sensata da fare fosse rivolgermi all’Ispettorato del Lavoro, al quale scrissi che, poiché non mi era stato precedentemente accordato il cambio di mansione, chiedevo espressamente l’interdizione dal lavoro, così come recitava l’art.17, comma 2, punto B e C, decreto legislativo 151/01.

Intanto, sull’altro fronte, stavano maturando i tempi per l’astensione obbligatoria per gravidanza, così mi preparai per avere tutte le carte in regola: certificato medico con data presunta del parto e comunicazione ufficiale.

Trascorsero due mesi e l’incognita di ciò che ne sarebbe stato del mio lavoro pesava come un macigno.

Ricordo quei momenti, rivivo gli stati d’animo, le notti insonni, l’ansia per l’ignoto, mille paure… io, sola contro tutti!

Margherita nacque, e a quindici giorni dal lieto evento, mi vidi recapitare a casa la relazione dell’Ispettorato del Lavoro, la quale citava: “In riferimento all’interdizione dal lavoro, dagli accertamenti effettuati da questo ufficio, si evince che la lavoratrice sarà adibita a mansione diversa che non sia in alcun modo di pregiudizio alla salute della lavoratrice in periodo ante e post partum. Non ci sono elementi per giustificare l’interdizione dal lavoro”.

Mi venne così accordato il cambio di mansione prima del parto e per 7 mesi di vita del bambino, con riduzione oraria per allattamento.

Ce l’avevo fatta, avevo vinto.

Avevo vinto contro il pregiudizio, avevo vinto contro le ostilità, contro chi mi intimidiva dicendomi di starmene a casa e lasciare il posto a chi non aveva di questi “problemi”... così si chiama un figlio sul posto di lavoro? Problema?

Sono fiera di essere madre, sono fiera di svolgere il mio lavoro al meglio delle mie capacità, sono fiera di averci creduto fino in fondo.

Prima di essere un medico veterinario sono una donna.

La diversità biologica che ci caratterizza non deve e mai dovrà essere motivo di discriminazione né sul posto di lavoro, né in nessun altro luogo.

Oggi ho due figlie, e sono orgogliosa di essere una madre lavoratrice”.



La testimonianza presentata nel corso del Convegno organizzato dalla Commissione Pari Opportunità dell’Ordine dei Medici veterinari della Provincia di Salerno sul tema Maternità e paternità alla luce delle nuove prospettive legislative (Salerno 3 ottobre 2015)

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