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Padaung, cittadine a metà

Padaung, cittadine a metà

Birmania - Una pratica secolare crudele e la politica violenta di oggi impone alle donne-giraffa di rimanere ostaggi del turismo etnico

Di Pietro Maria Elisa Domenica, 12/05/2013 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Maggio 2013

Nel tardo pomeriggio i turisti affollano le scalinate della Shwe Sandaw Paya, la pagoda del tramonto, in tempo per ammirare la valle di Bagan sotto la luce più suggestiva. Intorno è un via vai di turisti e camion zeppi di monaci e pellegrini.

Colori vivaci spiccano tra la vegetazione: è un gruppo di donne giraffa o donne cigno, in birmano Padaung, che significa ‘lungo collo’, per l’uso di indossare anelli e spire di metallo che abbassano clavicola e cassa toracica, causando l’apparente allungamento del collo (anche 25-30 cm). Una pratica curiosa e fotogenica, ma costrittiva e mortale, che attira migliaia di visitatori all’anno. Quattro di loro si riparano all’ombra, in attesa di posare per i turisti. Indossano abiti tradizionali e coprono la testa con fasce e fazzoletti. Tutte tradiscono un velo di tristezza. La più giovane tesse svogliatamente e fissa il vuoto pensosa. La più anziana aggrotta le sopracciglia. Lo sguardo severo e circospetto accentua le rughe, arse dal sole e scavate dagli anni.

I Padaung sono una tribù montana appartenente ai Karen (circa 3,5 milioni, 7% della popolazione birmana), uno degli otto gruppi in cui confluiscono le 135 etnie presenti sul territorio nazionale. Vivono prevalentemente in un’area interdetta ai visitatori nella Birmania centro-orientale, ma frequentano anche i siti turistici della Divisione di Mandalay e dello Stato Shan. Appartengono al ceppo tibeto-birmano e giunsero in Birmania nel IV secolo a.C, da una mitica regione (Thibi Kawbi), tra Tibet e Deserto del Gobi. Durante il colonialismo inglese (1845-1948) hanno mantenuto l’autonomia statale ed erano la tribù birmana più nota, tanto che le donne erano esibite come attrazione in Thailandia e Inghilterra. Ottenuta l’indipendenza, il governo birmano ha avviato una politica accentratrice e discriminatoria delle minoranze, perciò i Karen insorsero per mantenere il controllo di un’esigua striscia di territorio (circa 640 Km) lungo la frontiera montuosa a ridosso della Thailandia. Di qui i Padaung sono fuggiti prima in Thailandia e negli ultimi tre anni anche in Cina,nella provincia dello Yunnan. Oggi la Thailandia ne conta almeno 133mila, di cui 500 in tre villaggi tra le risaie della provincia settentrionale di Mae Hong Son, al confine con la Birmania. Nel 1989 la Thailandia ha esentato dal rimpatrio i nuclei familiari che annoveravano donne giraffa tra i componenti e ha concesso loro la residenza temporanea per promuovere il turismo locale. Nel 1990 il conflitto è giunto al culmine: dopo i rastrellamenti, gli uomini sono stati costretti a lavorare come portatori, mentre le donne hanno fruttato la loro unicità per sopravvivere. Nel 1994 la Birmania ha siglato il cessate il fuoco, ma l’esercito non ha rispettato gli accordi. I Karen hanno subito la confisca dei terreni, lavori forzati, violenze, omicidi e stupri di massa. Nel 1995 la Birmania ha seguito l’esempio tailandese allestendo uno zoo umano di donne giraffa nella capitale per promuovere il turismo internazionale.

Nel 1998 i giornali hanno denunciato per la prima volta la segregazione dei Padaung a scopo turistico in Thailandia. Tuttora non sono formalmente rifugiati, perché non sono ospitati in campi profughi, ma appositamente relegati in villaggi accessibili ai turisti, che per l’ingresso pagano una cifra irrisoria (circa 6 euro), in minima parte destinata al sostentamento dei Padaung. L’importo non compensa affatto i divieti cui sono sottoposti: non possono lavorare all’esterno di quell’area, né cacciare, pescare, coltivare terre in concessione e nemmeno raccogliere legname. Tra il 2005 e 2008 circa 20mila Padaung sono stati trasferiti all’estero, dove conducono una vita dignitosa. Nel 2008 Zember (23 anni), ha tolto pubblicamente gli anelli in segno di protesta e ha ammesso “mi hanno fatto soffrire molto. Non li indossavo per i turisti, ma per tradizione. Ora mi sento comunque prigioniera”.

Dal 2011 le ostilità tra milizie indipendentiste Karen ed esercito birmano sono riprese: quasi 75mila Karen sarebbero fuggiti dalla Birmania, oltre la metà sarebbero rimasti per il timore di rappresaglie. La Cina, benché firmataria della Convenzione sui Rifugiati (1951) e del Protocollo aggiuntivo (1957), non tutela i profughi, ma dal 2011 rinnova azioni di respingimento d’accordo col governo birmano e provvede regolarmente al rimpatrio dei fuggitivi. La preoccupazione di mantenere buoni rapporti tra i due paesi e salvaguardare interessi economici e strategici pare prevalere rispetto all’esigenza di riconoscere e tutelare le minoranze etniche.

Il presidente birmano Thein Sein ha inaugurato una politica di apertura, ma la questione dei diritti umani delle minoranze non compare ancora nell'agenda politica del governo. Tutti i gruppi etnici auspicano che Aung San Suu Kyi possa svolgere una mediazione efficace col governo centrale, confortata dalla presenza di osservatori ONU nelle aree colpite da emergenze.

Non tutte le Padaung percepiscono drammaticamente la loro condizione. Pur di sentirsi al sicuro, molte indossano il collare e posano per i turisti come se fosse la migliore opportunità di lavoro. Anche altre donne giraffa che ho incontrato in Birmania, nei negozi allestiti nelle palafitte del Lago Inle, tessono malinconia e rassegnazione, sfoggiando sorrisi artificiali e sollevano lo sguardo dal telaio solo per farsi fotografare. Quello che un tempo era un segno di bellezza e prosperità, oggi è una palla al piede.

La leggenda più accreditata sull’origine dell’usanza narra che secoli fa gli spiriti venerati dai Karen (Nat), per punire i Padaung, aizzarono le tigri della foresta contro le donne. Un vecchio saggio consigliò di forgiare anelli d'oro per proteggerle dai morsi dei felini: chi non le indossava era giudicata priva di moralità, non poteva sposarsi, né avere figli. L’oro fu sostituito da una lega meno preziosa, ma l’uso non scomparve e il monile conservò valore sociale e morale, come un simbolo di fedeltà che rendeva la donna attraente, non solo per l’aspetto. La preferenza per i colli lunghi è infatti l’unica caratteristica estetica condivisa da tutte le culture ed è associata a dignità, autorità e benessere.

Le bambine che indosseranno gli anelli sono selezionate nei giorni di luna crescente tra quelle nate in giorni di buon auspicio che abbiano raggiunto 5 o addirittura 3 anni, età in cui non si manifesta certo un deliberato consenso. Durante la cerimonia del plenilunio si applica il primo collare (circa 3 kg), talvolta aggiungendo altre spirali o anelli a braccia e caviglie. Ogni due anni si aggiunge un anello al collo, fino al matrimonio, quando il peso può arrivare a 10 kg. In seguito, alcuni anelli sono sostituiti da una o più spirali ed è possibile togliere temporaneamente solo il pezzo alla base del collo.

I danni fisici sono irrimediabili: il peso e la trazione esercitata dalla corazza deformano la struttura ossea, i muscoli si atrofizzano e non reggono il peso del capo senza collare. Se fosse tolto, la testa cadrebbe in avanti bloccando la respirazione. Collo e arti sono stretti in una morsa, perciò la circolazione deve essere favorita con massaggi quotidiani.

La prosecuzione di questa pratica pone quindi delicate questioni, non solo antropologiche, ma anche politiche ed etiche, poiché le Padaung sono cittadine a metà e non sono libere di scegliere. Interrogativi specifici riguardano lo sviluppo del turismo etnico, che dovrebbe essere boicottato quando la domanda di primitivismo alimenta meccanismi di sfruttamento e spettacolarizzazione.





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