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Perché non ho denunciato

Perché non ho denunciato

Oggi è il Denim Day, la giornata istituita 15 anni fa dall'associazione Peace Over Violence in risposta alla sentenza della Cassazione che in Italia assolse un uomo dallo stupro di una ragazza perché indossava un paio di jeans.

Venerdi, 29/05/2015 -
Anche Noidonne aderisce al Denim Day, la giornata istituita 15 anni fa dall'associazione Peace Over Violence in risposta alla sentenza della Cassazione che in Italia assolse un uomo dallo stupro di una ragazza perché indossava un paio di jeans. 



L'iniziativa è promossa da un gruppo di giornaliste: Luisa Pronzato, Nadia Somma, Luisa Betti, che invitano tutte le altre, giornaliste e blogger, a fare proprio il titolo e l'immagine. E invita tutte le altre donne a raccontarsi rispondendo a "Perché non ho denunciato"? Hanno già aderito all'iniziativa i blog di Anarkikka (che ringraziamo per aver disegnato l'immagine di oggi), "Il corpo delle donne" di Lorella Zanardo, "Lipperatura" di Loredana Lipperini e "Gender, genere, genre...ma non solo" di Rita Bencivenga. Le giornaliste che invitano tutte le altre, giornaliste e blogger, a fare proprio il titolo e l'immagine. E invita tutte le altre donne a raccontarsi rispondendo a: Perché non ho denunciato su Twitter: #PerchéNonHoDenunciato #DenimDay.



Questa storia risale a un tempo molto lontano. Avevo sedici anni ed ero un’adolescente come tante alle prese con i desideri e le fantasie di un amore passionale e romantico, sconsiderato e totalizzante, capace di rispondere alla straordinaria vitalità e voglia di scoperta di quel periodo della vita.



Banalmente, ho incontrato un ragazzo ad una festa e me ne sono innamorata. Ce lo contendevamo, io e un’altra, e alla fine, l’ho spuntata io. Non sapevo ancora in che razza di tunnel fossi entrata e quanto mi sarei maledetta in futuro, ma come accade spesso, all’inizio mi sembrava di essere su una giostra luccicante, che mi faceva girare la testa e sorridere, senza chiedermi e chiedere nulla, se non che durasse ancora a lungo. Dopo alcuni mesi la persona con cui stavo, appena di due anni più grande quindi praticamente coetaneo, ha iniziato a manifestare la sua vera natura. Violento nei modi e nelle parole, gelosissimo, tendente alle minacce, alle chiusure, al mutismo rabbioso durante e dopo qualunque problema o discussione. Ricordo le folli corse in macchina, le tante volte in cui invece di guardare fuori dal finestrino per respirare aria pulita e ammirare il cielo azzurro, sporgevo la testa, dopo avergli gridato di rallentare, pur di non guardare la strada e di non cedere alla paura di uno schianto che lui sembrava sempre voler procurare.



Poi è successa una cosa – la cosa – che genera per sempre due metà di tempo separate. Un prima e un dopo. Una mattina abbiamo litigato per via della sua gelosia, e dopo avermi chiuso il telefono in faccia urlando che mi avrebbe raggiunta dove mi trovavo, ha incontrato dei poliziotti. Gli stavano facendo una multa e lui ha deciso di scaricare su di loro una rabbia feroce, finendo così in carcere per qualche giorno. Non abbiamo mai parlato molto di quell’episodio e lui dal carcere è uscito da piccolo ragazzo che ne aveva combinata una un po’ grossa. Nessuno gli ha chiesto il perché di quella rabbia che in realtà aveva un altro destinatario. Lui su questo aveva le idee chiare. “Ho fatto a loro quello che dovevo fare a te”, mi ha detto senza giri di parole. Non avevo molti strumenti e non parlavo con i miei per pudore e vergogna. Abbiamo continuato a stare insieme, cercando di far finta di niente e recuperare. Ho ricordi confusi dei mesi dopo quell’evento. Ho abituato la mia memoria a non funzionare bene, a rimuovere per sopravvivere, a lasciare piccole tracce sensoriali e a far scivolare nell’oblio tutto il resto. Sono rimasta con lui ancora dei mesi, fino a quando, dopo la maturità, ho deciso di trasferirmi da Palermo a Roma per studiare, e di fondo, per tagliare i ponti con quella storia, mettendo novecento chilometri tra noi. 



Quando l’ho lasciato ho subito minacce per mesi. Me lo sono ritrovato sotto casa a Roma e ho avuto – anche a distanza di molti anni – conferma del fatto che conosceva bene la mia vita, i miei spostamenti, i miei amori. Ho subito una violenza psicologica di cui non ho saputo liberarmi per molti anni, restando legata affettivamente a lui per tanto tempo, pur vivendo altre storie. E' andata così fino al 2008, anno in cui abbiamo deciso di fare un viaggio insieme. Le nostre vite erano separate da tempo e io non sentivo di dovergli nessuna spiegazione se uscivo o frequentavo altri. Eravamo a Madrid e prima di partire, ha spiato nel mio computer mentre ero fuori e al mio ritorno mi ha gridato contro la sua rabbia. Ero ancora per lui la puttana di sempre, che lo umiliava e lo faceva soffrire. Ha tirato cose nell’appartamento spagnolo che condividevo con altri ragazzi, ha urlato, ma siamo comunque partiti. Sapevo che stavo sbagliando ancora e che dovevo chiudere per sempre i ponti con una persona cattiva, sessista, violenta, falsa. Da quel viaggio in poi, non credo di aver provato alcun tipo di sentimento, se non una profonda sicurezza di non voler più sapere niente di lui. 



Non lo vedo da quattro anni ma so dove vive e so che ci sono meno chilometri tra noi adesso. La città dove risiede è ancora cancellata dalle mie rotte. Non sarà per sempre così ma dovrà passare ancora del tempo. A lui non penso quasi mai, e non lo nomino, ma ogni tanto mi tornano in mente alcuni dettagli o frasi isolate. Ricordo ad esempio che una delle ultime volte in cui ci siamo visti, mi ha detto: “Sei diventata femminista per merito mio”, ghignando, e io non ho smesso di pensare a quella frase per molto tempo. Ovviamente non gli attribuisco nessun merito e nessuna virtù. Ma è innegabile che esiste una correlazione profonda tra la rabbia che questa storia ha seminato dentro di me e le mie esperienze successive, il mio cercare, il desiderio di mettere a disposizione la mia parola per le altre.



L'ho odiato. Forse una parte di me lo odia ancora. Ma non l’ho mai denunciato perché pensavo che con quello che aveva fatto a diciott’anni, ci avesse già pensato lui a rovinarsi la vita. Anzi, per molto tempo, ho pensato che fosse colpa mia. Del resto lo pensavano lui e la sua famiglia, e alcuni dei suoi amici. Non ho mai pensato veramente di denunciarlo anche perché di lui mi volevo solo liberare, nonostante ci abbia messo anni per capire le ragioni profonde di quella maledetta dipendenza, ragioni su cui, in parte, sto ancora lavorando. Mi dico che se mi avesse preso a calci forse avrei capito più in fretta. La violenza psicologica è difficile da dimostrare a volte persino a noi stesse. Poi mi dico, che no, meglio che quel calcio non me l'abbia dato, anche se io sento di averne presi tanti. 



Adesso so che non si dimentica mai e che il dolore psicologico, come quello fisico, scava ferite profonde le cui cicatrici rimangono forse per sempre, e che di questo però non bisogna farsi nessuna colpa. Ho capito anche che ritrovare il filo della propria esperienza nella storia di un’altra o delle altre, può avere un potere liberatorio enorme perchè circoscrive lo stato di solitudine e di vergogna in cui inevitabilmente si cade. Io ho dato un senso a quella rabbia incontrando il femminismo, la forza di donne che insieme chiamano le cose con il loro nome ed escono dal seminato, dai ruoli assegnati, dal già deciso. E per questo aderisco a questo racconto collettivo, come un ulteriore, o forse ultimo, atto di guarigione personale. Augurandomi e incazzandomi perchè ogni donna che ha subito violenza, fisica o psicologica, che abbia denunciato o no, trovi la sua strada per tornare ad essere libera e impetuosa.


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