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Pratiche pacifiste. Tre resistenti a Roma

Pratiche pacifiste. Tre resistenti a Roma

Mondo e pace - La rivista Confronti con il progetto ‘L’altra via’ valorizza le esperienze di Selay Ghaffar (Afghanistan), Ozlem Tanrikulu (Kurdistan) e Rada Zarkovic (Bosnia Erzegovina)

Redazione Venerdi, 04/12/2015 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Dicembre 2015

 L’altra via. Dal conflitto alla ricostruzione: strategie al femminile è il nome del progetto che impegna la rivista Confronti dal 2012. Obiettivo dichiarato, quello di dare sostegno a piccole esperienze imprenditoriali promosse da donne che vivono in aree interessate dal conflitto; donne appartenenti a gruppi religiosi ed etnici diversi che, nell’ambito di un più ampio processo strutturale di ricostruzione del tessuto sociale ed economico che interessa i loro Paesi, hanno deciso di impegnarsi in prima persona, costituendo attività imprenditoriali e associazioni nel settore del microcredito, dell’emancipazione femminile e dell’assistenza sociale.

Quando parliamo di un’altra via ci riferiamo a un diverso modo di pensare ed agire, tutto al femminile: l’altra via è un’alternativa sociale ed economica al “sistema”, un percorso fatto di cura e condivisione di ideali prima ancora che di lavoro; è un impegno politico volto alla risoluzione pacifica dei conflitti. L’altra via, ancora, è una strada sterrata ma ben battuta da coloro che, di fronte alle piccole difficoltà della vita quotidiana così come ai grandi ostacoli che in tempo di guerra impediscono lo svolgersi della vita stessa, decidono rimboccandosi le maniche, per sé stesse e per i loro figli, ma anche per una società e un territorio che intendono valorizzare e alla cui ricostruzione vogliono contribuire.

L’altra via è quella che hanno voluto tracciare, tra le altre, Selay Ghaffar (Afghanistan), Ozlem Tanrikulu (Kurdistan) e Rada Zarkovic (Bosnia Erzegovina) protagoniste del convegno “Voci di donne che resistono” (promosso da  Confronti, grazie al sostegno dell’8 per mille della Chiesa valdese) che ha avuto luogo a Roma lo scorso 15 ottobre presso la Federazione Nazionale Stampa Italiana. Tutte e tre, nonostante i differenti ambiti di azione e contesti geografici e culturali di provenienza, condividono una stessa visione del mondo, e proprio per questo hanno scelto di confrontarsi con il pubblico italiano e narrare le loro esperienze di resistenza. Tutte e tre hanno scelto di abbracciare una causa, politica ed economica, e di farne una missione di vita, ed hanno testimoniato il coraggio che le spinge a lavorare per il superamento della barriere etniche e religiose tracciate a tavolino.



Selay Ghaffar è portavoce ufficiale di Hambastagi (Partito della Solidarietà dell'Afghanistan), l’unico partito di opposizione attualmente presente nel Paese. Giovane e carismatica, si occupa di diritti umani sin dall’età di 13 anni quando, profuga con la famiglia in Pakistan, avvertì l’urgenza di fare qualcosa di concreto per il suo popolo, proprio a partire dall’educazione, perché l’istruzione è il primo passo verso qualsiasi forma di autodeterminazione. Da questa esperienza di volontariato in favore di donne e bambini, nasce nel 1999 l’Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan (HAWCA), associazione che attualmente presiede, attiva anche in Pakistan. La decisione recente di accogliere un incarico di grande visibilità all’interno di Hambastagi, invece, scaturisce dalla constatazione da parte di Selay che il lavoro nelle organizzazioni umanitarie non è di per sé sufficiente: un vero cambiamento, più incisivo e duraturo, capace di intaccare il sistema e non solo di trovare soluzioni ai danni che esso arreca, si può ottenere soltanto attraverso l’azione politica. L’obiettivo principale di Hambastagi è proprio quello di perseguire la parità dei diritti tra donne e uomini, oltre alla laicità dello stato, impresa non certamente semplice in un paese come l’Afghanistan che, secondo un recente sondaggio, è in assoluto il più pericoloso al mondo in cui una donna può vivere. Un paese dove le donne, accusate per sedicenti reati morali, subiscono da quarant’anni le pene più atroci e degradanti che vanno dalle violenze di gruppo alle lapidazioni, fino alle acidificazioni; dove carcerazioni e torture sono all’ordine del giorno.



Diverso da quello di Selay, ma non meno complesso, è lo scenario descritto da Rada Zarkovic, Presidente della Cooperativa bosniaca “Insieme”, volto senz’altro noto a molte lettrici di NOIDONNE. È lei a mostrare a tutti noi “l’altra via possibile”, quella tracciata attraverso il lavoro, che oggi, dopo anni di impegno e perseveranza, comincia a dare i suoi frutti. Storica femminista e pacifista jugoslava, profuga a Belgrado con le Donne in Nero, Rada non è solo un’imprenditrice e il suo progetto è qualcosa di più di un’impresa economica. I frutti cui allude, infatti, non solo soltanto le more, i lamponi e i mirtilli coltivati biologicamente dai soci della Cooperativa sulla riva della Drina, a pochi chilometri da Srebrenica, utilizzati poi per la produzione di marmellate; i frutti che oggi raccolgono sono anche quelli che hanno portato al ripopolamento dell’area attorno a Srebrenica, tragicamente desertificata dopo il genocidio dell’11 luglio del 1995. La Cooperativa Insieme ha dato una risposta concreta ai bisogni di un territorio massacrato, coinvolgendo donne (ma anche uomini) in un progetto che proprio attraverso il lavoro sta ricucendo un tessuto sociale smembrato, riallacciando le relazioni lacerate a partire dalla condivisione del dolore dell’altro. Rada, d’altronde, ha sempre resistito ai tentativi di strumentalizzazione politica volti a sottolineare le “differenze etniche” tra le lavoratrici della cooperativa. “Tutti si aspettano da noi lamenti e manifestazioni di dolore, racconti delle perdite subite - afferma Rada richiamando uno stato delle cose che vuole le sue donne sempre e soltanto delle vittime, vedove di guerra bisognose di aiuto -. Io non sono qui per rappresentare il dolore di nessuno, neanche il mio. Sono qui per parlare di donne che hanno deciso di prendere la propria vita in mano, che sono state capaci di guardare al futuro invece di lamentarsi per quello che è stato”.



“Un altro mondo è possibile ma solo se costruito dalle donne con le donne”, conclude Ozlem Tanrikulu, presidente dell’Ufficio informazione del Kurdistan a Roma e membro del Congresso Nazionale del Kurdistan, ammiccante verso le compagne. È lei a richiamare l’attenzione verso un altro tipo di resistenza, ben nota a noi tutti: quella delledonne curde che lottano a Kobane (nel Rojava, Siria) come a Bakur, in Turchia, contro l’avanzata dell’ISIS. Una lotta, sottolinea, che al dì là dei sensazionalismi e della strumentalizzazione mediatica, ha avuto origine negli anni Settanta, quando il movimento delle donne curde ha assunto dovunque il carattere di un movimento di ricostruzione della società e dell’economia che parte dal basso; un percorso di contrapposizione a un sistema patriarcale e/o clanico e/o religioso che distrugge, uccide. Un percorso, certamente, che richiama la vita, della quale la donna è unica portatrice.



Foto gentilmente concesse da Mario Boccia

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