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Riflessioni personali in ricordo di due vittime di lavoro nero

Riflessioni personali in ricordo di due vittime di lavoro nero

L'anniversario della scomparsa di Annnamaria Mercadante e Giovanna Curcio, morte nel rogo di una fabbrica: spunto per una riflessione sul valore della sorellanza

Mercoledi, 04/07/2018 - Una tappa importante per dare un’inversione di tendenza sostanziale al mio impegno militante a favore delle donne fu quella di agire in sinergia con chi di quell’impegno aveva concretamente bisogno. L’occasione mi fu offerta dalla tragica morte di due donne, a seguito dell’incendio del laboratorio illegale in cui lavoravano, la Bimaltex. Il 5 luglio 2006, a Montesano sulla Marcellana (Sa), Annamaria Mercadante, di 49 anni, e Giovanna Curcio, quindicenne, furono uccise dal fumo sprigionatosi dalla combustione delle lastre di lattice utilizzate per il confezionamento dei materassi. Chiusesi nel bagno dell’opificio, le due donne avevano sperato di proteggersi da quelle scura coltre nera, che invece rese quel piccolo ambiente una vera e propria camera a gas.
Nell’immediatezza della notizia mi contattò la consigliera di Parità della Provincia di Salerno, la avv. Lùcia Senese, perché voleva tentare di costituirsi parte civile nel processo che di lì a poco sarebbe iniziato contro il titolare della Bimaltex e le occorreva il consenso delle parti. Superai i miei iniziali timori, feci in modo di conoscere i familiari di Giovanna Curcio ed entrai discretamente in una vicenda piena di dolore e sofferenza. Essere vicina a quelle persone, completamente investite da quanto occorso alla loro cara congiunta, mi consentì di capire meglio il particolare fenomeno del lavoro nero.
La legge del “O si lavora così o niente” imperversava impunemente in un ambito territoriale che poco lavoro regolare offriva alle donne, che, altrimenti, per trovarlo dovevano recarsi a decine e decine chilometri di distanza dalle loro case. Come la madre di Giovanna che si svegliava alle quattro di mattina per recarsi nella Piana del Sele e ritornare a Casalbuono con un salario più o meno decoroso. Tale non era, però, quello di sua figlia, costretta a faticare insieme ad altre operaie a meno di due euro all’ora in un laboratorio sconosciuto alla legge, seppure fosse situato in un fabbricato adibito a civili abitazioni, con al piano superiore della Bimaltex addirittura una scuola elementare.
Per la morte delle due donne, private finanche delle ordinarie norme poste a tutela della propria vita, il titolare della fabbrica, Biagio Maceri, nel 2014 è stato condannato in via definitiva ad otto anni di reclusione, con pena motivata «dalla grave noncuranza - scrivono i giudici - manifestata dall'imputato per la vita delle proprie dipendenti». Nero era il lavoro di Giovanna ed Annamaria, come nero fu il fumo che le uccise. Ho seguito i passi iniziali del processo, in cui peraltro fu respinta l’istanza di costituzione di parte civile da parte della consigliera di Parità, per fare avvertire ai familiari di Giovanna quella solidarietà di cui avevano bisogno per proseguire in una battaglia particolare.
Difatti, al di là della ricerca di giustizia per la loro cara, i congiunti desideravano conoscere la verità di quella tragica vicenda. Ricordo ancora quando, piangendo, mi fecero presente che si sarebbe voluto attribuire la causa dell’incendio ad una sigaretta fumata da Giovanna, quando invece alla lettura delle perizie disposte dal tribunale feci constatare che la scintilla fu originata da una ciabatta elettrica surriscaldata su cui poggiavano molte lastre di lattice. E come dimenticare l’aiuto offerto dalla avv. Senese nel richiedere agli enti preposti la restituzione di una somma indebitamente pagata dal padre di Giovanna all’atto del trasporto della salma in ospedale, per l’effettuazione dell’autopsia disposta dalla magistratura.
Donne al fianco di altre donne in difficoltà è stata la costante di quei mesi trascorsi insieme a chi non solo si trovava ad affrontare quotidianamente le conseguenze di quella tragedia, ma soprattutto era abbandonata a sé stessa di fronte ad innumerevoli difficoltà. Un sostegno morale, un aiuto concreto, un supporto indiretto, così come quando accompagnavo la sorella ai convegni organizzati subito dopo il rogo della Bimaltex. All’inizio tanta solidarietà, via via scematasi al punto che i familiari di Giovanna si sono trovati soli ad affrontare un evento umano passato poi nel dimenticatoio.
Un regista, Andrea D’Ambrosio, nel 2016 mise anima, coraggio e testa nel racconto realizzato per il film Due euro l’ora, avvertendo su di sé il peso di una responsabilità collettiva per una tragedia che non poteva essere solo una vicenda privata. Quando presentò la sua pellicola a Sala Consilina l’emozione per il regista fu così intensa che riuscì a dire poco di quel tanto che avrebbe voluto spiegare, ma il suo “perché queste tragedie non accadano più” risuonò forte e chiaro nella sala cinematografica. Quell’accorato invito non era rivolto solo ai presenti ma anche ai tanti convitati di pietra assenti, che in virtù del loro ruolo avrebbero dovuto impegnarsi a tentare di arginare la piaga del lavoro nero nel proprio comprensorio territoriale d’appartenenza.
Il film ha ricevuto premi ed attestati di riconoscimento finanche fuori dall’Italia, per avere raccontato di una realtà ancora presente e delle sue protagoniste e sodali alle prese con un pressante bisogno di essere tutelate. Da un padrone che le schiavizzava, da una società d’appartenenza che le lasciò sole e dalle istituzioni che le abbandonarono proprio quando necessitavano di un rilevante sostegno. Per rivendicare i loro diritti, per guadagnare un salario giusto, per vivere dignitosamente e per non morire di lavoro nero. Indubbiamente un parziale risarcimento morale ai familiari delle due donne, perché la loro tragica morte non deve essere considerato un fatto imputabile indirettamente a loro due, come se fosse possibile che la denuncia dovesse partire dalle stesse operaie, soggetti deboli di un rapporto di lavoro connotato dal “O così o niente”.
Ringrazio idealmente Annamaria e Giovanna, come anche familiari di quest’ultima, perché mi hanno consentito di esprimere una forma concreta e fattiva di sorellanza nei loro confronti. Un legame particolare che negli anni ha tracciato il mio impegno verso le donne, consentendomi di acquisire una consapevolezza nuova. Ossia che in ogni donna, incontrata nella nostro percorso di vita e bisognevole del nostro aiuto, si possa trovare un’occasione di crescita. Non solo personale ma anche sociale, per rivendicare la risoluzione dei suoi problemi e tentare di trasformare il proprio consesso sociale, rendendolo più rispettoso di ogni donna, nessuna esclusa.

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