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Shaimaa al-Sabbagh. Una vita spezzata per il diritto di manifestare pacificamente

Shaimaa al-Sabbagh. Una vita spezzata per il diritto di manifestare pacificamente

La notizia della morte della giovane attivista socialista ha sconvolto l’intera società egiziana.

Lunedi, 26/01/2015 -
Egitto. Il Cairo. Come quattro anni fa, qui si ripete lo stesso copione. Poco è cambiato, se non il numero sempre crescente di vittime dall’inizio della Rivoluzione del 2011 ad oggi. Aveva solo 33 anni Shaimaa al-Sabbagh, madre di un bimbo di cinque anni, quando ieri è stata uccisa da un colpo sparato dalle forze di polizia con l’intento di disperdere una piccola manifestazione pacifica organizzata dall’Alleanza del Partito Socialista egizianoin occasione dell’anniversario della Rivoluzione del 25 gennaio del 2011 nei pressii di Talaat Arb, a poche centinaia di metri dalla famosa piazza di Tahrir, dove 4 anni fa tutto ebbe inizio.



Giovane e grintosa a detta di chi la conosceva, da anni Shaimaa era impegnata per portare avanti un cambiamento, che ancora stenta a mostrare i suoi frutti nella società egiziana. Violenza sulle donne, aumento del caro vita, alto tasso disoccupazione giovanile e di dispersione scolastica, e un parlamento ancora da nominare, sono solo alcuni degli elementi che ad oggi fanno dell’Egitto un Paese poco stabile, nonostante i suoi sostenitori sostengano che le fasi buie del periodo Mubarak e Morsi, i due presidenti deposti negli ultimi quattro anni, siano ampiamente superate.



In realtà quello che si sente dire in giro, tra le gente, è tutta un’altra storia. Mohamed, un tassista di 24 anni che ci porta dalla zona di Mohandeseen a Dokki, mostra tutto il suo disaccordo con l'operato del Governo di Al sisi. Lo scenario è il quarto anniversario della Rivoluzione, in una Cairo semi deserta in seguito agli inviti a non uscire di casa, trasmessi nei giorni scorsi attraverso la televisione ed i giornali. “Sto lavorando perché mio padre è malato. Deve subire un’operazione agli occhi. Da cinque mesi, lavoro 15 ore al giorno perché se non lavoro, la mia famiglia non potrebbe mangiare. Il governo non ci aiuta in nessun modo. Quattro anni fa pensavamo che tutto sarebbe migliorato. Ma oggi mi sembra che noi egiziani ci troviamo ancora allo stesso punto di partenza”.



Continua pronunciando l’espressione bedapt keda, molto utilizzata in arabo e che in italiano può essere tradotta come proprio così “Cambiamo i presidenti, ma i problemi sono sempre gli stessi. E l’esercito è sempre più potente. I militari hanno tanto potere. E chiunque si mette contro di loro, perde”. E quando gli chiedo se conosceva Shaimaa al-Sabbagh, la ragazza uccisa, mi risponde “Allah yerhamaha. Che Dio abbia misericordia di Lei. Una brutta notizia. Io la conoscevo, come la conoscevano tutti quelli che hanno preso parte alle manifestazioni del 2012 per ricordare le vittime dell’anno precedente in Via Mohamed Mahmoud, vicino a Tahrir.



A fine novembre di quell’anno partecipai con alcuni amici ad una manifestazione organizzata dal Movimento del 6 Aprile del quale lei faceva parte. Quella manifestazione, come le altre che erano state organizzate in quel periodo nascevano per denunciare l’uccisione di centinaia di innocenti da parte dell’esercito e garantire che i colpevoli venissero arrestati”. –A dicembre 2014invece i colpevoli sono stati tutti prosciolti da quell’accusa-



“Mi ricordo che ad un certo punto lei prese il megafono ed iniziò a parlare di quello che si sarebbe dovuto fare per l’avvenire dell’Egitto. Mi ricordo la sua voce, grintosa. Mi ricordo le sue parole, secche e cariche di energia. Proprio di quella energia che muove l’animo di ogni giovane che crede che un cambiamento sia possibile”. Sono parole amare, tragiche se si pensa che in Egitto la libertà di espressione in realtà è sempre meno tollerata. Dall’inizio della Rivoluzione 843 giornalisti si trovano in prigione per aver fatto il loro lavoro. Solo nel 2014, sono 221 quelli arrestati secondo quanto afferma il Committee to Protect Journalists. E non va molto meglio per la società civile. Le ONG, soprattutto quelle che lavorano per i diritti umani si trovano sotto il perenne controllo governativo, che di fatto può limitare ogni loro attività attraverso la legge n°84 del 2002 ed alcune sue probabili modifiche proposte nell’anno appena trascorso.

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