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Tomaso Binga: un'artista con l'apostrofo

Tomaso Binga: un'artista con l'apostrofo

In arte Tomaso Binga, nella vita è Bianca Pucciarelli in Menna. Le ragioni di un apostrofo in una mostra fino al 9 maggio a Roma

Domenica, 06/04/2014 - "Se pure la rosa perdesse il suo nome di rosa", diceva la Shakespeariana Giulietta Capuleti, "non resterebbe pur sempre incorrotto il suo profumo?". Nelle parole di Giulietta ci sono tante cose. Innanzitutto la voglia di andare oltre al posticcio delle etichette. Persino i nomi, per lei, sono etichette ("rinnega tuo padre, rifiuta il tuo nome" - così supplicava il suo Montecchi).

La voglia (la capacità) di andare oltre all'aspetto nominale delle cose, il "puro nome", il "semplice nome" è una peculiarità femminile: Giulietta ci riesce; non così bene ci riesce Romeo - l'orgoglio irrealistico di Romeo... Con questa piccola e amorosa preghiera, Giulietta si inimicava (oltre alla sua stessa famiglia) gente erudita come Varrone, Isidoro di Siviglia, Vico: i grandi studiosi dell'etimo, per cui "il nome era già di per sé la cosa designata.

Dispiace un po' per questi ingenui intellettuali, ma aveva ragione Giulietta, appena quattordicenne e molto innamorata: se pure i nomi delle cose dovessero cambiare, non muterebbe affatto la sostanza delle cose.

Su questa scia di provocazioni, Bianca Menna (artista vivente, poetessa e figura sovversiva del femminismo italiano ora esposta a Roma, nella Sala Santa Rita fino al 9 maggio) ha deciso di chiamarsi con uno pseudonimo maschile: "TOMASO BINGA".

Perché uno pseudonimo maschile? Per sottolineare il "privilegio virile che ancora domina nel mondo dell'arte".

"Nell’analizzare i condizionamenti, le frustrazioni, i tabù che hanno determinato nei millenni la dipendenza della donna dall’uomo" commenta Binga, "mi è sembrato di trovare nel linguaggio le forme grammaticali che hanno inabissato la nostra condizione femminile. Lavorare sulle parole e sulle loro declinazioni, prima con una scrittura dilatata, devastata, scarnificata poi con il mio corpo e la mia voce, ha significato per me compiere un lavoro di scavo in grado di portare allo scoperto le ideologie della repressione e del potere sulla condizione delle donne, sulla distruzione della natura, sull’alienazione del mondo del lavoro."

Quello dello pseudonimo maschile è un espediente consueto in letteratura. Le donne hanno sempre saputo tollerare la miopia di un "maschile plurale", di una "concordanza a senso", del resto.

Amantine Aurore Lucile Dupin, scrittrice francese del XIX secolo, fu messa all'indice nel 1863 dal papato. Con lei furono irrisi e cassati tutti i suoi romanzi, firmati col nome di penna "George Sand".

Rimase storica la sentenza sottilmente ironica di Flaubert, che ebbe con lei/lui* un intenso sodalizio: "Bisogna conoscerla come l'ho esplorata io... per sapere quanto c'è di femminile in questo grande uomo; per sapere l'immensa tenerezza di questo genio".

Così, l'artista salernitana Tomaso Binga si bea dei suoi autorevoli precedenti culturali mentre si occupa di "scrittura verbo-visiva" ed arte performativa femminista.

Tra le performances più eversive c'è da raccontare quella del "confessore elettronico".

"Vestita con un lunghissimo abito talare che cala dall’alto di una scala, in testa un cappello da prete, occhiali neri bordati di bianco, Binga finge di leggere, da un breviario appeso al collo, la poesia 'il confessore elettronico', diffusa da un registratore e scandita da un bip persistente. Poi, sul finire della lettura, Binga lascia cadere il breviario che si estende fino a terra con un’apertura a soffietto. A questo punto, Binga benedice i presenti con delle bolle... non papali, ma... di sapone."

(Poesia ‘90, Teatro Spaziozero, Roma; Le Muse Inquietanti, Museo Civico, Rende 1990)



Marta Mariani

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