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Tribunale di Taranto: Corso di formazione sulla “violenza di genere”

Tribunale di Taranto: Corso di formazione sulla “violenza di genere”

Si è svolto il 5 ottobre 2017, presso il Tribunale di Taranto, il Corso di formazione sulla “violenza di genere” in collaborazione col centro antiviolenza “Rompiamo il silenzio” Ginosa (TA).

Sabato, 07/10/2017 - “La violenza non ha giustificazioni. La responsabilità è sempre di chi sceglie la violenza” si legge sulla brochure di promozione; parole rimarcate dalla relatrice Simona Cardinelletti, psicologa, coordinatrice della scuola rifugio Zefiro di Ancona, presentata dalla moderatrice avv. Filomena Zaccaria

La psicologa ha iniziato la sua lectio con alcuni dati tangibili: “Secondo il gender gap report 2016 le disuguaglianze di genere sono all’interno della famiglia in percentuale altissima. Per quanto riguarda i processi su violenze di genere, o separazioni giudiziali per maltrattamenti, si fa passare la violenza come rapporto di coppia conflittuale, non è così. Il rapporto presuppone una relazione, che corrisponde ad azioni di reciprocità. Nella violenza di genere non c’è relazione, ma dominio, controllo dell’altro, il maltrattante crea disfunzione della soggettività dell’altro attraverso umiliazioni e controllo”.

Quando invece si confonde l’essere coppia conflittuale con la violenza e le molestie domestiche si mette allo stesso livello la vittima e il carnefice. Un grave errore dice la dottoressa “che porta a livello forense a inesattezze di giudizio, sia per la donna che per i minori. E poi si normalizza la violenza operando in questo modo”.

Le donne hanno deciso per fortuna di non stare immobili al loro posto, se le donne “stessero al loro posto” diminuirebbero le violenze. Quando le donne si sottraggono a ciò che viene loro imposto, ecco la violenza. Molte volte per paura del giudizio le donne non si espongono, non dicono apertamente ciò che pensano per paura di far traballare il loro matrimonio, per paura di subire violenza. Come si difendono le donne? Cardinelletti dice: “Con la strategia della resistenza: si autocolpevolizzano, hanno paura di ciò che può succedere in seguito, hanno sensi di colpa. La vittima a questo punto rimane bloccata nella sua casa.

E il copione è sempre lo stesso. Quando l’uomo maltrattante comprende che l’ha in pugno la umilia ancora di più , ha parole di disprezzo, squalifica ciò che fa (non sai pulire, non tieni la casa a posto, non sai cucinare); quando si arriva al punto limite la donna si ribella, ma mentre sta per prendere la decisione di lasciarlo ecco la carta giocata dal compagno del vittimismo, della minaccia al suicidio, autocommiserazione, falsa sottomissione. Una sceneggiatura che si ripete uguale in molte famiglie ingabbiate nella violenza. L’uomo diventa il principe e si vive una nuova luna di miele. Per poi ciclicamente tornare all’inferno. Ma poi ancora richieste di aiuto da parte di lui (tendimi la mano). “La donna, educata alla cura, va in confusione di fronte ad un uomo fragile”, sottolinea la dottoressa. Anzi mette in atto strategie di accudimento ancora più evidenti per venire incontro alle esigenze del maltrattante “incompreso”. Addirittura è lei che cerca di cambiare. Ma cambiare il sé è contro natura. Nessuno può vivere senza l’immagine del sé. A meno che non decida di umiliarsi a vivere con quello che il maltrattante le ha creato. E l’imbuto si stringe sempre più. Fino a morire fisicamente o annullare la propria personalità. Questa l’escalation della violenza che non diminuisce, può cambiare forma ma non diminuisce, invece aumenta sempre più. La donna cerca ancora di salvare il nucleo familiare, impara a modulare la voce, parlare a voce bassa, a non rispondere, a soddisfare i bisogni del partner, anzi ad anticiparli. Questo il motivo delle denunce e ritiro delle denunce.

Alcuni atti del tribunale che minimizzano la violenza del partner fanno molto pensare, dice la psicologa: “la signora non puliva”.

Le donne sopportano tutto questo anche per anni, appare quindi sbagliato che la giurisprudenza consideri “a sfavore” una violenza subita dalla donna per molti anni. Come se l’avesse accettata. Ma proprio questo indica il suo stato di sudditanza, l’autostima ridotta a zero da chi l’ha umiliata per anni. Il suo stato di confusione quando dopo un pugno l’uomo dice: ”tu mi hai fatto innervosire” la porta quasi a colpevolizzarsi. E non ne parla a nessuno. Neanche quando i fatti sono evidenti. A volte neanche dopo la condanna. La paura di confessare che il marito è arrivato a dirle: “sei solo una pazza, non ti crederà nessuno, e io chiamerò il CIM”. Ma a volte sono proprio queste parole a dare coraggio alla donna per scappare via. È un prezzo troppo alto da pagare. Si diventerebbe pazzi per davvero a rimanere. “O scappa quando le mani sul collo di lui le fanno perdere aria”.

Questo confidano le donne in terapia. Questo è il sommerso delle donne.

Prossimo appuntamento il 10 novembre presso il tribunale di Taranto

Elena manigrasso

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