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"Volevo essere una farfalla", di Michela Marzano

Una filosofa racconta di come l'anoressia le abbia insegnato a vivere.

Venerdi, 09/09/2011 - Michela Marzano, Volevo essere una farfalla, Mondadori, Milano 2011, pp. 210, € 17,50.



Alzi la mano chi non ha sudato sette camicie sui libri di filosofia, tra profondi entusiasmi e terribili scoraggiamenti. Può capitare tuttavia di riavvicinarsi a una delle più ostiche materie scolastiche grazie a una brillante filosofa, che scrive libri illuminanti e accattivanti. Michela Marzano è una giovane filosofa italiana che vive e insegna in Francia. Mentre cercavo approfondimenti per un lavoro sulle donne, ho incontrato il suo notevole Sii bella e stai zitta, divorandolo tutto d’un fiato. Poi è stata la volta di Della fedeltà o il vero amore, anche qui una piacevolissima sorpresa. E ho pensato che non avrebbe potuto stupirmi di più. Mi sbagliavo. Avevo appena terminato di leggere il suo pensiero sulla fedeltà, quando è uscito Volevo essere una farfalla. Come l’anoressia mi ha insegnato a vivere. Mi chiedevo se sarebbe riuscita a trattare un argomento così delicato e difficile e doloroso con la stessa nitidezza di pensiero, con la stessa lucida semplicità. Ci è riuscita.

Credo di aver letto quasi tutti i libri sui disturbi alimentari e mi incuriosiva lo sguardo di una filosofa. Ho trovato lo sguardo di una donna. Che ha avuto un coraggio ragguardevole. Perché non è facile dire “anch’io”. Perché i panni sporchi si lavano in casa e c’è sempre qualcuno pronto a ricordartelo. Perché mostrare le proprie debolezze significa mettersi a nudo, esporsi allo sguardo altrui che spesso è uno sguardo giudicante.

Il libro catapulta immediatamente dentro il cuore del problema: “Nel bene come nel male, non riesco a non essere eccessiva… Se c’è un termine che mi definisce veramente è ‘troppo’. Mi innamoro troppo. Mi appassiono troppo. Mi stanco troppo. Mi arrabbio troppo”. E riconoscersi dà già le vertigini. Fino alla tregua: “Ormai so che, prima o poi, passerà. Non rispondere al telefono. Non accendere il computer. Non parlare. Non muovermi. Non fare nulla”. L’unica soluzione possibile quando il cavallone si annuncia, arriva e ti travolge. Perché “quando si soffre, si è soli. È come se l’altro percepisse il dolore da lontano e volesse proteggersene. Lo sente, ma lo nega. Se ne allontana. Torna al proprio lavoro. (…) Soprattutto quando non riesce a capire cosa succede, quelle lacrime improvvise, quel brusco ‘non è niente’, quella paura che si spalanca…”. E poi l’importanza dello sguardo altrui, perché essere visti significa esistere, significa non essere trasparenti. E i sogni, che sono sempre incubi. E quel momento, perché c’è sempre quel momento, in cui tutto si spezza e, inesorabilmente, “nessuno si accorge di nulla”. E allora ecco la fame, ma “la fame non è appetito (…). La fame può anche essere una lotta. Un tira e molla quotidiano. Una sfida”.

Bambine diligenti. Ragazze e donne perfette. Che si adattano a tutto. Accomunate dalla negazione di qualsiasi forma di debolezza, “come se non si avesse il diritto di esistere, ci si scusasse di ‘occupare’ un po’ di spazio, si supplicasse il permesso di ‘essere’…”. “Se sta bene agli altri allora sta bene anche a me!” “Tutto pur di non ‘pesare’ sugli altri.” È tutta questione di volontà, perché “ci vuole una forza di volontà sovrumana per non mangiare, nonostante la fame. Ci vuole una forza di volontà sovrumana per non ‘cedere’, anche quando si muore di freddo”. Perché imparare a dire no alla vita significa imparare a dire no al dolore, controllare tutto, annullare le emozioni, fino a non sentire più male, fino a non sentire più niente, e galleggiare sull’onnipotenza. “Mi ero convinta che se fossi riuscita a diventare leggera come una farfalla, tutto sarebbe andato a posto. Sarei diventata forte, indipendente, libera. E non avrei mai più avuto bisogno di nessuno”. Sbriciolare il passato, vomitare la rabbia, punirsi per essere sporche, sporche perché non si è state capaci di difendersi, complici, comunque colpevoli. Del resto, se lo sguardo degli altri non ha visto, non è accaduto nulla. Raccogliamo veloci le briciole e buttiamole sotto il tappeto, ché lì forse non le vedrà nessuno.

Un libro importante, necessario. Anche per infrangere tabù e disinformazione: “Basta allora con tutti questi luoghi comuni che dicono che ‘le anoressiche’ rifiutano il mondo, mentre le ‘bulimiche’ si lascerebbero andare al magma delle pulsioni! Non esistono le anoressiche e le bulimiche. Esistono solo tante persone che utilizzano il cibo per dire qualcosa. Che non sanno più bene come e quando ‘aprirsi’ o ‘chiudersi’ al mondo”. E ancora, “ma perché attaccarsi a questo maledetto sintomo e cercare a tutti i costi di far entrare tutte coloro che ne soffrono nello stesso schema? Perché non ascoltare quello che ognuno dice, cerca, rivendica, supplica?”

“L’anoressia porta allo scoperto quello che non va nel profondo. È un’occasione per mettere un po’ tutto in discussione. Ma è anche una protezione. Che mette a distanza la disperazione. Che contiene il magma che si agita all’interno”. Ma attenzione, riprendere a mangiare non significa essere guariti: “Allora non basta ricominciare a mangiare. Non basta smettere di vomitare. (…) Niente cambia se non si scava dentro, profondamente, dove fa più male. (…) Si deve solo capire che non è tanto il ‘sintomo’ che fa soffrire, ma la sofferenza che si trasforma in sintomo. Per negoziare con la realtà il prezzo della propria libertà. Anche se le ferite non si cancellano mai”. La ricetta è tutta lì: smettere di fingere che vada tutto bene. Abbandonare il maledetto “come se”. Ed è già rivoluzione. E allora parlare, scrivere, denudarsi, perché “certe cose non esistono veramente finché non vengono raccontate. (…) Perché ci vuole un coraggio immenso per smetterla di soffrire”.

Nella storia delle persone che soffrono di disturbi alimentari, c’è sempre un genitore che per proteggersi ha scelto l’anaffettività, o la considerazione spasmodica di cosa dirà la gente, o le regole imposte senza via di scampo, e allora bisogna essere figlie irreprensibili, corrispondere perfettamente a quel modello. Spesso sono le madri. Qui c’è un padre, che commette l’errore più grave, e così dannatamente frequente: non mettersi mai in discussione. Che poi è l’ennesimo modo di fare “come se”, come se fosse giusto, come se fosse normale, come se fosse naturale. E allora si scatena l’esercito dei “se”: se riuscissi a dirglielo, se potessi spiegarglielo, se solo fossi in grado di parlargliene. Sono storie in cui è evidente che qualcosa non ha funzionato. “È chiaro che c’è stato un non-amore”. L’unico modo per uscirne è partire da lì. Scardinarlo, fotografarlo, dirlo e ridirlo, raccontarlo per esorcizzarlo. E infine perdonarsi, per perdonarlo.

La cosa più difficile è far capire agli altri, quando apparentemente non ci sono segni, quando sembra che vada tutto bene. “Hai tutto. Assolutamente tutto. Bellezza, intelligenza, sensibilità. Una famiglia, degli amici, dei diplomi. (…) per gli altri sei tu all’origine del tuo male”. E quant’è difficile spiegare, soprattutto quando non se ne ha alcuna voglia. Dire l’abisso, le tenebre, la paura di uscire, la sensazione di non valere nulla, l’ossessione, la disperazione, il terrore di non essere accettati, un dolore legato all’infanzia che all’improvviso ricompare, a tradimento, come un rigurgito violento, e “in quei momenti, non è la morte che fa paura. È la vita”.

Si può guarire. Si può usare quest’esperienza atroce per imparare a vivere. Imparando a dire no. Usando il fermo immagine e indugiandoci davanti: osservare, prendere tempo, spegnere tutto e riposare il motore. Azzerare. Accettare di commettere il peccato mortale di perdere tempo. Si può fare. Ma, soprattutto, “smettere di voler riparare il passato”.

Michela Marzano ci fa attraversare frammenti di dolore indicibile, laddove piangere non è concesso, dove il dolore è classificato come malattia mentale. E lo fa in punta di piedi, dicendo solo poco, piccoli flash, ché tanto non c’è bisogno di dire altro, si respira tutta la disperazione.

La Marzano analizza anche la relazione amorosa, l’innamoramento, il difficile equilibrio, la necessità di aprirsi, di confrontarsi, “perché per amare bisognerebbe potersi abbandonare”. Perché gli amori impossibili non sono veri amori.

Ma anche l’importanza della psicoterapia, la difficoltà di lasciarsi andare, di analizzare e rianalizzare. Risalire al momento in cui si è smesso di mangiare per dire no a tutti, “smettere di mangiare per far capire una buona volta per tutte a quella bambina che doveva smetterla di chiamare. Tanto nessuno le avrebbe mai risposto”.

Infine, la filosofa ci offre la preziosa occasione di comprendere la difficoltà di vivere e scrivere in due lingue, “perché non basta sapere come si dice qualcosa. Bisogna trovare la sfumatura giusta. Spezzare la distanza che esiste tra la parola e la cosa. Scivolare nei segni. Riuscire ad abitarli. Cambiare i gesti che li accompagnano”. Fa pensare allo splendido Amour bilingue di Abdelkebir Khatibi, dove l’autore si innamora in una lingua e si disinnamora in un’altra. Quando vivere in due lingue significa vivere due vite, scindersi in due, col rischio di perdersi. Sembrano cose semplici, ma non lo sono affatto. Come dire “ama il prossimo tuo come te stesso”: come la mettiamo con quel “come te stesso”? Perché la cosa più difficile non è amare il prossimo, ma amare se stessi.

Questo non è solo un libro sull’anoressia. È un viaggio che partendo da lì attraversa il male di vivere, i conti col quotidiano, la vita. “La vita non è meravigliosa. È difficile, piena di inceppi, faticosa. Talvolta anche deludente. Ma è un’avventura… E allora capita anche di essere felici.”. Bisogna imparare a stare bene, anche se nessuno ce lo insegna. Capire cosa ci piace e darci il permesso di farlo. Di desiderarlo. Imparare la gioia, abdicare a essa. “Stare di fronte alla montagna e decidere di non scalarla. (…) E non fare altro che ascoltare il passo delle nuvole sul prato”. Imparare a dire di no agli altri che non significa dire di no a noi stessi. Perdonarci. Per amarci. Finalmente.



Roberta Yasmine Catalano

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