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Un inquietante cammino a ritroso per i diritti riproduttivi delle donne italiane

Un inquietante cammino a ritroso per i diritti riproduttivi delle donne italiane

Ennesimi segnali di retrocessione in tema di diritti riproduttivi delle donne italiane provengono dalle istituzioni politiche e dalle associazioni ultraconservatrici

Martedi, 16/06/2020 - Semmai avessimo dubbi sul particolare clima di regressione nel Paese in tema di diritti riproduttivi delle donne, proveniente da determinati settori istituzionali e no della società italiana, in questi ultimi giorni due esempi ce ne danno un’ulteriore conferma. L’associazione Pro Vita & Famiglia, la onlus che organizza ogni anno la Marcia per la Vita, ha veicolato sui social una propria presa di posizione netta e ferma in tema di aborto del concepito a seguito di un episodio di violenza sessuale. Si è difatti scritto “Nessuno giudica le donne sofferenti. Ma ci rivolgiamo alla società che dice sì all’aborto perché punire un bambino che non ha fatto alcun male? #stopaborto”.
Corredando il post con la foto di due similari ecografie di feti, accompagnata dalla seguente didascalia “Quale dei due è stato concepito in uno stupro?”, la onlus ha gettato successivamente un pesantissimo macigno sul diritto della donna violentata di scegliere se proseguire o no la gravidanza effetto indesiderato dello stupro. L’associazione con il suo più che esplicito post ha suscitato innumerevoli proteste, cosicchè è stata costretta ad aggiungere come postilla “Nessuno intende giudicare, né colpevolizzare le donne, vittime di questo trauma. Il post vuole fare riflettere la società che si dice favorevole all’aborto”.
Toppa peggiore del buco a ben vedere perché, se realmente i Pro Vita comprendessero il trauma di una donna violentata, si renderebbero conto che proseguire una gravidanza frutto di tale dramma aggiunge dolore a dolore. Una sopravvissuta ad uno stupro necessita di tempi lunghi per elaborare la nefandezza che le è piombata addosso come un blocco di roccia dalle dimensioni sovrumane. Se, conseguentemente, decide di abortire, compie una scelta intima e personale che non le può essere addebitata come delitto di lesa vita. Ci stanno, così, riportando paurosamente indietro di decine e decine di anni sul terreno del disconoscimento della facoltà in capo ad una donna di decidere o no di diventare madre.
E, quando i Pro Vita spiegano meglio la propria posizione, sostenendo “Tuo figlio non ha nessuna colpa, eliminarlo non cancellerà la ferita; Anzi con lui tornerai a splendere”, siamo indotti a pensare che non si rendano conto di quello che scrivono. Poniamo il caso che proprio quel bambino che, a loro modo di vedere, dovrà nascere, continui a fare piombare la madre negli abissi infernali di quella violenza, quale luce, allora, potrebbe rappresentare al suo cospetto? Se capitasse che, guardandolo negli occhi, lei vedesse ancora lo sguardo malefico del suo violentatore, non potrebbe rinvigorire gli attimi interminabili dello stupro subito? E, se scorgendo in viso il figlio, cercasse di individuare segni della mimica facciale simile al suo aguzzino?
Ma non mettono proprio in conto i Pro Vita che il loro “Con lui tornerà a spendere” diventi invece il buio di una notte fonda, quella del dolore conseguente alla violenza sessuale, in cui la donna sprofonderebbe per i suoi giorni a venire? Anche ammesso che tale associazione abbia diritto ad esprimere la sua contrarietà ideologica all’aborto, non può concedersi questa palese entrata a gamba tesa nel dramma di una donna sopravvissuta ad uno stupro. Un dramma che porterà con sé per tutta la vita, un dramma su cui altri non possono discettare a proprio piacimento, soprattutto strumentalizzandolo a favore delle loro posizioni ideali.
Sembra proprio che siano passati invano 40 anni, se stiamo ancora a parlare della facoltà di una donna di decidere come e quando divenire madre. Questo diritto, riconosciutole dalla legge 194/1978, in questi ultimi anni ha subito continui e pervicaci attacchi, non solo nella sua portata sostanziale, ma anche in quella formale, ossia nelle modalità in cui può essere esercitato. E’, difatti, sempre di questi ultimi giorni un altro macigno gettato dalle istituzioni regionali umbre sulla possibilità concessa alle donne di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza di tipo farmacologico, così come era stato sancito da una delibera della precedente giunta Marini, che prevedeva la facoltà di assumere inizialmente la RU-486 in regime di day hospital e successivamente sotto stretto controllo medico.
Invece l’attuale giunta Tesei, peraltro da sottolineare presieduta da una donna, ha sancito l’obbligo dell’ospedalizzazione di almeno tre giorni, rendendo sia particolarmente ostico in questo periodo di emergenza sanitaria il percorso per ottenere l’opzione farmacologica, sia precipuamente oneroso per le casse del sistema sanitario regionale con l’allungamento, paradossale in epoca Covid-19, delle degenze ospedaliere. Le consigliere leghiste di maggioranza Ricci e Casacci hanno chiosato che l’aborto farmacologico in day hospital “rischia di lasciare le donne abbandonate a sé stesse, a gestire possibili gravi conseguenze per la salute e prive del necessario supporto psicologico”. Ma si rendono conto che, rendendo difficile il ricorso all’ivg farmacologica, tolgono così alle donne il diritto di non sottoporsi all’aborto chirurgico, un intervento indubbiamente invasivo sui loro corpi. La delibera della giunta Tesei, osteggiando il metodo che meglio si ritiene adatto alle proprie esigenze, si configura quale una palese retrocessione sul terreno del riconoscimento alla donna del diritto di vedere rispettate dalle istituzioni pubbliche le proprie scelte in tema di diritti riproduttivi.
Una retrocessione in piena linea con le posizioni nazionali di retroguardia al proposito dell’ivg farmacologica, che vede solo il 18% delle donne italiane interessate a scegliere tale opzione, contro il 66% di quelle francesi ed il 95% delle svedesi. Questi dati, forniti dal Ministero della Salute nel 2018, pongono indubbiamente il nostro Paese quale fanalino di coda in Europa, mentre l’aborto farmacologico, attualmente marginale in Italia, permetterebbe invece di decongestionare gli ospedali, alleggerire l’impegno degli anestesisti e l’occupazione delle sale operatorie, elementi di non poco conto in questa fase di emergenza sanitaria nazionale, che rende difficile anche gestire gli aborti chirurgici richiedenti numerosi accessi ambulatoriali, con il rischio di fare superare i limiti temporali previsti dalla legge 194.
Ha ben ragione Beatrice Curci quando, scrivendo sulla decisione della giunta Tesei da giornalista che si occupa di divulgazione scientifica, anche in virtù delle sue competenze sanitarie, afferma «L’ivg farmacologica è progresso scientifico e decisioni così marcano, qualora ci fosse il bisogno di sottolinearlo, una grave arretratezza. Prima ancora che scientifica, culturale. Di una “cultura” contro le donne e la loro libertà di scelta». Il post dell’associazione Pro Vita & Famiglia e la delibera regionale umbra, quindi, rispecchiano in pieno quel clima di retrocessione che vede l’Italia mettere in forte discussione i diritti sessuali e riproduttivi delle donne. Diritti indubbiamente a carattere personale, che non possono e non devono sindacati, a meno che non si decida di imporre per legge una gravidanza e la conseguente maternità.

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