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Ancora guerra, ancora guerre

Ancora guerra, ancora guerre

L’umanità non avrà pace fino a quando resterà in piedi il sistema patriarcale a dettare leggi e comportamenti

Lunedi, 11/07/2022 - È ucraina la donna che ogni 15 giorni viene ad aiutarmi per la pulizia della casa. Una mattina di inizio marzo è arrivata e il pianto, il suo e il mio, ha sostituito ogni parola.

Dopo sono arrivate le parole, poche, cariche di dolore e disperazione le sue. Le mie, come donna e come femminista, portano in aggiunta il peso di una sconfitta politica, difficile da sopportare.

La radice di ogni guerra svela infatti l’impianto patriarcale della struttura sociale/culturale/politica e del simbolico che la sorregge.

Come mai è ancora in piedi? E quanto tempo ancora ci vorrà per un suo superamento verso rapporti di pacifica convivenza tra persone e stati?

Sono decenni che in tante ce lo chiediamo ormai in ogni parte del mondo, non solo di fronte a discriminazioni, violenze, femminicidi, ma anche al puntuale ripresentarsi di conflitti armati.

Nel caso dell’aggressione russa all’Ucraina la vicinanza geografica e culturale, le nuove tecnologie comunicative, l’uso diffuso dei cellulari, hanno reso possibile far entrare il quotidiano di questa tragedia nelle nostre case, ora dopo ora, minuto per minuto attraverso i canali televisivi, ovunque ci trovassimo: siamo dentro, accanto alle voci, ai corpi, alla fatica, alla paura, ai tanti disagi, agli innumerevoli orrori. L’esibizione del dolore e della disperazione, immagini così nitide e forse inutilmente ripetitive, prossime alla spettacolarizzazione, hanno impregnato a lungo tanta parte di informazione: la fame, il freddo, i rifugi affollati, gli smembramenti delle famiglie, le case squarciate, la morte di civili tra cui tanti minori, madri in fuga con figlie e figli piccoli e animali che non si ha avuto cuore di lasciare, padri che restano per difendere e piangono senza ritegno nel salutare i propri cari ammassati nei pullman in cerca di salvezza.

In questo scenario drammatico i gesti della cura assumono una centralità e una evidenza cento volte più potente rispetto al tempo della cosiddetta pace. Anche l’accoglienza delle tante persone in fuga, soprattutto donne e bambini, in vari paesi europei compreso il nostro, sta a testimoniarlo. In regime di globalizzazione questa guerra tocca direttamente le nostre vite e non solo per la dipendenza dal gas russo e per le numerose ucraine che sostengono sulle loro spalle il peso della nostra emancipazione occupandosi di case, bambini, anziani, ma anche per la composizione multietnica e multiculturale di molte nostre famiglie.
Mia nuora italo-russa, ad esempio, impegnata a Firenze negli aiuti all’Ucraina, mi ha parlato all’inizio di sguardi su di sé carichi di diffidenza se non addirittura di odio.
Mi ha fatto notare da subito che le notizie che lei aveva di prima mano parlavano della ostilità a questa guerra della maggior parte del popolo russo, delle tante manifestazioni di protesta, delle repressioni e incarcerazioni in massa. Secondo lei il mondo dell’informazione non prestava sufficiente attenzione a questa coraggiosa presa di distanza che, se fatta conoscere, avrebbe aiutato a fare in modo che il popolo russo non venisse confuso automaticamente con Putin e la sua scellerata determinazione. Dalla Russia in verità le notizie delle proteste sono poi arrivate, con le incarcerazioni, i fermi, le manganellate, le fughe verso paesi limitrofi. Particolarmente forte e tempestiva è stata la reazione delle femministe russe che sin dai primi giorni hanno protestato e che in occasione dell’8 marzo hanno scritto e diffuso un documento durissimo. Eccone un passaggio:
“Noi, le donne della Russia, ci rifiutiamo di celebrare l'otto di Marzo di quest'anno: non darci fiori, meglio uscire in strada e deporli in memoria dei morti civili dell'Ucraina (circa 300 persone, tra i morti ci sono bambini), contro i quali il nostro paese ha scatenato azioni militari aggressive. O deporre fiori già donati ai monumenti: i fiori sono meglio delle pallottole. Tra le 12 e le 16, invitiamo tutti a deporre fiori presso qualsiasi monumento alla Grande Guerra Patriottica nella propria città, una guerra le cui vittime il governo di Putin copre spudoratamente commettendo crimini di guerra contro i civili di un altro paese. Mostrate al popolo dell'Ucraina, alle donne e ai bambini dell'Ucraina che siete in lutto con loro, mostrate che le madri e le mogli della Russia non sono pronte a ricevere i loro figli e mariti in bare di zinco. No, non limitatevi a mostrare, lottate per fermarlo! L'8 marzo è la giornata dei diritti delle donne, oggi ci battiamo per la pace per gli ucraini e le donne ucraine e per la libertà dei prigionieri politici russi, tra i quali ci sono sempre più donne ogni anno. Quest'anno l'8 marzo è per noi un giorno di rabbia e di lutto: chiediamo di venire senza cartelli e di organizzare momenti di silenzio stando in piedi davanti ai monumenti”.

Quanto spazio nei media ha avuto questo appello? Intanto la propaganda del regime di Putin vietava ogni voce libera e continuava e continua a martellare il popolo con una controinformazione che oscura la verità e giustifica l’intervento armato a cui è persino vietato dare il nome di guerra. La repressione si è fatta sempre più pesante, ma alcune forme di protesta da parte di artisti, giornalisti, intellettuali riescono a bucare la cortina di silenzio. In Italia molte e molti hanno preso posizione su questo conflitto e si è aperta una frattura sui modi per affrontarlo ai fini di una sua pacifica ricomposizione. La decisione unanime di sostenere la popolazione inviando beni di prima necessità e accogliendo i/le profughe si è intrecciata infatti al difficile dilemma: mandare armi per consentire la difesa all’aggredito o non mandarle in nome di un pacifismo senza se e senza ma e impegnarsi unicamente sul piano diplomatico?

Ho fortemente desiderato sin dai primi giorni una manifestazione nazionale promossa dalle donne in nome di un pacifismo femminista che ha una sua lunga storia a cui poter attingere. Nelle piazze ho visto, fin dall’8 marzo, soprattutto il movimento Non Una Di Meno sfilare nei cortei contro questa guerra, contro ogni guerra.

Mi sono chiesta: non era il momento giusto per superare frammentazioni e distinguo e organizzare una grande manifestazione unitaria di donne? Credo che dovremmo prima o poi avere il coraggio di fare i conti con questo nostro deficit di autorevolezza e autonomia politica.

Questa, va ricordato, non è una guerra tra due popoli, la Russia e l’Ucraina, indissolubilmente intrecciati per storia comune, lingua e parentele familiari, ma una invasione unilaterale da parte della Russia di Putin che sta alimentando una strenua e coraggiosa resistenza militare e civile; è un intero popolo con le sue fragilità, ambivalenze, imperfezioni che difende la propria autodeterminazione e libertà e chiede aiuto. Si intrecciano perciò iniziative diplomatiche, aiuti umanitari, invio di armi, sanzioni più o meno efficaci. Le iniziative diplomatiche vanno a rilento mentre l’invio di armi ha spaccato i partiti che ci governano, il mondo della politica e della cultura, ma anche l’articolata galassia del femminismo. Su questa ennesima frattura tra donne ha aperto un interessante spazio di interrogazione Guerra&Pace, il numero 153 di Leggendaria uscito a maggio che scrive, a proposito della scelta del titolo, “[….] entrambi i termini appaiono oggi, a dir poco, controversi. E certo divisivi, anche nella comunità dei femminismi italiani, al di là di chi sfodera certezze senza sfumature”. E sono proprio alcune certezze senza sfumature che mantengono il confronto prigioniero di un impianto binario da cui è difficile uscire se non con rigide contrapposizioni. Per questo nella rivista si propone la rinuncia femminista al paradigma bipolare del conflitto (Mariapia Achiardi Lessi) e si invita a dare voce, prima di prendere parola e dare giudizi, anche al conflitto interiore presente nelle nostre coscienze (Gisella Modica). Come sempre accade durante le guerre, spazio di impunità e di scelleratezze di ogni genere, sono arrivate puntuali le notizie di stupri e violenze sulle donne ucraine, dei tanti uccisi abbandonati senza sepoltura o gettati in fosse comuni, ma anche delle torture ai civili e infine quelle ai soldati sia da una parte che dall’altra. Si è gridato allo scandalo, espresso lo sdegno e ho pensato: perché, dopo l’esperienza delle due guerre mondiali e dei tanti conflitti armati sparsi nel mondo, ancora ci si meraviglia? Come se non si avesse consapevolezza di cosa significhi la dimensione dis-umana della guerra. Cosa nasconde questa smemoratezza generale, nonostante assistiamo da sempre in varie parti del mondo allo strazio dei civili, a milioni di profughi, stupri etnici, torture di ogni genere, ai tanti bambini costretti a diventare feroci soldati…. Intanto la guerra in Ucraina continua da mesi e la soluzione diplomatica sembra allontanarsi sempre di più mentre crescono in modo preoccupante emergenza ambientale, crisi energetica e crisi alimentare col rischio reale di milioni di morti per fame. E la ragione è tirata da una parte e dall’altra anche con una pioggia di notizie fasulle ingigantite dai social.

Come pensiamo di governare un mondo così complesso, con le sue innumerevoli differenze, con gli inevitabili conflitti? Come costruire oggi pratiche pacifiche di governo delle controversie?

Due a mio avviso sono le soluzioni da rifiutare con forza: da un lato la guerra fredda come possibile modalità di governo del mondo, una esperienza storica lunga e tragica che abbiamo ben conosciuto e di cui si è purtroppo ripreso a parlare nel nuovo assetto geopolitico che sembra configurarsi; dall’altro le vittorie ottenute con l’uso delle armi che danno ragione al più forte anche quando non ha ragione. Anche se viene da più parti riconosciuto il ruolo determinante delle donne nella soluzione dei conflitti armati, i tavoli di negoziazione internazionali restano caparbiamente formati soprattutto da uomini. Chi, inoltre, dovrebbe educare ad una differente formazione dell’alterità, ad acquisire capacità di mediazione in ogni contesto? Credo che sia auspicabile e urgente introdurre nei percorsi di formazione, in ogni scuola, anche in quelle di partito, come materie di studio e pratica didattica il sapere delle relazioni e il corretto governo dei conflitti, a partire da quelli interpersonali, per una cittadinanza responsabile e democratica fondata sulla solidarietà e sulla cooperazione. È infatti altresì necessario e altrettanto urgente chiedersi di nuovo cosa è nei fatti il tempo della pace col suo carico tragico di ingiustizie sociali, emarginazione, e, in particolare, cosa è per le donne, poste ogni giorno di fronte a femminicidi, violenze sessiste, forme varie di oppressione: è un tempo di guerra che non si riesce ancora a riconoscere e far riconoscere come tale. Insieme a molte sono perciò convinta che la pace sia destinata a restare una utopia se non se ne vede l’ostacolo più profondo e tenace che va ben oltre alle pure intollerabili diseguaglianze sociali, all’accaparramento delle risorse, al profitto ad ogni costo, ad un nazionalismo fuori ormai dalla storia in un mondo interconnesso e interdipendente.

Non ci sarà mai pace se resteranno attivi i germi più nascosti del patriarcato, se cioè non si arriverà in tutto il pianeta ad un patto di pacificazione tra donne e uomini con tutte le loro differenze, basato sull’empatia e sull’affermazione del valore universale della cura dei corpi, delle intelligenze, dei sentimenti, dell’ambiente, tutti beni primari e imprescindibili.

L’umanità non avrà pace fino a quando resterà in piedi il sistema patriarcale a dettare leggi e comportamenti. La pace infatti non può coesistere con il millenario sistema di dominio degli uomini su sé stessi, sulle donne, sulla natura. Questo è l’insegnamento che la storia umana consegna, oggi più di ieri, al nostro senso di responsabilità e al nostro legittimo desiderio di libertà e di felicità.  

Rosanna Marcodoppido


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