Assia Djebar: vita e narrazione di una identità in cammino
L'articolo ripercorre la vicenda esistenziale della scrittrice algerina sottolineando, in particolare, il legame tra vissuto personale, scrittura e vicende politiche del proprio Paese d'origine
Assia Djebar: vita e narrazione di una identità in cammino
di Alexia Giustini
“Viaggiando è bello avere una meta ma in fin dei conti è il percorso che facciamo ad essere importante”.
Ursula K. LeGuin
“Ovunque è l’infinito e quando i rischi di perdere non sono infiniti contro quello di vincere, non c’è da esitare. Bisogna puntare tutto!”
Blaise Pascal
La letteratura rappresenta, senza ombra di dubbio, un percorso privilegiato di conoscenza dell’altro, altro per il quale, è bene sottolinearlo, noi rappresentiamo sempre un altro. La parola scritta si attesta innanzitutto come luogo dell’emersione di un tu, di una differenza, che, “venendo al mondo”, crea lo spazio per un possibile dialogo e una libera relazione tra due soggettività discorsive. Per colui o colei che si pone in ascolto della parola scritta, la realtà immaginata, inventata o ricostruita, dall’altro, assume i connotati di una porzione di mondo, che rappresenta, al tempo stesso, anche provocatoriamente la testimonianza di un sentire differentemente e di un abitare diversamente il mondo, rispetto alla propria visione, al proprio modo di stare al mondo .
Proprio in virtù del suo connotarsi come luogo di un dialogo in assenza, come medium, la letteratura, portando in primo piano l’ascoltare, il comprendere e l’immedesimardi, svolge il compito, da un lato, di dar vita ad una differente messa a fuoco del quotidiano, dall’altro, di cogliere, attraverso il racconto prersonale dell’altro, strumenti per riconfigurare diversamente il proprio sè e il proprio mondo della vita. L’altro, allora, narrandosi, si mostra pubblicamente e acquista, grazie a questo atto della presenza significativa, lo statuto di persona, di soggetto, di alter ego, che proprio in quanto alter, diventa paradossalmente un possibile altro volto di noi stessi .
E, questo aspetto dialogico, relazionale e provocatorio della narrativa, che mette in atto al tempo stesso un’attività conoscitiva (di sè, dell’altro da sè) e “critica” (del proprio e altrui “mondo”), emerge ancor di più quando a prendere la penna sono persone, che provengono dalle parti più disparate del globo (Maghreb, Africa subsahariana, America del Sud, Europa dell’Est), quando a narrarsi sono, in altri termini persone, che testimoniano di un’altra cultura e nella loro testimonianza, percorsa spesso da abbandoni, fratture, lacerazioni con il Paese d’origine, portano un bagaglio di ricordi, di speranze, di attese e desideri. Individui che hanno ritenuto necessario rivolgersi all’altro, anche come semplice atto di condivisione di un passato o di un desiderio addivenire, spesso, usando la lingua dell’altro anche a causa di dolorose imposizioni politiche. Attraverso un percorso solitamente autobiografico, poiché narrarsi significa innanzitutto ascoltarsi e conoscersi, chi scrive definisce proprio attraverso l’atto della scrittura, la propria identità, la quale si viene connotando in un contesto totalmente diverso rispetto a quello d’appartenenza, un contesto estraneo, che scardina valori e certezze e dà vita ad un viaggio travagliato, traumatico e conflittuale, che è al tempo stesso di crescita e di ristrutturazione del sé.
Il testo e, in particolare, quello frutto di una partenza, di una fuga, di una speranza, sovente tradita, strappando il discorso alla evanescenza della voce, dà da pensare nell’atto della lettura, sostituendo al gioco del domandare e del rispondere, tipico delle situazioni dialogiche, l’immissione in una realtà, offerta quale orizzonte di discussione e comprensione altra. La letteratura della migrazione, in particolare, cedendo la parola a chi non ha voce, ci permette di conoscere, di vedere, di toccare storie di persone il cui destino si intreccia con quello del Paese natio, lontano, sognato, amato e con quello del Paese d’arrivo, agognato, desiderato, cercato.
Un esempio significativo di questa poetica, fatta di abbandoni, fughe, spesso indotte, rinunce, sogni e paure, di incontri tra culture, di riconciliazione tra mondi, è rappresentato dalla scrittrice algerina Fatima Zohra Imalayéne. Fatima Zohra Imalayéne nasce il 4 Agosto del 1936 a Cherchell, cittadina costiera a cento Km ad ovest di Algeri. Il padre, che ha studiato all’Ecole normale musulmane, è maestro; la madre, di provenienza berbera, vanta tra i suoi discendenti Abdelkader, luogotenente colto e geniale, leader della resistenza algerina, durante la colonizzazione francese. La famiglia si trasferisce a Mouzaia, un villaggio nella ricca pianura della Mitidja, oggetto delle più crudeli repressioni e feroci espropriazioni da parte dei colonizzatori francesi. Qui Fatima-Zohra frequenta la scuola elementare francese. Per alcuni anni, di pomeriggio, frequenta anche una scuola coranica privata. Compie gli studi superiori al Liceo di Blida e poi al Liceo Fenelon di Parigi. “Non sarei mai stata scrittrice se, a dieci anni non fossi potuta andare alle superiori; questo piccolo miracolo fu opera di mio padre, insegnante, uomo della rottura e della modernità rispetto al conformismo musulmano.”
Fatima-Zohra si trova così a vivere tra due mondi, uno interno – quello delle vacanze estive insieme alle donne della famiglia, chiuse nei loro patii, nei loro bisbigli ed uno esterno – quello della scuola, del collegio, dei vestiti occidentali, del corpo esposto, durante le ore di ginnastica, della fisicità, della libertà. La sua scissione finisce per coinvolgere inevitabilmente anche la lingua. Fatima-Zohra frequenta, infatti, due mondi linguistici. L’arabo, lingua dell’infanzia e dell’intimità tra le donne e il francese, che, seppure rappresenta la lingua del “nemico”, la sottrae alla segregazione, le permette di circolare negli spazi vietati e le fa assaporare il gusto della libertà. E’ nella letteratura, quale medium, ossia quale luogo di incontro, che ella tenta di superare ogni scissione e di arrivare ad una possibile congiunzione, “vivendo in un mondo dove colonialismo e separazione non esistono.”
Si trova a Parigi, quando nel Novembre del 1954 ha inizio la guerra di liberazione in Algeria. L’anno dopo è ammessa – prima donna algerina – all’Ecole Normale Supérieure de Sèvres. Ma, nel Giugno del 1956 decide di non presentarsi agli esami di licenza, così come hanno fatto gli altri studenti algerini, in segno di solidarietà con la resistenza algerina. “In quel periodo – ricorda – ricevevo quasi tutti i giorni delle telefonate di minaccia riguardanti il mio fidanzato. Era ricercato dalla polizia francese, ma tra i due movimenti nazionalisti algerini esistevano già delle divisioni e nel 1956 ci fu il primo attentato omicida tra i due gruppi. Ben presto mi resi conto che in un movimento nazionalista ci si divora reciprocamente sin dall’inizio, ma questo faceva parte del ‘non detto’ davanti ai francesi.”
In questi mesi, Fatima-Zohra inizia a scrivere il suo primo romanzo La soif, una storia d’amore. Tema dirompente, poiché è proprio l’amore a rappresentare il non-detto, forse l’interdetto tra donne e uomini nel suo Paese, il non-detto tra le stesse donne, che nelle loro conversazioni evitano “l’io della prima persona e il vissuto personale non viene detto che nell’ombra”, il non-detto di una cultura priva da lungo tempo di una tradizione letteraria che parli di ‘educazione sentimentale’. Nel Gennaio del 1957 il libro viene pubblicato dalla casa editrice Julliard e Fatima-Zohra decide di avvalersi di uno pseudonimo. “Ero minorenne e temevo il giudizio di mio padre, non sapevo come avrebbe reagito, scoprendo che avevo scritto un romanzo d’amore. Per questo motivo decisi di avvalermi del mio fidanzato di allora, che aveva un’ottima cultura araba classica. Mi elencò i novantanove appellativi di Dio. Quando pronunciò Djebar lo fermai. Mi piacque molto. In arabo classico significa ‘l’intransigente’. Assia invece me lo scelsi da sola. Ha un significato molto bello: ‘colei che consola’.”
Tra il 1958 e il 1962 Assia scrive altri romanzi ( Les Impatientes, Les enfantes du nuveau monde). Intanto nel 1958 si sposa e raggiunge clandestinamente Tunisi insieme al marito. Qui prepara la laurea in storia, collabora a El Moudjahid, organo del Fronte di Liberazione Nazionale, diretto da Franz Fanon e conduce inchieste presso i rifugiati algerini. Si trasferisce successivamente in Marocco, dove diventa assistente di storia all’Università di Rabat.
Il 10 Luglio viene proclamata l’indipendenza algerina. In Ottobre Assia è insegnante di Storia Moderna e Contemporanea dell’Africa del Nord alla Facoltà di Lettere di Algeri. Ma, a pochi mesi dall’indipendenza, le vicende di discordie e personalismi al vertice del potere, gli oscuri episodi di uccisione di giovani e donne solo perché francofoni, le fanno crescere dentro un “piombo interiore”. Nel 1965 si trasferisce parzialmente a Parigi, dove nel 1967 pubblica il romanzo Les aluettes naives a cui seguono anni di silenzio. “E’ il primo romanzo in cui compare una piccola parte autobiografica. Fu questo che mi decise a non pubblicare più. Non volevo mettermi in gioco. Fu allora che sentii che per una donna scrivere significa inevitabilmente scrivere su di sé. E mi tirai indietro.”
Assia è di nuovo ad Algeri nel 1974, dove riprende l’insegnamento universitario. Decide di divorziare. Nel 1977 si reca nei villaggi da dove proviene la tribù della madre per girare un lungometraggio sulla memoria che le donne conservano del loro vissuto quotidiano durante la guerra d’Algeria. “La memoria che torna come una ferita e dà lacrime alla voce, ecco che cosa bisogna conservare e mettere in scena attraverso l’immagine. Perché continui a vivere.” La nouba des femmes du Mont Chenoua, realizzato per la televisione algerina, divide il pubblico, sia per lo ‘sguardo’ femminista, sia per le scelte formali innovative. Nel 1979 La nouba ottiene il Premio della critica internazionale alla Biennale del Cinema di Venezia.
Nel 1980 Assia, che si è di nuovo sposata, ritorna a Parigi. “Me ne sono andata perché le strade erano troppo piene di uomini e io, per scrivere, ho bisogno della strada. Non posso scrivere se sono rinchiusa.” La necessità di uno spazio aperto, in cui far vivere il proprio corpo è per Assia un tutt’uno con l’apertura di uno spazio per la scrittura. “Il desiderio delle parola da scrivere, da lanciare agli altri o semplicemente al cielo, nasce dai piedi, dalle gambe e dal mio sguardo libero posato sugli altri. Lì, senza dubbio, nella mia persona, vengono vendicate tutte coloro che mi hanno preceduta, le ave recluse a dodici anni, poi maritate, soffocate di languore, di rancore, nell’ombra del patio.”
Sono molti i segnali di inquietudine per chi vive l’Algeria di quegli anni: il rafforzamento di una concezione autoritaria e nazionalista all’interno del regime in cui l’esercito tende ad essere la vera sede del potere, il processo di arabizzazione, condotto dall’alto, schiacciando e negando il plurilinguismo, l’affacciarsi di istanze islamiste negli ambienti studenteschi universitari e nelle periferie povere delle città, il progressivo restringimento degli spazi delle donne, che culminerà nel Codice di famiglia del 1984. Da ora in poi, Assia ritornerà sempre meno di frequente in Algeria, a volte spinta dal desiderio di stare vicino alla figlia, che ha scelto di continuare gli studi ad Algeri.
La pubblicazione nel 1980 di Femmes d’Alger dans leurs appartaments, raccolta di racconti scritti negli anni del ‘silenzio’, inaugura una sorta di nuovo inizio. E’ la straordinaria esperienza che ha fatto con le donne di Mont Chehoua ad indicarle la strada per non ‘tirarsi più indietro’. “Ho capito che non bastava dire ‘io’, che bisognava trovare con precisione il ‘tu’ a cui rivolgersi, quel secondo personaggio femminile, che entrando in risonanza e in dialogo col primo permette a entrambi di esistere e di liberarsi.” Sono questi gli anni in cui emerge anche a livello politico tutta la ricchezza delle diverse “anime” (berbera, araba, musulamna, ebrea, megrebina, francese) dell’Algeria postcoloniale, che schiudono la possibilità per questo Paese di diventare una fucina privilegiata per molti aspetti, a partire innanzitutto dal plurilinguismo, per la costruzione di una società interculturale, consapevole della propria identità strutturata, composita, plurale, “meticcia” e aperta.
La produzione letteraria di Assia, da sempre frutto del proprio tempo, prosegue, allora, con il progetto di un ‘Quartetto algerino’. “La mia ambizione era di comprendere l’identità algerina, maschile e femminile, in rapporto alla molteplicità delle lingue, in rapporto alla violenza del passato coloniale. Pensavo ad una quadrilogia, me la figuravo benissimo come una casa dall’architettura musulmana antica.” In L’amour, la fantasie (1985), Ombre soultane (1987), Vaste est la prison (1995) si intrecciano così confessione autobiografica e ricerca appassionata di tracce nelle zone oscure della storia, si sovrappongono l’ascolto delle voci femminili “in una lingua priva di squame per non essere mai uscita alla luce del sole, silenzi del serraglio di ieri, parole del corpo velato” e la riflessione sulle lingue – il berbero delle campagne, l’arabo delle città, il francese del colonizzatore.
Tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta l’Algeria precipita sull’orlo dell’abisso: la furia integralista si abbatte sul Paese. Tra gli assassinati, intellettuali, giornalisti, uomini e donne protagonisti della vita culturale algerina. Tra di essi, alcuni amici fraterni di Assia, che parla di loro e con loro in Le blac de l’Algérie (1996). Ancora di morte e violenza su donne e uomini dell’Algeria di oggi narra in Oran, langue morte (1997), in cui si interroga su una possibile via di fuga da tutto questo. Dal 1997 è Professoressa e Direttrice del Center for French and Francophone Studies. In questo stesso anno pubblica il romanzo Le nuits de Stasbourg.
Nell’Ottobre del 2000, al Teatro India di Roma viene rappresentato in prima mondiale il dramma musicale Figlie di Ismaele nel vento e nella tempesta, in cui Assia dà voce alle donne arabe via via estromesse da Medina e condannate al silenzio, dando così una lettura del Corano alternativa a quella misogina degli integralisti islamici. Nella Prefazione al testo dice: “In quest’anno di Giubileo, esprimo un augurio: che queste rappresentazioni suscitino in molti spettatori ‘un desiderio d’Islàm’. L’islam quale è stato nella luce pura di un tempo e anche nelle sue troppe umane contraddizioni, ma soprattutto, nel suo palpito femminile.”
BIBLIOGRAFIA (nella traduzione italiana)
- Donne d’Algeri nei loro appartamenti, Giunti, Milano 1988.
- Lontano da Medina, Giunti, Milano 1993.
- L’amore, la guerra, Ibis, Como-Pavia 1995.
- R. Siebert, Andare ancora al cuore delle ferite. Intervista a A. Djebar, La Tartaruga, Milano 1997.
- Nel cuore della notte algerina, Giunti, Milano 1998.
- Bianco d’Algeria, Il Saggiatore, Milano 1998.
- Ombra sultana, Baldini e Castoldi, Milano 1999.
- Figlie d’Ismaele nel vento e nella tempesta, Giunti, Milano 2000.
- Le notti di Strasburgo, Il Saggiatore, Milano 2000.
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