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Dignità: femminile singolare

Dignità: femminile singolare

Il ruolo e l'immagine che spesso la nostra società dà delle donne segna una regressione rispetto a conquiste fino a poco tempo fa ritenute consolidate. Occorre riaffermare con forza la dignità ed il diritto all'autodeterminazione...

Venerdi, 09/04/2010 -
C’è stato un periodo, nel nostro Paese, in cui la dignità delle donne sembrava essere una conquista più o meno consolidata.

Non che ci fossimo davvero lasciate alle spalle ogni discriminazione: restava una diseguale distribuzione dei carichi di cura; restava una forte disparità nella rappresentanza politica; restava una intrinseca difficoltà di genere nella scalata ai ruoli di comando, tanto nella vita politica che in quella sociale e lavorativa.



Era il periodo in cui le donne meditavano sulla strada già percorsa dalle giovani delle generazioni che le avevano precedute, e su quanta altra fosse ancora da fare prima di arrivare all’effettiva parità.

Ché la parità non è solo questione di quote e di ruoli, ma è prima di tutto una forma mentis, per cui guardando il proprio interlocutore risulta naturale interrogarsi sulle competenze e l’abilità con cui svolge il proprio lavoro- sia esso quello di casalingo o di Presidente di una Spa- o sulle qualità che lo contraddistinguono come persona, e non su quale sia la metà del cielo a cui appartiene.



C’è stato un periodo in cui questo obiettivo non sembrava neanche così avulso dalla nostra quotidianità, poi però qualcosa è successo.

Non parliamo di molto tempo fa, magari qualche anno. Di certo non è ancora storia, ma sembra non essere più nemmeno attualità.



Perché ad un certo punto le vittorie delle donne hanno cominciato ad annebbiarsi ed i risultati ottenuti a sgretolarsi: conquiste del passato date ormai per assodate quando invece necessitavano ancora di essere difese? un adagiarsi sugli allori delle battaglie vinte mentre la guerra era ancora in corso?



In pochi anni abbiamo smarrito tante delle mete raggiunte, un po’ per inerzia, un po’ per colpa.

Abbiamo accettato che la nudità dei nostri corpi- simbolo gridato di riscatto- diventasse merce al pari di un qualsiasi prodotto commerciale; abbiamo scambiato la libertà sessuale- quintessenza della nostra autodeterminazione- per un facile mezzo di affermazione e successo; abbiamo consentito che si attestasse l’idea di potersi affermare con l’avvenenza piuttosto che facendo valere ragioni, intelligenze, capacità.



Oggi il corpo della donna è di nuovo merce di scambio: dono fra potenti, oggetto di autoincensamento per megalomani frustrati in cerca di conferme, prodotto televisivo per fare share.

O, al contrario ma non meno gravemente, incubatoio per figli di fervori ideologici, luogo di battaglie religiose che lo velano, lo celano, lo rivendicano.



Corpi e pezzi di corpi su cui rivendicare proprietà tutte maschili: seni, natiche e cosce perfetti e desiderabili, uteri che non possono neppure decidere se e quanti embrioni ospitare, grembi riprovevoli se decidono di non potere o non volere ospitare altre vite.

Comunque non persone, ma corpi su cui qualcuno- in genere uomo, in genere tanto arrogante quanto ignorante- rivendica possesso, esercita violenza, semina ideologie.



Oggi il problema vero diventa quello di riaffermare senza reticenze la nostra dignità di donne e la nostra individualità di persone.

Non accettando di pagare a più caro prezzo la crisi economica rinunciando ai nostri lavori e alla nostra indipendenza; non piegando la testa per tenere insieme ad ogni costo tutti quelli che ci stanno intorno; non consentendo che restino impuniti violenze ed abusi; non tollerando che su di noi si giochino di nuovo battaglie di potere; non ammettendo che qualcuno possa usarci a prescindere dalla nostra volontà.



Perché una collettività che rinuncia alle proprie donne non può che essere orba nella propria prospettiva. Perché una comunità che relega le proprie donne a ruoli marginali e subordinati rinuncia ad un apporto inestimabile di idee, di valori, di intelligenze.

Non progredisce, non avanza, non migliora.



Per questo c’è bisogno di una forte scossa, di alzare la voce, di rivendicare ciò a cui possiamo ambire per capacità e per intelligenza, di rimboccarsi le maniche e tornare protagoniste.



Lo dobbiamo a noi stesse e alle nostre figlie.

E probabilmente lo dobbiamo anche ai nostri uomini e all’intera società.



 

Natascia Rossi

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