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Dispetti? No, maltrattamenti. Italia di nuovo condannata dalla Corte Europea dei diritti umani.

Dispetti? No, maltrattamenti. Italia di nuovo condannata dalla Corte Europea dei diritti umani.

Riflessioni sulla sentenza CEDU Scuderoni contro Italia, alla vigilia del 25 novembre: la Corte europea ha (di nuovo) condannato l’Italia per non aver agito adeguatamente in un caso di violenza commessa contro una donna dal suo ex compagno.

Domenica, 09/11/2025 - Si avvicina il 25 novembre, la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: sicuramente un ricco calendario di iniziative verrà attivato da istituzioni di ogni livello per testimoniare quanto l’Italia condanna la violenza in ogni sua forma, eppure, ancora una volta, è proprio l’Italia ad essere condannata dalla Corte europea dei diritti umani per aver violato gli obblighi che la Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali impone al nostro Paese in materia di violenza di genere e in particolare di violenza domestica (Sentenza Scuderoni c. Italia - ricorso n. 6045/24 - pubblicata il 23 settembre 2025). Non è la prima volta che l’Italia viene condannata dalla Corte europea su questo tema, abbiamo al nostro attivo un bel curriculum di nefandezze, che includono il non aver protetto donne che infine sono state uccise dagli uomini che avevano denunciato, figli che sono stati uccisi dall’uomo denunciato dalle ex compagne, donne che miracolosamente sono ancora vive ma non certo grazie agli strumenti di protezione e punizione adottati dallo Stato, ed infine l’Italia è stata anche condannata per aver utilizzato un linguaggio inappropriato in sentenze di assoluzione di uomini stupratori.

Stavolta la donna coraggiosa che ha portato la sua dolorosa storia fino alla Corte europea si chiama Valentina Scuderoni. Ha quarantatré anni, è un’avvocata, madre di un bimbo, ed ex compagna di un uomo violento. Un uomo che Valentina lascia nel 2017, e denuncia per maltrattamenti, atti persecutori e minacce nel 2018. La sentenza della Corte europea ricostruisce nei dettagli tutto l’inutile, drammatico, ulteriormente vittimizzante iter giudiziario italiano che dura fino al 2023 e che infine giunge ad un’assoluzione dell’uomo: il reato fu iscritto nel registro delle notizie di reato due mesi dopo la denuncia, la prima udienza fu fissata nove mesi dopo la denuncia, il processo iniziò due anni dopo, processo che durò quattro anni davanti a quattro giudici diversi; nonostante i referti medici presentati nessuna misura cautelare venne adottata per proteggere Valentina e suo figlio, fu confermato l’affidamento condiviso del bambino, fu disposta una perizia per valutare la capacità genitoriale di entrambi, non fu fatta nessuna valutazione del rischio sulla base dei protocolli internazionalmente riconosciuti, finché nel 2023 l’uomo fu assolto, e la procura si rifiutò di proporre appello contro la sentenza.
Valentina ha vissuto tutti questi anni in un costante stato di ansia, perdendo chili e avendo difficoltà a dormire. «Fai schifo, sei una poraccia», «Sei un’handicappata che sa fare solo l'avvocato», «Mi chiedi il mantenimento coi soldi che guadagni», «Sei pazza», «Sei zozza», «Sei una cattiva madre, troppo concentrata sulla carriera» sono solo alcune delle violente frasi che si è sentita rivolgere dal suo ex compagno. Uomo che, tra le altre cose, minacciava di gettare tutte le cose di lei per strada e le impediva di dormire attraverso l’esposizione a fonti luminose e al rumore incessante per tutta la notte, per impedirle di riposare prima di impegni professionali importanti. Notate quanto la professione di lei, evidentemente di successo, fosse percepita come un problema da lui, una minaccia alla sua virilità. In un’occasione la afferrò violentemente per i capelli e glieli strappò ferendola alla cervicale e alle spalle, lesione refertata con dodici giorni di prognosi. E a chi continua a dire che un uomo violento può comunque essere un buon padre: gli insegnanti segnalarono a Valentina che il bambino aveva cambiato completamente comportamento, e che era giunto a tirare i capelli a una sua compagna di classe. Davvero non vedete il nesso?

La Corte ha condannato l’Italia per come l’autorità giudiziaria italiana ha gestito tutto il procedimento, dalla prima segnalazione in poi. La Corte europea evidenzia nella sua sentenza che l’autorità giudiziaria italiana ha qualificato come «dispetti» i comportamenti dell’uomo, motivati dal «risentimento» per la fine della relazione e dalle «tensioni» legate all’affidamento del figlio e alla convivenza nella casa familiare; il tribunale ha ritenuto che i comportamenti dell’uomo, sebbene protratti per almeno nove mesi, non fossero abituali e che quindi non potessero configurare il reato di maltrattamenti. «Conflitto», questa è la definizione che piace ai tribunali italiani: conflitto al posto di violenza, lite al posto di violenza.

La Corte europea inoltre dichiara di condividere le preoccupazioni espresse nel rapporto di valutazione sull’Italia redatto dal Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (GREVIO) - organo specializzato indipendente incaricato di monitorare l’attuazione della Convenzione di Istanbul – che ha rivelato: la presenza di stereotipi persistenti nelle decisioni dei tribunali sui casi di violenza domestica e la loro tendenza a ridurre la violenza nelle relazioni intime a un conflitto, a considerare a priori entrambe le parti responsabili della violenza, ignorando lo squilibrio di potere generato dall’uso della violenza stessa; la tendenza a dar credito agli stereotipi ed ai luoghi comuni che vedono la relazione intima intrinsecamente basata sulla sottomissione/dominio, la possessività, secondo cui automaticamente una moglie che si avvia verso la separazione è una donna che vuole vendicarsi, che cerca di danneggiare e punire il partner; la tendenza ad assecondare lo stereotipo secondo il quale una vittima attendibile è fragile, passiva, e poco disposta a chiedere riparazione. Tutti problemi già denunciati – inutilmente, a quanto pare - in varie relazioni della Commissione parlamentare sul femminicidio nominata nella scorsa legislatura.

Ebbene la Corte europea ha – di nuovo – condannato lo Stato italiano per violazione degli articoli 3 («Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti») e 8 («Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare») della Convenzione, per non aver adempiuto gli obblighi positivi di protezione che tali norme impongono. Il Governo italiano si è difeso affermando che le autorità hanno «condotto indagini e procedimenti efficaci». Forse in alcuni casi è meglio tacere. L’aspetto più significativo è che la Corte – di nuovo – osserva che nel sistema legislativo italiano esistono «una varietà sufficiente di possibilità adeguate e proporzionate rispetto al livello di rischio esistente nel caso di specie» e che, nonostante esistano, le autorità non le hanno attuate. «Le autorità non hanno esaminato i fatti della presente causa sotto il profilo della violenza coniugale», e «non [hanno] dimostrato, nella loro reazione immediata alle accuse di violenza domestica formulate dalla ricorrente, la particolare diligenza richiesta», «non hanno condotto un'azione autonoma e proattiva, né hanno compiuto una valutazione completa dei rischi che tenesse debitamente conto del contesto particolare delle cause in materia di violenza domestica». Già, perché la violenza maschile contro le donne – specie quando accade nel contesto familiare, cioè nella maggioranza dei suoi casi – è un reato particolare rispetto a tutti gli altri, che richiede una preparazione particolare rispetto a tutti gli altri, e che va gestito in maniera particolare rispetto a tutti gli altri. Ma di questa particolarità la magistratura italiana non vuole convincersi. Nei corridoi dei tribunali si continua a sentire che i reati sono tutti uguali e che «il femminicidio non esiste, perché un omicidio vale l’altro». È proprio la Corte europea a dichiarare che «il procuratore non ha dimostrato, nell'esaminare le denunce della ricorrente, di aver preso coscienza del carattere e della dinamica specifici della violenza domestica, sebbene fossero presenti tutti gli indizi». Non si vedono le cose che non si è allenati a riconoscere. «Il tribunale ha sottovalutato la situazione, ritenendo che si trattasse di una situazione tipica di conflitto».
La condanna dell’Italia è – di nuovo – netta e non ammette scusanti, perché «la Corte ritiene che le autorità nazionali sapessero o avrebbero dovuto sapere che sussisteva un rischio reale e immediato di violenza ricorrente per l’interessata a causa delle violenze commesse da G.C., e che le stesse avessero l’obbligo di valutare il rischio che tali violenze si ripetessero, e di adottare delle misure adeguate e sufficienti per proteggere la ricorrente e suo figlio». Sapevano o avrebbero dovuto sapere. Se l’ignoranza della legge non scusa, non può essere scusata neanche l’ignoranza della Convenzione di Istanbul che definisce chiaramente le peculiarità della violenza di genere e che è legge del nostro Stato. Eppure quella legge sembra proprio sconosciuta nelle aule dei tribunali. «Il tribunale non ha dimostrato alcuna consapevolezza delle caratteristiche particolari che assumono le cause in materia di violenza domestica».
Peraltro in questo caso la condanna è ancora più grave, perché si estende al merito della sentenza di assoluzione: «la Corte ritiene che le conclusioni alle quali è giunto il tribunale siano discutibili» e «la Corte non è nemmeno convinta che tali conclusioni siano idonee a produrre un effetto dissuasivo in grado di arginare un fenomeno così grave come la violenza domestica».

Si avvicina il 25 novembre, la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il ricco calendario di iniziative per testimoniare quanto l’Italia condanna la violenza in ogni sua forma è in definizione, eppure, ancora una volta, è proprio l’Italia ad essere condannata dalla Corte europea dei diritti umani. Sarà arrivato il momento di farsi un esame di coscienza e prendere atto del fallimento di questo Stato nella tutela dei più elementari diritti civili? Oppure, come mi disse in una circostanza Lucia Annibali, non esiste in questo Paese la volontà di cambiare?

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