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Filosofia della condivisione II

Filosofia della condivisione II

Per molti studiosi, il futuro dell’umanità risiede nella condivisione, nel portare più giustizia e solidarietà nei nostri Paesi e sotto tutti i cieli, che sono uno stesso cielo.

Martedi, 29/05/2012 - «Come insegnanti, dobbiamo credere nel cambiamento, dobbiamo sapere che è possibile, altrimenti non insegneremmo. L’educazione è infatti un processo continuo di cambiamento. Ogni volta che «insegnate» qualcosa a qualcuno, viene assimilato e utilizzato, e ne emerge un essere umano nuovo. Ogni volta che impariamo qualcosa di nuovo, noi stessi diventiamo qualcosa di nuovo»



(Leo Buscaglia, Vivere, amare, capirsi, p.51)





I. Non per buonismo, ma per sete di giustizia, di solidarietà, di un nuovo modo di fare politica, di nuove relazioni dove la persona e non il profitto sia al centro. È questo che anima la riflessione di molti interpreti della filosofia della condivisione, esperti di settori diversi che hanno compreso che ci troviamo a un passo da una svolta storica fondamentale.

Presto saremo tutti quanti chiamati a un cambiamento di portata radicale che riguarderà il senso che diamo al posto che occupiamo nel mondo e al modo in cui ci relazioniamo agli altri e alle attività cui ci dedichiamo. Ognuno di noi sarà presto chiamato ad aiutare i propri simili a soddisfare i bisogni più elementari. Questo cambiamento avrà inizio a partire dall’emergere di un comune sentire: aiutandoci a vicenda, con attenzione e rispetto, possiamo risolvere facilmente molti problemi. L’armonia non può fiorire in un clima di sfiducia, di inganno, di arroganza e di velenosa competitività. Per quanto possa sembrare arduo e idealistico, non abbiamo alternative alla condivisione, al riconoscimento del valore degli uomini e dell’unità del genere umano: è questo l’unico modo per accedere a una felicità duratura e costruire un futuro di pace fra i singoli e le nazioni.

Se analizziamo la nostra lunga storia di odio e di rabbia, comprendiamo l’assoluta necessità di trovare una strada migliore. Potremo risolvere i nostri problemi se non ci limiteremo a pronunciare parole di pace, ma avremo una mente e un cuore pacifici e se saremo disposti a pensare e ad agire in termini di cooperazione. Sarà nostro dovere, per amore e per compassione nei confronti dell’umanità, fare sì che si realizzi armonia fra le nazioni, le ideologie, le culture, i gruppi etnici e i sistemi politici. Se riconosciamo effettivamente l’unità di tutto il genere umano, le nostre motivazioni per ricercare la pace attraverso la condivisione e la giustizia sociale si rafforzeranno. Il rispetto reciproco e l’attenzione per il benessere altrui rappresentano le migliori premesse per una pace mondiale duratura.

Per molti filosofi della condivisione, l’impegno a favorire un clima di amore tra gli uomini rappresenta la prima priorità. Questo amore non può essere concepito solo in termini di rinuncia all’aggressione, in un clima di incomprensione dell’altro uomo. Lo studioso Andrea Braggio fa presente come esso debba essere cercato «per consentire aperture creative, progetti umani di opere; non solo uno stare insieme in pace, ma anche un fare insieme nella pace». Si tratta di capire l’altro, di vedere il più possibile (e fin dove è possibile) le sue ragioni, teoretiche o storiche; ma si tratta anche di valutare l’altro in ciò che è altro, perché per operare insieme si deve individuare ciò che si può riconoscere come realmente accomunabile. La tolleranza e il rispetto per gli altri sono doverosi; ma dal momento che non si può accettare che la tolleranza diventi indifferenza verso gli altri bisogna pur discutere, per arrivare in positivo ai momenti comuni che risultino realmente possibili. Questo impegno di discernimento, nel rispetto e nell’amore per la persona con cui si discute, è certo difficile da praticare. Non esistono però soluzioni più semplici, più facili. Lavorare per la riconciliazione significa passare sempre attraverso un impegno etico (un impegno di non conflittualità) e un impegno intellettuale, il quale implica sempre una disposizione di apertura, e che può essere di riconoscimento, ma che può passare, talora, anche attraverso un momento dialettico.





II. Presto saremo tutti quanti chiamati a scegliere fra ciò che è ormai vecchio e nuove modalità di vita in cui ci si dona di più ai fratelli, fra le attuali strutture economiche votate al profitto e incapaci di tendere all’unità e un nuovo sistema di vita che rimette al suo giusto posto la sfera economica e nel quale ognuno sarà chiamato a servire il prossimo in tutti i modi e nelle misure più generose. Ci stiamo sempre più rendendo conto del fatto che occorre un nuovo modo di pensare la nostra esistenza, che si svincoli dalla schiavitù dell’attuale logica di mercato caratterizzato dalla competizione, dall’egoismo, dall’individualismo e dalla ricerca spasmodica di profitti; un mercato che non ha alcuna considerazione della dignità dell’uomo.

I giovani stanno prendendo coscienza del fatto che il mondo soffre di una grave malattia chiamata neoliberalismo. Hanno intuito che l’unica possibilità per avere un futuro risiede nell’unire le forze abbracciando la condivisione e nuove forme di cooperazione che nulla hanno a che fare con le regole dell’attuale sistema economico di stampo neoliberale. I giovani sono più sensibili al grande cambiamento che sta per verificarsi; sono loro quelli in grado di porre altri ideali rispetto alla competitività, alla sopraffazione e allo sfruttamento, fattori oggi dominanti e tollerati con passiva assuefazione dagli adulti. Portatori del nuovo, i giovani di tutte le nazioni possono affermare con segni forti e credibili una cultura di non-violenza e di solidarietà, e favorire l’introduzione di un nuovo modo di pensare e agire, con la persona e non l’economia al centro.

In una situazione in cui alla crisi economica si unisce una non meno grave crisi etica e l’incapacità di sognare e costruire un nuovo mondo più giusto per tutti, i giovani rappresentano la voce del cambiamento. Essi hanno compreso che non è più possibile vivere in un sistema che ha al centro il profitto per il profitto; un sistema che premia la speculazione (a vantaggio di pochi) e penalizza il lavoro dell’uomo onesto.

I giovani si stanno inoltre rendendo conto del fatto che il problema ambientale sta rapidamente risalendo la graduatoria delle questioni non più dilazionabili. Entro pochi anni occorrerà cambiare modo di produrre e di consumare; anche i rapporti sociali e i meccanismi che oggi definiscono i nostri scambi con l’ambiente dovranno mutare radicalmente.

Se è vero che il problema ha dimensioni planetarie e richiede quindi interventi politici ed economici ad altissimo livello, è altrettanto vero che il disagio ambientale nasce e viene percepito anche nel luogo in cui si vive. Anzi, è proprio il territorio su cui conduciamo la nostra esistenza a offrircene direttamente i segni, attraverso il traffico caotico, l’inquinamento dell’atmosfera e delle acque o la degradazione dello stesso ambiente urbano.

Fra tutti i problemi che localmente interrogano la sensibilità ambientalista, sensibilità che sta crescendo tra la gente, quello legato alla raccolta e smaltimento dei rifiuti riveste particolare importanza. Innanzitutto esso è percepito come una questione sociale che in una certa misura ha già cambiato l’immagine e le abitudini della città. In secondo luogo, le persone più sensibili non fanno fatica a riconoscere, nell’atto del “gettare”, il proprio ruolo primario in un meccanismo di produzione – consumo – spreco che lo stesso buon senso popolare classifica come perverso.

Incoraggiato dalla tradizionale concezione antropocentrica dell’universo, l’atteggiamento predominante dell’uomo è stato quello dello sfruttamento incontrollato delle risorse naturali per il soddisfacimento dei bisogni sempre crescenti e dell’utile immediato. Oggi si rischia di pagare un conto molto salato per questo comportamento sconsiderato che ha prodotto guasti tali da profilare pericoli per la stessa sopravvivenza della specie.

La continua crescita demografica, lo sviluppo industriale, la pressante richiesta di energia aumentano permanentemente lo sollecitazioni sull’ambiente, sia attraverso il prelievo e la distruzione delle risorse naturali, sia con l’immissione dei residui, dei rifiuti, che vanno da quelli familiari a quelli industriali, fino ad arrivare alle scorie nucleari.

Gli innumerevoli e diversi attentati alla purezza e all’integrità dell’aria, dell’acqua e del suolo, i continui danneggiamenti del regno animale e vegetale rischiano di ledere pericolosamente, e per sempre, gli equilibri della natura stabilitisi attraverso millenni. E l’uomo sarà, o meglio, è già il primo a subirne le conseguenze. Alcuni interventi sull’ambiente, anche se a prima vista possono sembrare circoscritti ad alcune limitate zone geografiche, hanno ripercussioni a livello mondiale. La desertificazione del territorio e la distruzione delle foreste tropicali costituiscono due casi esemplificativi.

Se immaginiamo la Terra come madre generosa di tutti noi, fonte della vita e vera casa dell’umanità, non possiamo continuare a ignorarne le drammatiche trasformazioni in corso, né fingere di non sapere quali ne siano le cause più profonde. «C’è una sola Terra» ammoniscono da tempo le associazioni ambientaliste e, maltrattandola come stiamo facendo, rischieremo molto presto di avere due lune, perché la strada per ridurre questo verde pianeta a un arido deserto biologico è gia stata intrapresa da molti anni. È giunto dunque il momento di togliere le bende dagli occhi, di guardare al destino del globo con maggiore umiltà e sollecitudine, e di comprendere che in fondo l’avvenire del nostro pianeta è racchiuso in noi stessi, nel nostro corpo, nel nostro cervello e nel nostro cuore. Abbiamo già mostrato di essere perfettamente capaci di devastare in breve volgere di tempo la nostra casa: perché non esercitarsi ora nello sforzo concreto di salvarla? E chi potrebbe accingersi a un impegno tanto coraggioso e innovativo, se non le giovani generazioni, sul cui futuro incombono tutti gli interrogativi legati alla nostra passata disattenzione verso gli ecosistemi che ci tengono in vita?

Certo, i filosofi della condivisione concordano nel ritenere che è sui giovani che dovremo contare per un sostanziale cambiamento nel rapporto fra l’uomo e la natura, per secoli cieco e sopraffattore. Mentre i cittadini del domani prendono però coscienza della gravità del problema, la situazione pare deteriorarsi in modo preoccupante, e l’intera vicenda assume i connotati di una vera e propria affannosa «corsa contro il tempo». Tra le molte cose da fare, allora, Jeremy Rifkin, noto anche per il suo grande impegno come attivista, ricorda che la priorità sulla quale tutti sembrano concordare è proprio l’educazione all’ambiente. Compito nobile e fondamentale, ma troppo trascurato finora, che non consiste soltanto nel formare nei giovani una nuova coscienza attendendone i lontani frutti dell’età adulta, ma nel mobilitarli subito in un pacifico, motivato e vasto «esercito verde», capace di imprimere decisivi miglioramenti all’ambiente circostante, alle tendenze culturali, agli stessi comportamenti degli adulti.





III. Sebbene vi siano segnali di grave tensione tra i paesi più ricchi e quelli più poveri, e tra i ceti più ricchi e quelli più poveri di uno stesso paese, tali spaccature economiche potranno essere ricomposte grazie a un volenteroso rafforzamento del senso di interdipendenza e di responsabilità globale.

L’approccio culturale ai bisogni dei paesi più in difficoltà consisterà in primo luogo nel mettere più favorevolmente in atto un dialogo fraterno con tutti gli uomini e con tutte le culture che si incontrano, affinché da un confronto senza pregiudizi possa essere individuata la strada migliore che porti a una crescita umana integrale e a uno sviluppo non effimero.

In secondo luogo, consisterà nell’abbandonare definitivamente una immagine economicista e tecnocratica di sviluppo e puntare decisamente al soddisfacimento dei «bisogni umani fondamentali», non come scelta meramente assistenzialistica o paternalistica dettata dalla necessità, ma come scelta strategica per uno sviluppo che mira a una società basata sui valori umani più autentici, dove conti più l’essere che l’avere. A questo si accompagnerà un cambiamento delle abitudini di vita nelle nazioni più ricche, che non possono continuare ad avere come fine supremo il consumo sfrenato di beni materiali.

In terzo luogo, l’approccio culturale ai bisogni dei paesi più in difficoltà consisterà nel contribuire a costruire dei luoghi di confronto, di dibattito, di elaborazione culturale e di giudizio che siano di vero aiuto per tutti coloro che, animati da un’autentica passione per l’uomo, cercano con sincerità le vie più giuste da percorrere: il movimento La Via Campesina è certamente uno di questi luoghi utili e svolge una azione molto importante di stimolo e di mobilitazione delle coscienze.

È questo, infatti, un momento molto delicato in cui si stanno gettando le basi della futura cooperazione. È questa l’ora in cui chi ha idee, delle proposte, dei contenuti validi, deve giocarli fino in fondo, in un confronto sereno, affinché alla fine qualcosa di nuovo e di utile possa essere costruito assieme.

Queste idee e proposte nuove iniziano a farsi strada nei settori più diversi delle attività umane, a partire da quello agroalimentare che, come ci ricorda il filosofo ed economista Raj Patel, riguarda la vita di ogni persona su questa terra e non solo quei piccoli agricoltori che cercano di opporsi alle logiche della grande industria del cibo (le multinazionali) e di proporre prodotti genuini coltivati nel rispetto dell’ambiente.

I filosofi della condivisione ci ricordano che il problema del cibo riguarda tutti, proprio come il problema della terra, che è sempre più concentrata nelle mani di pochi proprietari. Ecco perché è così importante la sovranità alimentare, cioè il diritto dei popoli, dei paesi e delle unioni di stati di decidere la propria politica agricola e alimentare, il diritto di agricoltori e contadini di produrre cibo e il diritto dei consumatori di decidere che cosa consumano e come e da chi è prodotto (Patel, 2008). Lontana dall’essere un invito a tornare a un passato bucolico, ingabbiato nella tradizione, la sovranità alimentare è invece l’impegno a far finalmente sparire gli abusi inflitti dai potenti agli impotenti, in qualsiasi punto del sistema agroalimentare. Lavorare a favore della sovranità alimentare significa sostenere i diritti delle donne e l’ammissione che il sistema alimentare dipende per la gran parte dal loro lavoro, dallo sviluppo delle sementi, al raccolto, alla cottura, fino alla messa in tavola. Il movimento La Via Campesina ha proprio avuto, in questo senso, l’obiettivo di rimettere la donna al centro, dato che nel Sud globale è lei a ricoprire un ruolo chiave nella produzione agricola e nel cibo (1).

Come possiamo lavorare a favore della sovranità alimentare liberandoci dal controllo delle multinazionali?

Nonostante il porre fine alla crisi alimentare richieda un’organizzazione politica, economica e sociale che agisca per il cambiamento trasformativo, e la sovranità alimentare, la giustizia alimentare e il diritto al cibo dipendano dalla costruzione di un movimento alimentare unificato e abbastanza potente da poter sfidare il regime alimentare delle corporations, ogni singolo individuo può dal canto suo iniziare ad adottare quattro piccole regole.

Come prima cosa, Raj Patel suggerisce di trasformare i nostri gusti, imparando a mangiare con le stagioni. Il concetto che cambiare il gusto significa cambiare quel che mangiamo e pensare a dove e quando è stato prodotto è un elemento fondamentale della sovranità alimentare. Questo introduce alla seconda cosa che possiamo fare: mangiare locale e stagionale, scegliendo i prodotti a noi più vicini, che hanno viaggiato di meno e, quindi, inquinato di meno. «Il cibo che non deve essere coltivato o allevato o trattato in vista di un lungo viaggio ha un sapore migliore, costa di meno e ha una minore impronta ecologica», ci ricorda questo studioso della condivisione. Il cambiamento del palato richiede novità sia in quanto si mangia e nella sua provenienza, sia nel modo di produzione. Ecco che la terza cosa che possiamo fare è mangiare agroecologico, che non significa solo scegliere verdura e frutta coltivate senza l’uso di pesticidi, ma abbracciare «una filosofia agricola che si intona alla natura, sviluppa e mantiene la fertilità del suolo, produce un’ampia gamma di colture e armonizza il lavoro agricolo con le necessità, il clima, la geografia, la biodiversità e le aspirazioni di un dato luogo e di una data comunità di persone». Questo terzo aspetto valorizza il lavoro e la persona che si dedica alla coltivazione dei prodotti e privilegia l’esperienza locale. La quarta cosa che possiamo fare è sostenere le imprese locali, un’alternativa sempre più diffusa ai supermercati, ricordando che non sempre i prodotti più pubblicizzati sono i migliori; spesso le grandi aziende investono più denaro in pubblicità che in qualità.



Filosofia della condivisione; sovranità alimentare; giovani; filosofo; Raj Patel; Andrea Braggio



Note



(1) In Italia, per esempio, anche se siamo ancora agli inizi, si stanno avviando nuove iniziative per diffondere tutte le tematiche inerenti al cibo nelle scuole, comunicandole alle prossime generazioni. Dobbiamo riconoscere che le scuole possono rappresentare infatti una risorsa alimentare per le comunità: un’area di sperimentazione per l’orticoltura e un modello per l’utilizzo di terreni produttivi e diversi (rimando al programma per le scuole “Orto in condotta” di Slowfood in www.slowfood.it).

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