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Francesca Morvillo

Francesca Morvillo

Magistrata, sorella, figlia, amica, ed anche - ma non solo - moglie di Giovanni Falcone

Domenica, 22/05/2022 - Di lei viene spesso citato solo il nome ogni 23 maggio, nel giorno in cui si rinnovano il cordoglio e il ricordo per una strage la cui immagine ancora è negli occhi di molti e molte italiane: la moglie di Giovanni Falcone. Ma Francesca Morvillo era molto più di questo.

Magistrata. Vincitrice del concorso in magistratura nel 1968, lo stesso anno in cui suo padre, magistrato, muore. Con un diploma magistrale e un’appassionata esperienza come maestra già alle spalle, laureata in tre anni, indossa la toga di suo padre nel suo primo incarico ad Agrigento nel 1971, dopo soli 8 anni dall’apertura del concorso in magistratura alle donne. Già, perché oggi le ragazze che si iscrivono a giurisprudenza non sanno che sessant’anni fa non avrebbero avuto quella possibilità di carriera; oggi la diamo per scontata, come tanti altri diritti, ma ce lo dobbiamo ricordare che quel diritto non è scontato, che quel diritto è stato a lungo negato alle donne nonostante la Costituzione italiana avesse già riconosciuto l’uguaglianza davanti alla legge senza distinzione di sesso; quel diritto è stato a lungo negato alle donne perché non ritenute in grado di decidere lucidamente in alcuni giorni del mese.
Oggi, a distanza di quasi sessant’anni, le donne sono numericamente più degli uomini in magistratura grazie alla propria migliore preparazione, ma la maggioranza delle posizioni apicali restano maschili.
Quando Francesca ottiene il suo primo incarico ad Agrigento sua madre, pur fiera, si preoccupa del viaggio quotidiano: “Una donna in treno, da sola”. “Assurdo”, risponde lei, assurdo diremmo noi oggi. Ma è bene ricordare che non era il medioevo.
Tribunale per i minorenni. Qui Francesca svolge gran parte della sua carriera, tra i giovani, cercando di mettere il proprio impegno e il proprio lavoro a servizio di quel cambiamento culturale che impedisca ai ragazzi di ritrovarsi davanti a lei. Quel cambiamento che qualcun altro definirà “fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale”. Francesca sostiene, nei numerosi convegni a cui partecipa, la necessità di attivare «politiche che contrastino la devianza minorile, intervenendo sulle condizioni sociali, economiche e culturali». Prevenire, cioè, è la chiave. Non punire. Da brava maestra sa che è necessario agire prima, non dopo, sa che la strada è quella dell’educazione. Educazione civica. «Dovremmo fare di più. Combatterla davvero questa malavita che succhia la vita ai ragazzi». Non chiama “delinquenti” i ragazzi che vengono portati nella sua aula, bensì “minori che delinquono”, a voler significare che quella condizione non è connaturata a loro e soprattutto non è incorreggibile. Quanto sono importanti le parole… «Non si nasce cattivi, ladri, mafiosi, assassini. Abbiamo tutti il dovere di credere nella rieducazione, in modelli operativi integrati, per una rapida uscita dal circuito penale e un tempestivo reinserimento sociale.» Ha fiducia nel futuro, Francesca, nella possibilità di miglioramento degli esseri umani e della società. Non immagina che proprio per quella fiducia in un futuro migliore che condivideva con suo marito sarà la prima, e finora unica, donna della magistratura ad essere uccisa dalla criminalità organizzata.
Commissaria del concorso in magistratura del 1992. Questo è l’ultimo incarico che svolge Francesca nella sua vita, quasi a voler accompagnare e salutare quel futuro per il quale aveva lavorato nei vent’anni precedenti: i ragazzi e le ragazze che dopo di lei indosseranno la toga e giudicheranno in nome del popolo italiano saranno in grado di interpretare il loro lavoro con lo stesso senso di Stato e di comunità che aveva Francesca?
Capiranno che i fascicoli che hanno tra le mani ogni giorno non sono solo carta, ma vite?
Capiranno l’importanza di quel prima, di quella prevenzione che Francesca sosteneva a gran voce?
Saranno in grado di rinunciare ad interessi e privilegi personali cercando di costruire il bene comune?

Sorella. Di Alfredo, anche lui magistrato, protettivo nei suoi confronti e preoccupato quando lei gli comunica l’affetto profondo che ha scoperto di provare per un uomo diverso da suo marito. Un affetto sincero e altrettanto sinceramente ricambiato che l’accompagnerà fino all’ultimo chilometro della sua vita.

Figlia. Di una madre amorevole e fiera, a cui Francesca rimane sempre accanto, portandola anche a vivere vicino a lei. «Ma ci piace a tuo marito, cioè a Giovanni, che stiamo vicini?» «Lui l’ha proposto.» «Bravo è.» Figlia che cerca sempre di non far percepire a mamma Lina la propria paura, la propria ansia quotidiana, quel pericolo che incombe, distraendola con serene passeggiate in città dai tumulti che abitano il suo cuore. Una città che però appare sempre più come un cimitero.

«Eliminano chi sa come colpirli.» Boris Giuliano, Cesare Terranuova, Gaetano Costa, Piersanti Mattarella – il presidente che voleva mettere “la Sicilia con le carte in regola”-, Emanuele Basile, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa. Francesca desiderava trascorrere del tempo con lui e la sua giovane moglie Emanuela Setti Carraro, confidava di diventarne amica, ma non ne ha il tempo. Dopo cento giorni dal suo insediamento, il Prefetto di Palermo viene colpito a morte nella sua auto; viene trovato proteso verso Emanuela alla guida, nell’ultimo e vano tentativo di salvarle la vita. Emanuela, donna speciale che viene anch’ella ricordata solo come la moglie del generale Dalla Chiesa: era un’infermiera della Croce rossa, conscia del pericolo che correva sposando l’uomo che amava, ma fiera di ciò che quell’uomo poteva e voleva fare per la Sicilia. Figlia anche lei, di una madre che vedrà in Francesca l’immagine della figlia che ha perso e a cui regalerà la spilla di Emanuela, che Francesca porterà con sé fino all’ultimo chilometro della sua vita. Emanuela, che condivide il nome con un’altra giovane donna che morirà uccisa dalla mafia qualche anno più tardi: Emanuela Loi, prima agente donna assegnata alle scorte e alla scorta di Paolo Borsellino.
«Qui è morta la speranza dei palermitani onesti», scrive qualcuno di fronte ai corpi abbracciati e crivellati di Carlo Alberto ed Emanuela.
Lo Stato deve difendersi. Non solo da nemici esterni.
«Non credo che lo Stato italiano abbia veramente l’intenzione di combattere la mafia» afferma il primo collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta. E infatti i cadaveri continuano a moltiplicarsi. Rocco Chinnici, Beppe Montana, Ninni Cassarà, Antonino Agostino e sua moglie Ida Castellucci, Libero Grassi, Antonino Scopelliti, Salvo Lima. Uccisi per aver creduto nel proprio lavoro, per aver creduto che la loro terra meritasse il loro impegno. Anche se non meritava il loro sacrificio. Uomini le cui compagne Francesca va ad abbracciare ad ogni funerale, condividendo il loro dolore, il loro senso di ingiustizia e allo stesso tempo di impotenza. «Il vostro dolore è il mio». Sorelle. Donne offese dalla violenza degli uomini, dalla sete di potere degli uomini, dalla sete di profitto degli uomini. «Io comincio a odiare questa terra piena di vedove che vagano senza pace. Spose invecchiate d’un colpo, nel lampo di un boato, senza quiete e senza tempo. I loro letti vuoti, i loro figli orfani.»

Moglie. Sì, moglie innamorata di un uomo con cui condivideva la passione per un lavoro che sembrava però la strada verso il patibolo. Un lavoro che rendeva impossibile fare quello che tutte le coppie innamorate fanno: andare al cinema, fare la spesa insieme, mangiare in un ristorante senza essere guardati a vista dalla scorta, camminare in strada senza essere costantemente sorvegliati e in ansia per ogni rumore, per ogni voce sussurrata, per ogni sguardo. Perfino annunciare di sposarsi non è possibile, bisogna farlo in segreto, all’improvviso, e comunicarlo anche a mamma Lina solo a cosa fatta. E non si può neanche mettere al mondo dei figli, perché si correrebbe il rischio di lasciarli orfani. «Siamo morti che camminano.» «Importante è che insieme alla paura ci sia il coraggio.»
È consapevole del pericolo, Francesca, e nonostante questo aiuta suo marito nell’istruzione del maxiprocesso. Un processo per il quale ben dodici giudici esperti nel penale rinunciano a presiedere la Corte d’assise. «Noi dobbiamo fare il nostro dovere.» «Ma questa città vuole combattere sul serio la mafia?» Per un attimo sembra di sì, sembra che lo Stato voglia davvero combattere la mafia, perché la sentenza del maxiprocesso, che si temeva potesse venire annullata, viene confermata, dichiarando che la mafia ha una struttura piramidale, come sostenevano i magistrati del pool antimafia. Ma la speranza dura un attimo. Subentrano altri interessi, evidentemente più forti. Il pool viene sciolto e il marito di Francesca viene escluso da una serie di incarichi per i quali la sua competenza non era seconda a nessun altro. Diventa evidente che non si possono più fidare di nessuno, perché nessuno vuole rinunciare a potere e privilegi, perché poche persone hanno quel senso dello Stato in nome del quale si continua a lavorare anche in una città che appare come un cimitero. «Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande.» «Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi.»

23 maggio 1992. Trent’anni fa. Francesca è a Roma come commissaria del concorso in magistratura. Molte ragazze e ragazzi la ricorderanno onorati di averla di incontrata, onorati di avere la sua firma sul tesserino di quel concorso. È ottimista Francesca, sembra che le cose si stiano finalmente mettendo a posto. Ha deciso di chiedere il trasferimento a Roma per seguire suo marito che sembra finalmente otterrà il ruolo di direttore della nuova Direzione nazionale antimafia. Forse Roma regalerà loro un nuovo futuro, più libero di quello vissuto in Sicilia. Forse Francesca ricorda il biglietto che scrisse a Giovanni la sera del fallito attentato all’Addaura: «Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me, così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore. Francesca.» È serena perché sta tornando a Palermo per due giornate di vacanza. Sembra passato così tanto tempo da quando era entrata per la prima volta nel palazzo di giustizia di Agrigento col suo cerchietto tra i capelli. In quel momento non avrebbe mai immaginato che la vita l’avrebbe portata fin lì. Fino a Capaci. Poi, in una calda giornata di primavera, la terra esplode.

«Come tutte le cose umane, anche la mafia ha avuto un inizio e avrà una fine.»
L’avrà?



*Fonti:
F. Cavallaro, Francesca. Storia di un amore in tempo di guerra, Solferino, 2022.
C. Brancato, Canto per Francesca, Melampo, 2017

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