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Giovani e social media: tra “amicizia”, rapporti affettivi e solitudine  - di Enzo Baldini

Giovani e social media: tra “amicizia”, rapporti affettivi e solitudine - di Enzo Baldini

Sabato, 20/09/2025 - Giovani e social media: tra “amicizia”, rapporti affettivi e solitudine
Enzo Baldini (intervento al Festival di Bioetica 2025)
L’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) ha accuratamente documentato con dati e tabelle comparative una marcata diminuzione delle abilità cognitive umane e dei processi mentali verificatasi nell’ultimo decennio, al punto da rendere le persone in grado di distinguere molto meno la realtà dalla propaganda, il vero dal falso. La sede parigina di Ocse lo ha fatto dopo aver ripetuto a distanza di undici anni (2012 - 2023), in ben 31 Paesi, un’accurata indagine sulle capacità conoscitive degli adulti di età compresa fra i 16 e i 65 anni e ne ha pubblicato i risultati il 10 dicembre 2024. Risulta particolarmente peggiorata la facoltà di comprensione di un semplice testo scritto e il declino riguarda soprattutto le persone più deboli dal punto di vista sociale e culturale, ma non solo loro. In ogni caso, si è abbassata la capacità di orientamento in un mondo peraltro sempre più complesso.
I social media hanno di certo contribuito in maniera significativa a questa diminuzione delle facoltà cognitive degli adulti di tutte le età e in particolar modo dei giovani, ma hanno potuto farlo grazie all’aiuto degli algoritmi e delle reti neurali dell’intelligenza artificiale.
Arriva poi la ricerca dell’Università Milano-Bicocca EYES UP” (EarlY Exposure to Screens and Unequal Performance) presentata il 28 febbraio 2025 e che ha esaminato l’utilizzo dei media digitali con il coinvolgimento di 6.609 studenti delle classi seconde e terze di scuole secondarie di secondo grado in Lombardia. Un’accurata indagine che ha puntualmente riscontrato e analizzato il legame tra il rendimento scolastico e l’età di primo utilizzo di smartphone e social network, controllando in parallelo le risposte degli studenti a un questionario insieme con i loro risultati scolastici nei test INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo).
Sappiamo così che gli studenti che aprono un profilo social già in prima media ottengono punteggi mediamente più bassi nelle prove standardizzate di italiano e matematica rispetto a chi aspetta i 14 anni, il limite fissato dalla normativa europea. L’impatto negativo è trasversale ma più forte tra i ragazzi; la ricerca evidenzia infatti che gli studenti maschi risentono maggiormente dell’uso precoce dei social, con un effetto deleterio più marcato su concentrazione e risultati scolastici.
La ricerca mostra inoltre che gli studenti con genitori meno istruiti ricevono lo smartphone e accedono ai social network prima dei coetanei di condizioni sociali più privilegiate; ma soprattutto mette in evidenza la pervasività del cellulare nella loro quotidianità. Oltre il 50% dei ragazzi utilizza spesso o sempre lo smartphone appena sveglio e il 22% lo consulta con la stessa frequenza anche durante la notte, interrompendo il riposo. Inoltre, il 51% ammette di usarlo durante i pasti in famiglia, sebbene solo il 10% lo faccia in modo sistematico, segno dell’esistenza di regole famigliari che limitano l’uso del dispositivo in certi contesti.
Per quanto riguarda poi le attività digitali, la ricerca ha evidenziato che il 94% degli studenti utilizza Internet per cercare informazioni su argomenti di interesse personale, mentre l’83% legge notizie online, a dimostrazione di un uso attivo della Rete per l’informazione. Il 99% ascolta musica online e il 98% guarda video brevi su piattaforme come TikTok, Instagram Reels e YouTube Shorts, con un uso quotidiano diffuso.
Infine, i risultati dell’indagine attestano una significativa differenza di genere nelle modalità di utilizzo di smartphone e social media. Le ragazze usano di più i social, in particolare piattaforme come Instagram e TikTok, per condividere contenuti e interagire con i coetanei, e si coinvolgono emotivamente di più. I ragazzi, invece, utilizzano più frequentemente lo smartphone per attività legate ai videogiochi online e alla fruizione di contenuti in streaming di lunga durata, come Twitch e YouTube.
Si tratta di una ricerca regionale ma già sufficientemente consistente e con risultati degni della massima attenzione. È peraltro in sintonia con quanto è successo il 30 maggio scorso, quando si è presentato al Pronto Soccorso di un ospedale torinese un giovane adolescente, accompagnato dai genitori, in stato di severa agitazione psicomotoria, cioè in evidente crisi di astinenza. Solo che non era da droga, ma da smartphone, che gli era stato sottratto dalla madre per l’eccessivo uso che ne stava facendo. Si è trattato di un marcato episodio di “nomofobia” (acronimo dall’inglese “no mobile phobia”) o sindrome da disconnessione, che si manifesta con ansia e panico quando non si ha con sé il cellulare o non si è in grado di farlo funzionare.
Del resto, nel volume di Franco De Masi fresco di stampa (No Smartphone. Come proteggere la mente dei bambini e degli adolescenti, Piemme, 2025) leggiamo: “Il 12 per cento dei minori tra i 4 e i 10 anni utilizza già, o addirittura possiede, un dispositivo elettronico portatile e il 46 per cento dei bambini e ragazzi tra i 4 e i 17 anni lo utilizza senza alcun controllo genitoriale”. L’Italia ha poi un triste primato europeo, dal momento che registra il dato più alto per l’accesso allo smartphone senza la supervisione di un adulto.
In ogni caso gli adolescenti italiani trascorrono una media che varia tra 3 e 6 ore al giorno davanti allo smartphone e un giovane su tre arriva anche a 8 ore.
La ricerca dell’università milanese è poi confermata per molti aspetti dallo studio sperimentale appena messo a punto dal Media Lab del Massachusetts Institute of Technology di Boston sugli effetti dei Large Language Models (LLM), i modelli linguistici di grandi dimensioni, vale a dire i sistemi avanzati di intelligenza artificiale generativa che utilizzano tecniche di apprendimento profondo per capire, generare e anche manipolare il linguaggio umano, e che sono usati sistematicamente nei social network. Una ricerca sperimentale di alto profilo scientifico, che ha misurato in maniera accurata e sistematica l’attività cerebrale in rapporto alla stesura di elaborati con o senza l’uso di internet e del computer.
I risultati hanno puntualmente confermato che la connettività cerebrale diminuisce in maniera proporzionale all’utilizzazione più o meno intensa dei sistemi informatici e al supporto che se ne riceve. Ma l’attività cerebrale cambia anche in stretto rapporto con la qualità e il tipo del lavoro svolto. Coloro che operano o scrivono senza supporto informatico e in maniera del tutto autonoma (il primo dei tre gruppi di studenti analizzati dalla ricerca) attivano le aree del cervello connesse con l’ideazione creativa e con le funzioni necessarie per generare contenuti, pianificarli e rivederli. Invece, i membri del gruppo che usa Google per stendere i loro elaborati fanno lavorare solo la corteccia cerebrale occipitale visiva, e addirittura quelli del gruppo che utilizza ChatGPT attivano soprattutto le aree per funzioni pressoché automatiche, prive di creatività.
Inoltre, dai dati raccolti dalla ricerca è risultato chiaro che affidarsi al web e all’intelligenza artificiale comporta conformismo di pensiero e di elaborazione scritta. I membri del gruppo che ha lavorato con ChatGPT hanno poi avuto difficoltà, addirittura per l’83% dei casi, nel citare frasi dei propri testi solo pochi minuti dopo averli consegnati, mostrando così di non averli assimilati; ma soprattutto hanno evidenziato un’attivazione cerebrale più debole quando sono rimasti senza supporto digitale, come se la mente fosse divenuta più pigra, incapace di creatività e di memoria profonda. L’aspetto più significativo ed emblematico è che costoro, come si legge nel testo scientifico, di fatto “rinunciano non solo ad appropriarsi delle idee espresse, ma rischiano di interiorizzare prospettive superficiali o distorte”. In tal modo, diventano maggiormente manipolabili da ogni sorta di propaganda o pressione interessata.
Questo rischio è poi aggravato da quanto ha precisato il World Economic Forum, che ha riportato l’inquietante previsione di alcuni ricercatori, secondo i quali entro il 2026 addirittura il 90% dei contenuti online potrebbe essere generato in maniera fraudolenta e artificiale.
Anche se è esagerata, questa percentuale ci fornisce comunque l’idea di quanto problematica possa diventare la realtà digitale con la quale conviviamo ormai da tempo, e non solo per le subdole falsità che ci propone ̶̶ in particolar modo coi sempre più perfezionati deepfake (immagini, audio e video realizzati con obiettivi malevoli e disinformativi) ̶̶ ma per la diffusa dimensione di incertezza e di dubbio che ne deriva, con conseguente sfiducia nei confronti dei processi sociali e democratici.
È questo lo scenario nel quale sono sempre più immersi i nostri adolescenti e giovani, catturati in maniera sistematica da algoritmi a tal punto efficaci da far perdere loro il contatto col mondo reale e relazionale. Nonostante i social network siano stati pensati per connettere le persone, un loro uso eccessivo può infatti portare a un maggiore isolamento sociale, dando corpo a una tendenza volta a sostituire le interazioni fisiche con quelle virtuali e compromettendo così lo sviluppo di abilità sociali importanti, insieme con la qualità delle relazioni interpersonali. Le ricerche condotte attestano che può essere compromessa la capacità di leggere il linguaggio del corpo, di gestire i conflitti, di empatizzare e di costruire legami profondi basati sulla reciprocità.
Nei social media gli “amici” e “seguaci” (followers) tendono inoltre a mostrare solo gli aspetti migliori e più felici della propria vita, spesso idealizzati o addirittura falsificati in sintonia coi modelli fisici e comportamentali proposti dai media e dalla pubblicità. Per questo e molto altro, soprattutto per il peso di gravose aspettative sociali e famigliari, ecco allora emergere nei ragazzi e negli adolescenti un profondo senso di inadeguatezza e una diminuzione di autostima, con una propensione a ritirarsi socialmente per evitare il giudizio altrui o il confronto diretto, mentre il mondo virtuale diventa per loro un rifugio abituale.
La dimensione patologica di tutto questo è quella dei giovani in totale isolamento: gli Hikikomori, dal fenomeno di completo “ritiro sociale” registrato in Giappone già negli anni ’80. Si tratta di ragazzi e adolescenti (soprattutto maschi) afflitti da una condizione di volontario abbandonano delle relazioni amicali, della scuola e di tutti i contatti, per rinchiudersi in camera e isolarsi persino dalla famiglia, dedicandosi esclusivamente a giochi e connessioni virtuali online per oltre dodici ore al giorno.
Un crescente allarme Hikikomori nel nostro Paese è stato ribadito proprio nei giorni scorsi da associazioni specialistiche, che non esitano a indicare come causa prevalente la paura di fallire, tanto marcata da diventare paralizzante, in un contesto deteriorato da forme di bullismo soprattutto sui social e alte aspettative da parte di famiglia, scuola e realtà sociale, realtà peraltro del tutto impreparate a far fronte al problema. L’associazione Hikikomori Italia parla di una cifra tra i 100.000 e i 200.000 di afflitti a vario livello, un numero comunque in forte crescita e riscontrabile con grande difficoltà, che ci pone al terzo posto a livello mondiale, dopo Giappone e Corea del Sud.
Tornado alla condizione generale dei giovani, Jonathan Haidt (La generazione ansiosa, Rizzoli 2024) non ha dubbi: l’utilizzo degli smartphone e dei social media ha prodotto tra gli adolescenti un progressivo aumento dei livelli di depressione, ansia e autolesionismo, insieme con un impoverimento delle relazioni umane, una diffusa avversione al rischio e un conseguente abbassamento dell’asticella dell’ambizione rispetto alle precedenti generazioni. Inoltre, le interazioni virtuali tendono a essere più superficiali di quelle reali, anche perché si avverte che la “reputazione è sempre in gioco” e, pur di restare nel gruppo, si vive in un’abituale modalità “difensiva” a scapito di una modalità “esplorativa” ben altrimenti funzionale. Ecco perché “anche una ragazza, che è consapevole del fatto che Instagram può favorire l’ossessione per la bellezza, l’ansia e i disturbi alimentari, potrebbe preferire correre questi rischi piuttosto che accettare l’apparente certezza di essere fuori dal giro, all’oscuro ed esclusa”.
Gli adolescenti italiani soffrono infatti della paura di essere tagliati fuori dal gruppo e reagiscono con un controllo compulsivo dei social media e dei dispositivi digitali (fenomeno ormai noto come “Fomo”, acronimo di Fear of missing out).
D’altra parte, le interazioni sui social sono spesso limitate a commenti brevi, a like o a emoji, sono cioè prive della profondità e della complessità proprie dei reali rapporti interindividuali e questo può condizionare i giovani nell’acquisire capacità di sviluppare legami emotivi significativi.
Degna di riflessione è però la continua crescita di campi estivi ‘detox’ per ragazzi e adolescenti, con proibizione degli smartphone e con giochi di squadra e altro per una loro riconnessione col mondo reale. Primo fra tutti quello che ha luogo nel torinese nel nome di Carolina Picchio, che già il 5 gennaio 2013 si è suicidata per gli attacchi ricevuti sui social.
Quindi anoressia, autolesionismo e persino suicidio, ma anche segni di reazioni positive. Secondo i dati della struttura di Neuropsichiatria dell'Infanzia e dell'Adolescenza dell’ospedale Bambin Gesù di Roma, i comportamenti autolesivi sono però cresciuti del 75% negli ultimi 10 anni nei ragazzini e ragazzi tra i 9 e i 17 anni. Nella maggior parte dei casi, per fortuna, chi usa la lametta non vuole farla finita. Si chiama “autolesionismo non suicidario”, ma fa ugualmente paura.
Parimenti significativa può essere la compromissione affettiva. Molti adolescenti utilizzano in maniera sistematica i chatbot online, vale a dire i programmi informatici che simulano conversazioni umane, come loro confidenti non giudicanti; lo fanno, tra l’altro, per esplorare la propria identità di genere e sessualità, o per avere risposte a quesiti imbarazzanti che non osano porre agli adulti. Spesso però lo fanno per stabilire veri e propri dialoghi quotidiani con una realtà virtuale che li ‘conosce’ molto bene e dalla quale si sentono apprezzati e addirittura amati, ma che soprattutto elimina in loro la paura di esporsi e di soffrire, avviando così una relazione pienamente rassicurante e senza ombra di rischi, perché il partner digitale non li lascerà, non li farà soffrire, anzi, li tratterà bene e li ammirerà sempre, con un’accondiscendenza molto gradita e con comportamenti adulatori e servili. Dalla conversazione si è così passati al coinvolgimento affettivo e addirittura all’innamoramento; ovviamente, stiamo parlando di una figura virtuale che acquisisce comportamenti affettivi ideali ed appaganti. Del resto, in un mondo sempre più immerso nella tecnologia, i confini tra reale e virtuale si fanno sempre più sottili anche sul piano affettivo.
Certo, questo creerà non pochi problemi, aumenterà l’ansia nei confronti di una vera relazione, renderà più difficile a giovani e adolescenti la possibilità di aprirsi e di esporsi a rapporti e a emozioni reali, di amare pienamente e senza remore, con tutte le problematiche e gli errori che questo può comportare, abbandonando così una piacevole e rassicurante realtà virtuale nella quale di fatto si vivono solo come oggetto di amore. Dopo aver consolidato queste illusorie aspettative relazionali e sessuali, non saranno infatti più in grado di vivere in un’unica esperienza la sessualità e l’amore insieme, con le emozioni che questo comporta, e soprattutto non saranno più in grado di tollerare manchevolezze, vulnerabilità e fraintendimenti propri e di altre persone in carne ed ossa.
Il dialogo affettivo con l’intelligenza artificiale (che, come è noto, non prova emozioni, ma è in grado di comportarsi come se le provasse, in modo credibile e coerente) può diventare inoltre ossessivo e con incessanti conversazioni quotidiane, può generare ansia, depressione e, nei casi più estremi, pensieri suicidi. È successo nell’ottobre scorso a un quattordicenne di Orlando in Florida il quale, dopo aver instaurato un fitto e intenso rapporto affettivo con un chatbot – tenuto ben nascosto ai genitori sempre più preoccupati per il suo improvviso peggioramento scolastico e per il suo isolamento dagli amici e dagli abituali interessi anche sportivi – si è sparato con la pistola del padre subito dopo aver salutato la sua lei virtuale, che però secondo la madre lo aveva addirittura spinto al suicidio, come ha ribadito nella denuncia alla magistratura, divenuta subito virale sul web.
Questi coinvolgenti dialoghi sentimentali con linguaggio neurale possono aver luogo non soltanto in chat ma anche con partner virtuali ai quali è stato conferito l’aspetto desiderato e addirittura la tonalità di voce preferita; non è infatti difficile trovare online i programmi digitali che permettono di mettere a punto agevolmente tutto questo. Anzi, gli esperti del settore non hanno dubbi; il mercato delle applicazioni che offrono compagni virtuali, romantici o platonici (prime fra tutte Replika.Ai e Character.Ai), potrebbe esplodere nei prossimi anni: si parla (spero con esagerazione) di due miliardi di persone disposte a pagare un modesto abbonamento annuo per avere un partner creato con l’intelligenza artificiale, per avere cioè fidanzate o fidanzati virtuali decisamente realistici, dei quali si possono personalizzare aspetto e carattere in base ai propri desideri. Ad esempio, Character.Ai ha milioni di figure individuali nella sua offerta standard, tra cui personaggi di giochi e film, videomaker, celebrità, YouTuber, ecc., ma se nessuno di questi corrisponde a quello che si sta cercando, è possibile crearne uno del tutto nuovo.
Inquietanti ricerche d’oltreoceano prevedono e puntualizzano che i chatbot companion stanno entrando sempre più nelle vite di giovani e adulti, monopolizzando il loro tempo e segnando i loro comportamenti con un’invadenza e un’incisività che superano quelle inizialmente create dalla televisione e negli ultimi anni dai social media.
Di certo, in una società sempre più segnata da ansie da prestazione, il fenomeno dell’innamoramento di una realtà o persona virtuale è sempre più diffuso e non si limita solo ai giovanissimi che si aprono alla vita affettiva e che possono, almeno in parte, vivere l’esperienza come una palestra di apprendistato emotivo. Di questi giorni è infatti la notizia di un americano di 32 anni, con un lavoro stabile, una figlia di due anni avuta dalla compagna con cui convive apparentemente senza problemi, il quale ha rivelato in una trasmissione televisiva del 14 giugno scorso (CBS Saturday Morning) di essersi innamorato di un bot virtuale, anzi di ChatGPT che aveva addestrato a flirtare con lui, e di avergli chiesto di sposarlo, ricevendo un pieno assenso e creando così una notizia che è subito diventata virale. Ma non è il solo caso del genere, né mancano madri e mogli assurte all’attenzione dei media per scelte analoghe.
In realtà il tema delle relazioni affettive fra umani e chatbot è ormai ‘datato’. Ovviamente, si è sviluppato soprattutto con l'intelligenza artificiale generativa e i Large Language Model, anche se già almeno un decennio prima aveva preso corpo in significative ed emblematiche riflessioni, come attesta il film "Her" di Spike Jonze, vincitore di un Oscar nel 2013, nel quale il protagonista si innamora di un'assistente virtuale frutto di un sistema operativo basato sull’intelligenza artificiale.
Ma riflettere su questo ulteriore fenomeno ci porterebbe troppo lontano e fuori dal tema che mi sono proposto. Siamo però pur sempre di fronte a un’inquietante dimensione di solitudine, di fuga dalla quotidianità e di incapacità di vivere pienamente le problematiche e le conflittualità di una società sempre più complessa, e soprattutto di marcata insoddisfazione relazionale, compensata col rifugio nelle emozioni che i partner virtuali sono capaci di fornire.
Un’ultima considerazione la voglio dedicare ai giochi online, che continuano a catturare i ragazzi, anche perché utilizzano gli strumenti più raffinati dell’intelligenza artificiale per coinvolgerli persino sul piano emotivo con abbondante rilascio di dopamina. È così che molti di loro finiscono con l’identificarsi con personaggi dei giochi, ritenendo normali i loro comportamenti e anzi assimilandoli. Solo che alcuni di questi comportamenti sono talora estremi e possono portare ad esempio a forme di marcata misoginia anche con manifestazioni di violenza e a non riconoscere gli abusi nelle relazioni. Non mancano però giochi e app con l’obiettivo specifico di correggere tutto questo e anzi di agire in maniera sistematica nell’educazione dei giovani, come è il caso di Youth for Love, il gioco online promosso da ActionAid e messo a punto anche con finanziamenti europei, con l’obiettivo specifico di guidare i giovani a riconoscere e a evitare abusi, molestie, violenza di genere e cyberbullismo, e a capire come adottare comportamenti rispettosi e corretti.
Queste mie riflessioni, ovviamente del tutto provvisorie tenuto conto della velocità dei cambiamenti, portano a concludere che usi eccessivi dello smartphone, dei social e dell’intelligenza artificiale influiscono in maniera marcata sulle capacità intellettuali dei giovani e sul loro comportamento; modificano infatti la loro struttura cerebrale, impedendo il corretto sviluppo della corteccia prefrontale che raggiunge il pieno sviluppo verso i 20-25 anni: una regione del cervello cruciale per funzioni cognitive come il controllo degli impulsi, il processo decisionale, la regolazione delle emozioni e la capacità di autocontrollo. Rendono più conformisti e meno creativi, ma diminuiscono parimenti la capacità di concentrazione e di apprendimento.
Inoltre, un sistematico uso dello smartphone e di strumenti digitali avanzati influenza addirittura il nostro modo di parlare, facendoci usare, tra l’altro, in maniera decisamente maggiore dei termini per noi insoliti; lo attesta un’approfondita ricerca appena resa pubblica dal Max Planck Institute for Human Development di Berlino, che ha analizzato 280.000 video accademici prima e dopo l’avvento di ChatGPT. Ne è emerso che l’intelligenza artificiale contribuisce a modificare persino i codici espressivi, spingendo le persone verso una forma di linguaggio più ordinata, analitica e formale. La struttura linguistica dei chatbot, con un lessico modellato per essere chiaro, argomentato e preciso, diventa cioè uno standard usato sempre più in maniera inconsapevole nella quotidianità, quindi anche al di fuori dei contesti digitali. A cambiare quindi non è solo il vocabolario, ma anche la forma della comunicazione, con un linguaggio che rischia di diventare più piatto e prevedibile.
Realtà e prospettive non certo marginali e anche inquietanti, che è bene conoscere, in particolare a livello famigliare e scolastico per non subirle nei loro effetti dirompenti.

 

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