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I giardini celesti

I giardini celesti

La mostra "I giardini celesti" di Silvia Stucky comprende fotografie e dipinti su carta. Testo critico di Rossella Caruso

Lunedi, 12/04/2010 - Le modalità di registrazione visiva di un reale 'globalizzato' possono ancora essere una discriminante per l’artista che, come Silvia Stucky, ha la vocazione al viaggio in aree geografiche culturalmente lontane.

Per altri versi, la presentazione in 'immagine' di ciò che lo sguardo allenato coglie — attraverso l’inquadratura serrata dell’obiettivo fotografico o il ridisegno del frammento — immette ogni 'motivo' in un sistema articolato di segni; in un codice personale dell’artista.

Silvia Stucky è stata più volte in Giappone, poi in Cina, Turchia, Finlandia, Mali; qualche anno fa in Iran e più di recente in Marocco. Ogni viaggio è sedimentato in una serie di lavori su carta (gouache) e in altrettanti scatti nei quali si registrano particolari decorativi, naturali e architettonici che soprattutto evidenziano una coerenza d’insieme, una congruità con lo spazio creativo che li contiene, che trascende le differenze per replicare la costanza di riconoscibili modelli e un inspiegabile senso di appartenenza. Un’ornamentazione quasi ageografica che riconduce le piastrelle marocchine ai tessuti e alle carte da parati morrisiani; i 'patterns' vegetaliformi delle moschee iraniane all’essenzialità dei motivi decorativi dell’antica ceramica afgana; i mandala agli 'azulejos' e viceversa. E non per abdicare a una fedele restituzione delle varie espressioni artistiche, ma per individuare nelle differenze una condivisa sintassi dell’ornamento che, narrando se stesso, «ha il potere di distendersi su ogni spazio e in ogni luogo», vivendo «di un processo di osmosi e di continuo scambio percettivo e psicologico con l’environment» (Massimo Carboni).

I giardini di Silvia Stucky — celesti per le dominanti turchesi, blu oltremare e azzurre, ma fors’anche per la loro atopicità — sono effettivi luoghi di meditazione, sia per la pratica della mano che ne traccia i contorni o ne fissa i particolari nella stampa digitale, sia per l’occhio che ne esplora, con pacatezza, i meandri fitomorfi di un’ornamentazione ridondante e delicatamente ossessiva.

Sono luoghi comuni che espungono metafisicamente la presenza umana, anche quando l’obiettivo si concentra sui quartieri abitativi di una città (Tangeri, Asilah). Mentre invece è descritta la successione delle aperture stonacate, invase da una vegetazione spontanea; i merli zigzaganti su uno sfondo anonimo e desolato; le inferriate bombate e intrecciate che ridisegnano le facciate uniformemente bianche; gli aggetti che schermano e proteggono le aperture; le ombre taglienti che accompagnano il variare delle ore.

E ancora più a oriente, nei giardini di Kyoto, la registrazione fotografica nasconde la presenza umana che ha spazzato il lastricato, rastrellato sapientemente la ghiaia, liberato dalle foglie cadute lo stagno con ninfee, per circoscrivere nello spazio di un haiku il sentimento inviolato di un luogo.



Rossella Caruso, marzo 2010

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