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IPOTESI DI UN RICORSO CONTRO L’ITALICUM / La negazione della parità di accesso alle donne

IPOTESI DI UN RICORSO CONTRO L’ITALICUM / La negazione della parità di accesso alle donne

Leggi costituzionali e decisioni della Consulta, un percorso per il cambiamento / di Iole Natoli

Mercoledi, 16/07/2014 -
Il primo mutamento consistente nel cammino verso la parità di genere in tema di cariche elettive si verifica con la Legge costituzionale 31 gennaio 2001 n. 2, che modifica così lo Statuto siciliano del 1946: “Al fine di conseguire l'equilibrio della rappresentanza dei sessi, la medesima legge promuove condizioni di parità per l'accesso alle consultazioni elettorali".



Nello stesso anno, la Legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3 stabilisce che “Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”.



Un ruolo di particolare rilievo svolge poi la Legge costituzionale del 30 maggio 2003 n. 1, che integra il primo comma dell’Art. 51 della Costituzione, cui si era ampiamente rifatta la sentenza della Consulta del 1995. Al testo già esistente “Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” la nuova legge aggiunge: “A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.

La modifica rende così innegabile ed esplicito il richiamo ad azioni positive, atte a rendere sostanziale e non solamente formale il pari accesso dei sessi alle cariche.



Ed infatti con l’ordinanza n. 39 del 2005 la Consulta si esprime con forza rilevando che, a seguito della modifica introdotta nel 2003, l’articolo 51 non dispone soltanto, come prima, che «la diversità di sesso, in sé e per sé considerata, non può essere mai ragione di discriminazione legislativa» (v. sentenza del 1995); il testo, al contrario, non può più essere inteso come una semplice “specificazione del principio di uguaglianza” statuito dal 1º comma dell’art. 3 della Costituzione, in quanto nella sua nuova completezza l’articolo “assegna ora alla Repubblica anche un compito di promozione delle pari opportunità tra donne e uomini”.



Ancora più dettagliata è la posizione espressa dalla Corte, con sentenza n. 4 del 2010, in occasione del ricorso presentato nel 2009 dall’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi contro la Legge elettorale della Regione Campania n. 4 del 27 marzo di quell’anno.

Fra i vari articoli allora impugnati troviamo il n. 4 comma 3 che recita: “L’elettore può esprimere, nelle apposite righe della scheda, uno o due voti di preferenza, scrivendo il cognome ovvero il nome ed il cognome dei due candidati compresi nella lista stessa. Nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di genere maschile e l’altra un candidato di genere femminile della stessa lista, pena l’annullamento della seconda preferenza”.



Come sottolinea la Corte, è la prima volta che nell’ordinamento italiano una norma «prevede la cosiddetta “preferenza di genere”». Oltre a riferirsi a un articolo del nuovo Statuto della regione Campania, che aveva recepito esplicitandolo la modifica dell’art. 51 della Costituzione, la Corte in questa sua pronuncia dichiara che “il quadro normativo, costituzionale e statutario, (…) impone alla Repubblica la rimozione di tutti gli ostacoli che di fatto impediscono una piena partecipazione di tutti i cittadini all’organizzazione politica del Paese”.

E prosegue: “i legislatori costituzionale e statutario indicano la via delle misure specifiche volte a dare effettività ad un principio di eguaglianza astrattamente sancito, ma non compiutamente realizzato nella prassi politica ed elettorale”.

 

Continuando a riferirsi all’oggetto del ricorso e dunque alla norma contestata in rapporto alla composizione del Consiglio regionale, la Corte asserisce che non esiste una ragione obiettiva per ritenere che l’introduzione della doppia preferenza possa rappresentare una forzatura del risultato (strutturandosi dunque come “quota”, n.d.r) e ledere il diritto di libera scelta dell’elettore. Sarebbe infatti astrattamente possibile che votazioni, attuate secondo tale metodo, finissero col determinare sia “un risultato di equilibrata presenza di donne e uomini”, sia “il permanere del vecchio squilibrio”, o ancora “l’insorgere di un nuovo squilibrio”, qualora gli elettori, nel limitarsi ad esprimere una sola preferenza o a renderne convalidabile una sola (la seconda per un candidato non di sesso diverso sarebbe automaticamente cancellata, n.d.r), votassero prevalentemente in favore di candidati di un sesso soltanto. “La prospettazione di queste eventualità – tutte consentite in astratto dalla normativa censurata – dimostra che la nuova regola rende maggiormente possibile il riequilibrio, ma non lo impone. Si tratta quindi di una misura promozionale, ma non coattiva”.

Quanto alla libertà dell’elettore, tutelata dall’art. 48 della Costituzione, la Corte argomenta che “l’espressione della doppia preferenza è meramente facoltativa per l’elettore, il quale ben può esprimerne una sola, indirizzando la sua scelta verso un candidato dell’uno o dell’altro sesso” e che “nel caso di espressione di due preferenze per candidati dello stesso sesso, l’invalidità colpisce soltanto la seconda preferenza”, ferma restando la prima scelta espressa. Non può essere considerato “lesivo della libertà degli elettori che le leggi, di volta in volta, stabiliscano il numero delle preferenze esprimibili, in coerenza con indirizzi di politica istituzionale che possono variare nello spazio e nel tempo”. L’introduzione della doppia preferenza costituisce “una facoltà aggiuntiva, che allarga lo spettro delle possibili scelte elettorali”, è una semplice “norma riequilibratrice volta ad ottenere, indirettamente ed eventualmente, il risultato di un’azione positiva”; risultato che “non sarebbe, in ogni caso, effetto della legge, ma delle libere scelte degli elettori, cui si attribuisce uno specifico strumento utilizzabile a loro discrezione”.

Questo il più recente parere della Consulta sul tema, in un contesto di elezioni regionali. Questo l’orientamento cui la stessa si conformerebbe in un contesto di elezioni politiche, nel caso di un ben congegnato ricorso contro l’Italicum.

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