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Kiran Bedi, carceriera gentile

Kiran Bedi, carceriera gentile

Mondo/ Un esempio dall'India - La direttrice del carcere di Tijar è un’eroina in India. La sua idea definita “la cultura della colomba” ha annullato il tasso di recidiva dei criminali

Redazione Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Luglio 2005

Prima donna, in India, ad entrare nel servizio di polizia, nel 1972; prima donna cui sia stato affidato, nel 1993, l’incarico di Direttrice generale di un carcere (Tijar, a Nuova Delhi), prevalentemente maschile, di eccezionali dimensioni (quasi diecimila detenuti), Kiran Bedi ha dato prova, durante la sua gestione, di come davvero sia “sempre possibile” trasformare le strutture carcerarie in luoghi di rieducazione finalizzati al reinserimento sociale, in luoghi, in altri termini, capaci di produrre una diminuizione consistente e permanente della criminalità: i tassi di recidiva erano, a Tijar come da noi in Italia, elevatissimi (intorno al 70%); ma, dopo le modifiche apportate all’organizzazzione penitenziaria, in soli due anni sono stati ridotti a pochi punti percentuali.
Proprio in virtù dei risultati ottenuti, Kiran Bedi è stata premiata con una serie impressionante di riconoscimenti internazionali, tra i quali il "Ramon Magsaysay", noto come il "Nobel asiatico", consegnatole a Manila nel 1994, e il "Joseph Bueys", in Svizzera, nel 1997.
Il cuore della proposta di Kiran Bedi - che ha condensato l'esperienza nel carcere di Tihar e gli studi successivi in un volume, pubblicato per i tipi dell’editore Giuffré, con il titolo: " La coscienza di sé, le carceri trasformate. Il crollo della recidiva", tradotto dall'originale in lingua inglese "It's always possible. Trasforming one of the largest prisons in the world" - è semplice: contrappone il modello negativo, che caratterizza la gestione tipica delle strutture carcerarie, in oriente come in occidente, ad un modello positivo.
I due modelli si distinguono innanzi tutto sotto il profilo degli effetti della prevenzione.
Il primo è definito come il modello della "cultura dell'avvoltoio" e condensa le cause e le ragioni delle altissime percentuali di recidiva e, in definitiva, dell'insicurezza sociale.
La collettività, l'amministrazione carceraria, la polizia, il governo, i media sono estranei, lontani, dai detenuti, e, pur dichiarando di avere a cuore la prevenzione del crimine, si interessano al carcere solo quando emergono dei problemi contingenti.
La società, è così percepita, all'interno del carcere, come avente un ruolo segregante, negativo, ostile, vagamente predatorio: la cultura, appunto, dell'avvoltoio.
E il detenuto reagisce: rabbia, aggressività, istinti di vendetta si rafforzano pronti ad essere esternati una volta fuori dal carcere.
Ciò produce effetti paradossalmente opposti alla presunta funzione di sicurezza delle prigioni: il carcere finisce, infatti, con l'avere un effetto criminogeno, con l'essere una "scuola di specializzazione del crimine", un luogo dalle "porte girevoli", da cui si esce per poi inevitabilmente rientrare.
A questa logica dell'esclusione, dell'isolamento consegue la limitatezza dei programmi di istruzione e di formazione capaci di confrontarsi, poi, realmente con il mercato del lavoro.
Questo è il più grande problema secondo la Bedi.
Il detenuto è in carcere per avere male utilizzato il proprio tempo, ma l'amministrazione penitenziaria lo fa persistere nell'errore: anzi, essa stessa "uccide il tempo" del detenuto lasciandolo recluso, senza nulla da fare, per gran parte della giornata.
Una simile strada deve essere abbandonata, dice Kiran Bedi, a favore del secondo modello, quello positivo della "cultura della colomba", sperimentato con successo a Tihar, ma anche in qualsiasi struttura carceraria che lo abbia adottato - negli Stati Uniti (Seattle e Sacramento), in Inghilterra, in Nuova Zelanda, in Australia, a Taiwan.
Questo è descritto come il ‘modello delle tre C’: il carcere deve essere Correzionale, Collettivo e basato sulla Comunità. ‘Correzionale’, nel senso che i programmi, volti ad un effettivo e reale reinserimento, devono essere previsti per tutti i detenuti; il compito della direzione del carcere è essenzialmente quello di ‘time management’, di gestire il tempo dei reclusi per evitare che venga ‘ucciso’, di ‘investire’ in esso per renderlo produttivo.
Nelle carceri devono entrare scuole di istruzione e di formazione, ma anche università. “Non è mai troppo tardi per imparare" dice Kiran Bedi.
Per ottenere questo, la struttura deve diventare a gestione ‘Collettiva’. L'amministrazione penitenziaria deve interagire in modo informale con i detenuti (la Bedi girava di persona tutti i giorni per la struttura); questi ultimi dovrebbero avere dei loro organi di autogestione e la possibilità di contattare direttamente, personalmente, il direttore (a Tihar è stata estremamente utile, per esempio, l'introduzione di una scatola per lettere di petizioni al direttore, che veniva fatta girare per le celle, di detenuto in detenuto); i carcerati, come dice Kiran Bedi, devono essere considerati i ‘clienti’ dell'amministrazione penitenziaria).
L'impegno della ‘Comunità’ è, per questo, insostituibile: il carcere deve aprire le porte alla società civile, ai media, ai volontari, che devono realmente entrare in contatto coni detenuti facendoli sentire parte attiva, integrante della collettività secondo una logica di re-integrazione, non di esclusione.
Ognuno deve contribuire quanto può: e non ci si può nascondere, allora, dietro l'affermazione della mancanza di risorse economiche, ma bisogna agire per ‘investire’ nel tempo dei carcerati, anche con il più modesto apporto (donare libri, computer, offrirsi disponibili ad insegnare un lavoro,ecc).
Lo scopo del modello proposto è, chiaramente, un cambiamento interiore, un cambiamento ‘vero’ del detenuto: questi deve essere condotto all'introspezione, all'autocritica, ad acquisire consapevolezza di sé, dei propri istinti aggressivi come delle proprie capacità di reinserimento attivo nella collettività. A tal fine Kiran Bedi ha sperimentato e promosso, con straordinario successo, in molte carceri del mondo, la meditazione vipassana.
Questa tecnica si è dimostrata formidabile nel consentire, a chi la pratica, di entrare in sé stesso, superare la propria paura, le proprie angosce e quindi l'aggressività, l'avidità e l'ostilità che generano il reato.
È da notarsi che questi programmi di meditazione hanno avuto successo perché sono stati attuati non solo dai detenuti ma anche dal personale di sorveglianza e, prima di tutti, dalla stessa direttrice (che ora li ha inseriti nei corsi di formazione per i funzionari di polizia indiani).
È proprio per illustrare questa straordinaria esperienza in carcere è stato realizzato un documentario dal titolo "Doing time, doing vipassana" girato proprio a Tihar e poi premiato con il Golden Spire, a S. Francisco nel 1994. Il coraggio di Kiran Bedi, la sua concreta apertura verso modalità innovative sono doti che mancano ai direttori italiani, troppo spesso paralizzati dallo "spauracchio della sicurezza".
Ma il punto cruciale, per noi italiani, è se la via intrapresa dal Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria sia quella della "colomba" o, piuttosto, stia irrimediabilmente precipitando verso la "cultura dell'avvoltoio".
Non è facile intraprendere una nuova e diversa politica penitenziaria: il primo passo secondo la Bedi è appurare "che cosa vogliamo dal carcere", affermare chiaramente qual'è la "missione" del carcere. In Italia la classe politica, la stessa società civile, non hanno certamente una visione univoca; c'è, viceversa, un ampio schieramento trasversale incline ad assecondare gli irrazionali istinti di vendetta e le presunte esigenze di sicurezza, e a sostenere il massimo ricorso alla pena detentiva, con assoluta indifferenza per le sorti del delinquente: "Peggio per loro".
Chiarita la "missione" di rieducazione, di risocializzazione, bisogna scontrarsi con il "problema dei problemi: il sovraffollamento. Questo rende assai difficoltoso il perseguimento di qualsiasi prassi di formazione, di istruzione, di spinta al reinserimento.
Ma, proprio su questo specifico punto, il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria non ha i mezzi per intervenire. Altri possono e devono, il legislatore, innanzitutto, impegnandosi sul disagio sociale, sull'immigrazione (il 30% dei detenuti in Italia sono extracomunitari) sulla tossicodipendenza (un altro30% dei detenuti sono tossicodipendenti) e battendo la strada di misure alternative accettabili, dall'opinione pubblica, e praticabili, in un certo numero elevato di casi, e la magistratura più attenta e prudente nel momento di irrogazione e mantenimento della pena detentiva.
Ciò che si può fare, è impegnarsi nella differenziazione dei circuiti di custodia, sperimentando forme di custodia attenuate, nelle quali vi sia una massiccia presenza di esterni, educatori, insegnanti, volontari; elaborare un nuovo regolamento penitenziario, favorire dei piani per l'edilizia finalizzati, quantomeno, a chiudere le vecchie strutture carcerarie; promuovere, infine, un nuovo modo di pensare e di agire quotidianamente.
In effetti, non si può pretendere di risolvere da subito i numerosi problemi del carcere, sarebbe piuttosto urgente un cambiamento di mentalità si torna quindi all'interrogativo su quale concetto di giustizia si vuole realizzare e su quale sia il ruolo del diritto penale: dalla risposta a tali questioni emerge, in modo nitido, come il carcere non debba essere legittimato, ma superato in nome di diverse modalità sanzionatorie che promuovano la centralità della persona umana.
L'obiezione che l’Occidente può fare a Kiran Bedi è fondata sulla diversità religiosa e culturale, tra l'India e l'Italia, diversità che renderebbe inapplicabile, da noi, il modello fondato sulla "cultura della colomba", in particolare nella parte in cui si propone di agire, anche attraverso strumenti innovativi, quali appunto la meditazione, sulla mente dei detenuti, sulle negatività da cui "germoglia e cresce il crimine".
Ma il largo consenso che le filosofie orientali stanno riscuotendo nel nostro Paese dimostrano che c’è spazio anche per un dialogo proposto da Kiran Bedi. Un dialogo con la parte più spirituale di noi, un dialogo effettivo con gli psicologi, ma anche l'ingresso in carcere dei cittadini, e, come più volte ripetuto anche da Kiran Bedi, di attività che impegnino in modo fruttuoso la mente dei detenuti (Scuole, Università).
Infine una proposta provocatoria, ma anche percorribile: affidiamo i detenuti, piuttosto che ai "freddi" servizi sociali, a cittadini volontari che possano offrire loro una casa, un lavoro, un ritorno alla vita sociale. (Fonte: www.solidarity-mission.it)
(22 luglio 2005)

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