La guerra è la forma estrema del patriarcato: una Carta femminista per il mondo in pace
A Perugia sabato 11 Ottobre 2025 sarà presentato il documento in occasione della partecipazione del gruppo di 10 - 100 - 1000 piazze di donne per la pace alla marcia Perugia-Assisi
Giovedi, 02/10/2025 - Gaza, Israele, Russia, Ucraina, Sudan, Sahel, Repubblica Democratica del Congo, Somalia: sono alcuni dei luoghi del nostro mondo nei quali la morte arriva determinata da atti di guerra. Nella immensa frustrazione e impotenza di fronte alla crudeltà che sembra non avere fine un gruppo di donne impegnate per la pace in molte città italiane ha iniziato a incontrarsi e a discutere insieme per arrivare ad una presa di posizione collettiva che raccolga pratiche e pensieri femministi a partire da una politica del disarmo, della cura e della giustizia.
La convinzione comune di queste attiviste, che si sono date il nome di 10 - 100 - 1000 piazze di donne per la pace, è che le guerre che devastano il mondo non sono un’anomalia, ma la conseguenza ultima di un sistema patriarcale che legittima la violenza come linguaggio e il dominio come unica forma di potere.
Il risultato di alcuni mesi di incontri del gruppo è un documento, la Carta dell’impegno per un mondo disarmato, che sarà presentata ufficialmente a Perugia sabato 11 Ottobre 2025 alle ore 16.30 nella Sala della Fondazione Sant’Anna, viale Roma 15, in occasione della partecipazione del gruppo di 10 - 100 - 1000 piazze di donne per la pace alla marcia Perugia-Assisi.
“La guerra è sempre un crimine”, diceva Lidia Menapace. “Non è il destino o una legge naturale a condannarci alla guerra, - scriveva Rosa Luxemburg dal carcere nel 1917, - sono i padroni della terra, i potenti che, per difendere i loro profitti e il loro dominio, mandano milioni al macello. Ma noi abbiamo la forza di opporci, se solo ci uniamo”.
La Carta propone una lettura specifica per opporsi alla guerra in tutte le sue forme, perché esiste un preciso percorso che lega guerra e violenza patriarcale: “La nostra critica non si limita alla condanna dei conflitti armati: sottolineiamo la continuità tra patriarcato e guerra, visibile nella volontà di controllo e annientamento dell’altro e - in forma radicale - dell’altra, come testimoniano lo stupro praticato come arma e i regimi che fondano il proprio potere sul dominio dei corpi femminili, in Iran come in Afghanistan.
Già Virginia Woolf, nel secolo scorso, aveva svelato il legame tra potere, privilegio maschile e violenza armata riconoscendo alle donne la capacità di immaginare civiltà fondate su altri valori.
Nel 2003, Leymah Gbowee (premio Nobel per la pace nel 2011) ha dato vita in Liberia a un movimento per la pace capace di unire donne cristiane e musulmane in una lotta nonviolenta: preghiera, sciopero del sesso, occupazione degli spazi pubblici. Un esempio potente di dissenso incarnato, attivo, collettivo, radicato nei corpi e nelle relazioni.
Le Donne in Nero dimostrano da decenni una possibile alternativa al massacro reciproco: donne israeliane in solidarietà con le palestinesi, poi donne serbe con croate, bosniache e kosovare. La loro protesta silenziosa ma radicale ha trasformato la memoria in presenza viva e si è estesa a molti altri luoghi del mondo, dimostrando che resistenza e solidarietà non hanno confini.
Ancora oggi in Medio Oriente le donne israeliane di Women Wage Peace e le palestinesi di Women of the Sun rifiutano la logica della vendetta e dell’odio e provano a tracciare insieme una via concreta per uscire dalla spirale della contrapposizione mortale.
Non basta tuttavia invocare una maggiore presenza femminile ai tavoli delle trattative: è necessario che le donne che vi siedono sappiano rompere con l’orizzonte simbolico maschile e con il linguaggio della forza. Essere state fuori dalla storia, sostengono le attiviste, è oggi un vantaggio per le donne che vogliono entrarci non per essere incluse, ma per trasformarla.
Per questo disertare l’odio è un atto radicale di responsabilità politica. Significa rompere l’automatismo tra offesa e risposta armata, tra paura e annientamento, tra vulnerabilità e dominio.
Non è disimpegno: è scelta attiva, relazionale, che si oppone alla coazione a ripetere della violenza e apre ad altre possibilità.
“Dalla nostra esperienza femminista abbiamo imparato a decostruire le retoriche della forza e della sicurezza, a riconoscere la vulnerabilità come fondamento dell’umano, a trasformare la cura in gesto politico. Rifiutare la guerra - che si svolga a Gaza, in Ucraina, in Africa o lungo i confini blindati dell’Occidente - significa per noi rifiutare anche le violenze sistemiche contro gli immigrati, le stragi in mare, l’espulsione dei poveri dal campo del vivente. Sono facce diverse dello stesso sistema patriarcale, coloniale e capitalista che si nutre di esclusione, paura e morte. Per questo è urgente rilanciare un’etica della vita, dell’amore e della giustizia, da far vivere ogni giorno come pratica attiva di opposizione.
La diserzione non è rinuncia, ma atto di renitenza verso l’obbligo di addestrarsi alla logica del togliere la vita, un rifiuto che si colloca nel solco delle più alte tradizioni di resistenza civile. È rottura consapevole dell’incantesimo della violenza, dettata non da sola paura, ma dall’imperativo interiore di non voler uccidere un altro essere umano”.
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