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La vita umana come esistenza vulnerabile in Cicely Saunders - di Ilaria Malagrinò

La vita umana come esistenza vulnerabile in Cicely Saunders - di Ilaria Malagrinò

“Tu sei importante perché sei tu, e sei importante fino all’ultimo momento della tua vita. Faremo ogni cosa possibile non solo per permetterti di morire in pace, ma anche per farti vivere fino al momento della tua morte”

Venerdi, 25/02/2022 - “Tu sei importante perché sei tu, e sei importante fino all’ultimo momento della tua vita. Faremo ogni cosa possibile non solo per permetterti di morire in pace, ma anche per farti vivere fino al momento della tua morte”.

La pan­demia da Covid–19 ha ravvivato tragicamente la nostra consapevolezza che malattia, sofferenza, vecchiaia e morte sono fatti universali e che rivendicano un significato non sempre facile da trovare. La vita umana è costantemente “sull’orlo dell’abisso”, diretta verso “situazioni limite” come direb­be Jaspers. La vulnerabilità è parte della humana conditio, la caratteristica che ne esprime la finitezza e la fragilità in­trinseche. La vulnerabilità è come forma o modalità di esistenza umana incorporata nella vitalità. La necessaria apertura del vivente, il fatto che il suo autosostentamento nella vita dipenda dallo scambio con l’ambiente, lo rende precario, bisognoso e sempre sulla soglia della malattia e della morte. L’assoluta invulnerabilità porterebbe con sé la perdita della condizione di essere vivo e, quindi, la per­dita della stessa condizione umana. La vulnerabilità è quindi da declinarsi nei termini della più potente, minac­ciosa e allo stesso tempo arricchente dimensione di tutta la vita umana. Esaminare questo carattere paradossale della vulnerabilità è, così, un modo per tornare, ad experi­mentum, a un realismo morale–filosofico, a una più ampia comprensione della categoria dell’umanità, colta né solo nella concrezione bio–genetica della specie né nell’astra­zione filosofica della perfezione della natura, ma, nella sua ubicazione, biografica ed esistenziale nel mondo tra la vita e la morte. In quanto esperienza tragica di vulnerabilità, la pande­mia ci spinge ad un ripensamento o, quanto meno, ad una riconcettualizzazione del significato della vita umana e del­le sue concretizzazioni esistenziali. Quello di cui abbiamo bisogno è un nuovo paradigma culturale che parta dal rico­noscimento della contingenza della vita. L’urgenza non è solo quella di leggi protettive, quanto piuttosto di criteri di intelligibilità diversi.

E, a riguardo, particolarmente interessanti appaiono proprio le riflessioni di Cicely Saunders, fondatrice dell’Hospice Movement, che,sottolineando l'importanza delle cure palliative nella medicina moderna, ha dato il via al modo più confortevole possibile di assistere i malati terminali fino alla fine della loro vita. Cicely è stata una figura rivoluzionaria nell’ambito della storia della medicina, della bioetica e dell’antropologia, perché ha posto le basi di un nuovo approccio, olistico, integrale e, come direbbe lei, totale alla cura dei malati, che, insistendo sul carattere dinamico del vivere, impegna il pensiero in un’analisi situazionale, concreta e dinamica di cosa significa esseri vivi. Per la nostra autrice, la vita, o meglio, il vivere è cambiamento e auto–trasformazione. La forza rivoluzionaria di tale quadro interpretativo consiste proprio nel divieto ad esso intrinseco di spostare l’attenzione dal possibile all’effettivo di modo tale che ogni istanza di sviluppo sia vista come un risulta­to eccezionale a sé stante.

Al contrario, il pensiero del processo invita a con­siderare gli individui in termini di cambiamento inces­sante, emergenza e autotrasformazione; ci spinge a rico­noscere che ciò che realmente esiste non sono persone già fatte ma in divenire. Un tale orientamento intellettuale ha chiaramente molto da offrire, poiché si concentra sulle micro–pratiche del “quotidiano” o su quello che è stato definito “coping pratico”e sulla dimensione del senso.Il pensiero del processo, dunque, riconosce che la contingenza, l’emergenza, la creatività e la complessi­tà sono fondamentali per la nostra comprensione della vita umana. Esso, inoltre, porta con sé una concezione degli individui intesi non come entità autonome chiuse nel loro guscio, quanto piuttosto li coglie nella loro rela­zionalità. Da questo punto di vista, la persona non è da intendersi come un’entità distinta che si limita a relazio­narsi esternamente al proprio ambiente in modo tale da lasciare la sua natura specifica internamente inalterata. È la relazionalità che contribuisce a definire gli individui in maniera tale che le loro identità e caratteristiche non siano stabilite a priori, ovvero prima del loro effettivo coinvol­gimento con gli altri. La persona diviene, maturando, e il suo divenire è parte integrante del processo del divenire del mondo.

Proprio per questo è possibile dire che quello di Saunders sia un pensiero della creatività. È nella lettura della sua concet­tualizzazione di vita come critica alla mortalità che i suoi con­tributi più singolari diventano evidenti. Per la nostra autrice, il carattere dell’esperienza umana non è modellato principal­mente dal suo finale ma dalle sue condizioni di emergenza. In contrasto con la mortalità, offre la vitalità, la capacità di essere in relazione vitale con la propria situazione esistenziale come evento di novità e potenzialità. Cicely non nega il ruolo costitutivo della mortalità nell’esistenza umana, ma teorizza la novità e creatività per controbilanciare il fatalismo e il nichilismo che accompagna­no una fissazione sull’eventuale fine di una particolare vita umana. Lo spazio vitale dell’uomo corre verso la morte, ma sarebbe inevitabilmente portare tutto ciò che è umano alla rovina e alla distruzione, se non fosse per la facoltà di interrompere tale corso e di iniziare qualcosa di nuovo. Una facoltà ine­rente all’azione come un promemoria sempre presente che ricorda agli uomini che, sebbene debbano morire, non sono nati per morire ma dentro l’ordine del cominciare e rico­minciare. In tale orizzonte antropologico, la nostra mortalità rive­la una creatività originaria. L’essere umano è prima di tutto l’essenza di inizio.

In tal senso, la magistrale novità contenuta nelle lettere di Saun­ders e che ne fa esaltare la sua estrema importanza culturale riguarda proprio il concetto di vulnerabilità a cui apre e che sicuramente dà a pensare. Di solito si presuppone che vivere in modo vulnerabile sia un compito, un progetto, legato a particolari stati o momenti di vita,a specifiche condizioni di disabilità, ma non lo è. Non è un tipo particolare di attività o progetto. Non cerchiamo di diventare vulnerabili. Piuttosto siamo vulnerabili. La nostra vulnera­bilità dipende dall’apertura ontologica fondamentale. È quest’apertura in­tesa come esperienza di disagio con il non familiare, l’incon­trollato e l’imprevedibile che ci rende vulnerabili. E, tuttavia, solo attraverso la confusione in questa esperienza impariamo, cambiamo e andiamo oltre i nostri limiti attuali. L’associazio­ne di vulnerabilità con idee di espropriazione ed esposizione indica qualcosa di vitale riguardo al suo significato: la vulnerabilità è definita dall’apertura, e tale apertura implica l’incapacità di prevedere, controllare e co­noscere appieno ciò a cui siamo aperti e come ci influenzerà. Le lettere di Saunders, quindi, autorizzano ad andare verso una comprensione della vulnerabilità che rompa con il pensiero oppositivo, dualista dell’oppresso e del forte, e ci autorizzano a concepire la vulnerabilità in ter­mini di potenzialità e apertura al cambiamento. Definita in questo modo, la vulnerabilità opera come una condizione trascendentale: essere vulnerabili, aperti a essere colpiti e a influenzare, è il presupposto fondamentale per l’esperienza in generale. È un’occasione per diventare–altro da quello che si è. Così, l’apertura all’altro e ai suoi effetti sul sé, è anche aper­tura alla trasformazione in relazione a questo altro: ricettività, non chiusura, e auto–espropriazione conferiscono un “dono di mutevolezza”. L’apertura a sperimentare l’alterità e l’al­terazione che ne consegue è la condizione dell’invenzione. Le persone diventano più ricche e forti quanto più sono fragili e vulnerabili. Una risposta affermativa e generosa alla condizio­ne fondamentale di vulnerabilità richiede una nuova forma di forza che non è padronanza o dominanza, ma “forza della fragilità”.

Da qui la proposta di considerare il care, la cura,come atto etico adeguato alla vita umana. La vita umana ha bisogno di cure perché è fragile e vulnerabile. La vulnerabilità riporta la persona ad una bisognosità che appare come un elemento costitutivo della vita. Il bisogno che detronizza l’autosufficienza individuale diventa relazione in­tersoggettiva. Esso sollecita la cura che definisce così lo spazio in cui diventa possibile l’ascolto empatico della fragilità. Tale posizione interpretativa risulta alquanto interessante, poiché focalizzare l’attenzione sulla vulnerabilità presuppone una certa attitudine a non cercare soluzioni finali, sicurezza e guida in principi astratti e teorici, per abbracciare le incertezze empiriche della nostra esistenza concedendoci un senso di stupore proprio riguardo la mortalità, la debolezza e la dipendenza. Tutte caratteristiche che trovano piena realizzazione e valorizzazione nella cura fondamentalmente intesa come incontro diretto con l’altro colto nel suo aspetto di contatto, ovvero come accompagna­mento. La parola accompagnare è la combinazione delle parole latine ad (verso), cum (con) e panem (pane) e significa letteralmente “condividere il pane in vista di”. Ora, tali ele­menti sono importanti perché consentono di stabilire un’e­tica specifica del prendersi cura, evidenziando gli standard elevati e l’ambizione di questa postura. Accompagnare non è guidare, anche con le migliori intenzioni. È accettare più modesta­mente gli alti e bassi dell’altro, la sua rabbia, le sue smentite, i suoi silenzi, i suoi errori, così come le sue gioie, le sue risate, possibilmente la sua serenità, senza cercare di riorientarlo o abbandonarlo a causa di tutto ciò. Da questo punto di vista, quindi,vediamo che è la nozione di cum (con) ad essere il vero cuo­re dell’accompagnamento. Essere “con” non è stare davanti o sopra, in una postura che sopravvaluta colui che cura, insistendo sul suo potere di influenza sull’altro. Ma, stare con non è neanche stare dietro o sotto, in una posizione che, al contrario, sopravvaluta la persona vulnerabile per farne un “maestro di vita”. Stare con, quindi, è sem­plicemente stare insieme, desiderosi di offrire qualcosa di sé e di accogliere qualcosa dell’altro, nella condivisione. Si basa sulla capacità di aprirsi gli uni agli altri, di esporsi senza mettersi in mostra. L’accompagnamento pensato come un “essere con” non è un prudente atteggiamento di neutralità, è un temerario atteggiamento di sincerità per poter poi in­staurare, nonostante le differenze di situazione, un rapporto non di debito, ma di parità. La condizione principale dello “stare con” è la presenza: la sfida è osare essere presenti, renden­dosi pienamente attenti e disponibili, con una postura deli­cata ma altrimenti benefica. Essere responsabili è quindi anche accettare di non avere una risposta efficiente. O più esattamente, è accettare che la pre­senza sia di per sé la risposta. Poter dire consapevolmente “io sono qui”, o semplicemente manifestarlo, è sicuramente uno degli atti di cura più commoventi. Così, la risposta responsabile si dirige verso colui che, a causa della sua fragilità, si vede progressivamente ridotto a una certa passività e a una vera solitudine esistenziale, e lo ristabilisce come essere di legame, capace di ricevere e di dare. In tal senso, essa ha un effetto dirompente anche su colui che cura, poiché lo spoglia della presunzione di dover fare a tutti i costi qualcosa facendogli scoprire improvvisamente, con un certo sollievo, la leggerez­za e la profonda felicità di osare semplicemente esserci, senza progetto, senza aspettative. L’accompagnamento va oltre la relazione di aiuto e la sua travolgente unilateralità per augurare la trasformazione di ciascuno attraverso la gioia di un incontro e attraverso gli orizzonti insospettati della reciprocità.

“Dove ci è permesso di vegliare da vicino e condividere profondamente, potremmo non trovare una risposta a tutte le nostre domande sulla sofferenza e la morte, ma invece troviamo una persona e il nostro interrogativo si trasforma in meraviglia. Abbiamo anche visto che quando la sofferenza si trasforma in un'offerta d'amore, allora è la via dell'unione. E, in questa realtà, potrebbe esserci un nuovo incontro con coloro che amiamo. Così anche la separazione può essere trasformata. In questo modo l'oscurità è compresa dalla luce e la morte è inghiottita nella vittoria”.


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