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L’idea di salute globale. Una sfida per la bioetica

L’idea di salute globale. Una sfida per la bioetica

Costumi, stili di vita, scelte morali, appartenenze, rapporti col proprio corpo, consapevolezza di nuovi diritti e di inedite responsabilità. Le nuove frontiere che ci pone la pandemia

Mercoledi, 27/05/2020 - Le emergenze virali e i fenomeni pandemici che abbiamo vissuto nel passato - dall’influenza aviaria alla Sars a Mers a Ebola -, generando il timore di una contaminazione generalizzata della nostra vita quotidiana, ci hanno fatto percepire il lato oscuro della globalizzazione. Se l’alterazione degli ecosistemi e la sottrazione di habitat naturali alle specie selvatiche hanno favorito il diffondersi di patogeni prima sconosciuti, le catastrofi che ormai temiamo maggiormente sono quelle indotte dallo stravolgimento degli equilibri naturali e, aggiungerei, anche delle nostre difficili relazioni con le altre specie. Basti pensare al caso “Mucca pazza” da cui era emerso anni fa in tutta la sua drammaticità il nodo cruciale, e eticamente ancora irrisolto, del rapporto tra umani e animali e che aveva spinto Edgar Morin a chiedersi se non fosse più appropriato parlare, anziché di mucca pazza, di homo demens… Un caso sollevato allora - come oggi avviene col coronavirus - dal fondato sospetto di una trasmissione del morbo attraverso un salto di specie, un sospetto a cui non si è attribuita, a mio avviso, sufficiente attenzione, nonostante chiami in causa le enormi questioni della globalizzazione dei mercati e gli stessi equilibri politici ed economici del mondo. Ma cosa evoca lo spillover? Non significa forse che abbiamo alterato equilibri, modificato rapporti, dimenticato sia le regole più elementari di prudenza sia le norme di rispetto che dovrebbero governare i nostri rapporti con le altre specie? Se il dominio dell’uomo è il risultato di una lunga guerra d’indipendenza dalla natura, gli animali rappresentano i prigionieri esibiti di un esercito trionfante. Certo, il confine per noi più difficile da attraversare, quello che più resiste alla compassione e sfida l’empatia è senz’altro quello della specie. Per quanto l’etologia ci fornisca una serie di informazioni sulla vita degli animali e la complessità del loro comportamento, resta il fatto che continuiamo a pensarli quasi come alieni, provenienti da mondi diversi, le cui esperienze non hanno nulla a che vedere con la nostra vita. Non a caso alcuni anni fa proprio ad un pipistrello si riferiva un filosofo, Thomas Nagel, in un sofisticato saggio dal titolo Che effetto fa essere un pipistrello, per mostrare i limiti dell’empatia, ovvero l’impossibilità per noi umani di capire che cosa significa stare nella pelle di un altro animale.
La scelta del pipistrello era giustificata dal fatto che si trattava di una specie vicina a noi (in quanto mammiferi) ma insieme dotata di apparati sensori e di attività così differenti dai nostri da renderla fondamentalmente estranea. È possibile - si chiedeva Nagel - penetrare nella vita interiore del pipistrello e riprodurne l’esperienza, partendo dalla nostra? Posso certo usare la mia immaginazione ma essa è limitata. Non servirà a nulla cercare di immaginare che abbiamo membrane palmate sui nostri arti che ci permettono di volare qua e là nel crepuscolo e all’alba per acchiappare insetti o che passiamo le giornate appesi a testa in giù in una grotta. Per quanto possa sforzarmi, tutto questo (e non è molto) mi dirà soltanto che effetto farebbe a me comportarsi come si comporta un pipistrello. Ma la questione non è questa: io desidero sapere che effetto fa a un pipistrello essere un pipistrello. Le risorse della mia immaginazione si rivelano inadeguate a tale scopo. Anche se, per ipotesi, riuscissi a metamorfosarmi in un pipistrello, sarebbe sempre un me stesso trasformato in pipistrello quello di cui parlerei. Fermiamoci qui. Quella di Nagel è evidentemente una domanda paradossale che mira ad evidenziare, attraverso un esperimento mentale, i limiti del nostro conoscere e il carattere irriducibilmente soggettivo della nostra esperienza. Ma ecco che il salto di specie da cui si sarebbe originato il Covid-19 ci ricorda che siamo molto vicini, anzi pericolosamente vicini. Oggi la domanda più appropriata dovrebbe così riformularsi “Che effetto fa un pipistrello… a noi?”
È ben noto il cosiddetto ‘effetto farfalla’ espresso dalla domanda “Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?” ispirato da un racconto di Ray Bradbury, Rumore di tuono, in cui si narra di un escursionista del futuro che, calpestando una farfalla, provoca una catena di conseguenze catastrofiche per la storia umana. Non è, quindi, fantascienza oggi parlare di un ‘effetto pipistrello’ chiedendoci quali conseguenze devastanti e imprevedibili abbia prodotto sulla nostra esistenza questo piccolo animale di cui non ci saremmo mai occupati, se non per porci - mi riferisco alla categoria dei filosofi - talune bizzarre domande. È certamente sconcertante, per fare un solo esempio, dover ammettere che la nostra vita, nella complessità dei suoi aspetti, sia misteriosamente collegata ai pipistrelli nell’entroterra cinese. L’uomo, la misura di tutte le cose, con la sua prodezza scientifica, il suo dominio sulla natura, si trova di fronte ad una catastrofe che non riesce a controllare e che lo richiama alla sua irriducibile dimensione biologica, alla sua costitutiva vulnerabilità. Forse anche per questo dovremmo riflettere più seriamente al nostro rapporto col mondo animale in termini di etica della responsabilità.
Le origini animali di pandemie - come ieri la Sars e oggi la Covid-19 - e le occasioni ideali della loro trasmissione offerte dai mercati locali di animali selvatici sono una realtà ben nota a chi si occupa da decenni di salute pubblica. In un recente articolo su “Esprit”, La transmission infectieuse d’animal à humain (avril 2020), Didier Sicard. analizza la diffusione delle zoonosi in relazione alla distruzione della biodiversità sottolineando come la trasmissione all’uomo possa avvenire in diversi modi: o distruggendo il tradizionale habitat animale che espone al contagio gli esseri umani, o tramite animali selvatici, - un contatto facilitato dai cosiddetti “mercati bagnati” (wet markets), come nel caso della Sars e oggi del Covid-19, o attraverso la concentrazione di animali domestici in allevamenti intensivi, come nel caso dell’influenza aviaria. Già la Sars avrebbe dovuto essere un campanello d’allarme per condurre ad una chiusura permanente dei “wet markets” in quanto fonte permanente di contagio - una decisione proposta solo ora dall’Onu. Oggi si tratta di andare oltre e prevenire l’insorgenza di ulteriori zoonosi nella consapevolezza che la salute è globale: siamo elementi di un ecosistema in cui la salute di ogni elemento – umano, animale, ambientale - è strettamente interdipendente da quella degli altri. Mi sembra molto significativo, a questo riguardo, che nell’enciclica Laudato sì si ricordi che “non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola complessa crisi socio-ambientale” la cui soluzione richiede un approccio integrale.
La crisi sanitaria che stiamo vivendo trascende infatti i confini nazionali e richiede soluzioni globali al punto che una delle critiche più rilevanti da rivolgersi oggi alle autorità in materia predittiva è di non aver sostenuto in modo deciso, dopo la Sars, la ricerca che avrebbe messo a disposizione del mondo medico dei veri mezzi d’azione efficaci contro la nuova epidemia. Come stiamo reimpostando - dovremmo chiederci - la ricerca nel settore pubblico e nel privato? Sembra di poter rispondere che Covid-19 ha evidenziato la necessità di attivare nuove forme di cooperazione a tutti i livelli, a partire, ad esempio, da progetti di open innovation tra cause farmaceutiche e istituti di ricerca per trovare il vaccino. Per questo dovremmo pensare ad un approccio integrato e parlare di una “salute circolare (One Health) la cui parola chiave è interdisciplinarietà e in cui, per le ragioni dette, appare fondamentale la collaborazione tra il mondo della medicina umana e quello della medicina veterinaria. Anche in questo caso una domanda importante riguarda ciò che si sta facendo nella scuola e nell’università per rispondere a tali sfide. Un percorso di grande interesse, a mio avviso, è quello seguito, ad esempio, dall’Università di Sidney in cui le facoltà di agraria, di ecologia e di veterinaria sono unite in un’unica scuola di Life Sciences e studiosi dei vari settori disciplinari elaborano progetti di ricerca comune, nella convinzione che solo con la multidisciplinarietà si possa procedere in una direzione innovativa. Dal momento che la società globale è una società complessa, dovremmo diventare sempre più consapevoli che i quesiti complessi non si risolvono con la verticalità delle singole discipline ma piuttosto con l’orizzontalità interdisciplinare del loro intreccio. Ma questa è, a ben riflettere, proprio la lezione da cui nasce la bioetica. Interdisciplinarietà non significa infatti annullare il ruolo delle singole discipline, bensì potenziarlo ed esaltarlo: ciascuna traduce infatti la questione in esame nel proprio linguaggio e si avvale della sua specifica metodologia, ma insieme supera la sua inevitabile unilateralità nella misura in cui riesce a pensare, insieme con le altre, la complessità e a integrare le risposte in una prospettiva globale. La bioetica, in tal senso, può definirsi come un campo d’indagine in cui si incontrano le più diverse discipline chiamate a riflettere su un tema centrale: il bios, il vivente nelle sue diverse dimensioni, alla luce di un fuoco d’interesse unitario, quello etico. Recuperata nel suo significato originario di “etica per il mondo dei viventi”, secondo la visione di colui che ne coniò il termine nel lontano 1927, il teologo e filosofo Fritz Jahr, ci sollecita a pensare nei termini di una salute davvero globale e a ridefinire la stessa nozione di qualità della vita in relazione a parametri più ampi che corrispondono agli interessi non solo dell’umanità attuale ma anche delle generazioni future, dell’ambiente e delle altre specie. Da qui una serie di domande assai concrete a partire proprio dalla nostra alimentazione. Quali sono i suoi costi etici? Quale il suo impatto ecologico? È irrilevante, dal punto di vista morale, quello di cui ci nutriamo? Se è vero che abbiamo superato le due angosce primordiali che ci hanno accompagnato dalla notte dei tempi – trovare cibo e non diventare cibo per altri - oggi siamo assaliti da altre paure. L’alimentazione oggi, per la sua stessa complessità, diventa cartina di tornasole per testimoniare costumi, stili di vita, scelte morali, appartenenze, rapporti col proprio corpo, la terra e le altre specie, consapevolezza di nuovi diritti e di inedite responsabilità. La trasformazione del mondo in un ‘villaggio globale’ - effetto non secondario anche dell’esplosione del coronavirus - ha prodotto una differenza cruciale, benché non ancora sufficientemente riconosciuta, nella nostra situazione morale. L’estensione dei nostri orizzonti morali, al di là dei confini spaziali, costituisce in effetti uno stadio significativo nello sviluppo di un’etica autenticamente umana. L’idea guida è quella dell’expanding circle, ovvero di un cerchio che si allarga progressivamente fino a comprendere ambiti sempre più vasti, in una dimensione planetaria. Se ci chiedessimo, ad esempio, chi è il nostro prossimo, per rispondere dovremmo forse cominciare a sganciare il concetto di prossimo da quello di prossimità. Non è un’operazione facile ma, a ben riflettere, ormai il prossimo inteso in senso forte come composto da tutti coloro su cui esercitiamo potere e su cui pertanto siamo moralmente tenuti a vincolare le nostre scelte, si colloca al di là della prossimità, sia essa spaziale - la nostra ‘tribù’ -, temporale - i nostri figli - o di specie - la razza umana. In tale visione la sfida posta alla bioetica dalla catastrofe della pandemia dovrebbe essere l’elaborazione di un’etica della responsabilità su scala mondiale come sola adeguata ad affrontare i problemi cruciali di sopravvivenza per un’umanità intesa ormai come una comunità di destino. Da qui un’ulteriore riflessione.
La stessa decretazione d’urgenza che abbiamo vissuto a causa della pandemia ci ha mostrato l’intreccio sempre più forte tra politica e vita biologica, un intreccio che può assumere caratteri inquietanti - e di questi si occupa diffusamente in particolare la biopolitica - per la spinta crescente verso stati d’eccezione che potrebbero mettere a rischio i nostri diritti di libertà, omologando le procedure di stati democratici a quelle di stati autoritari. E tuttavia, la stessa severità di talune decisioni per cui, ad esempio, i gesti più minuti della nostra quotidianità sono stati sottratti alla sfera privata assumendo loro malgrado un rilievo pubblico, potrebbe contribuire a rafforzare un sentimento della comunità, un’idea di appartenenza che sembra confluire in una sorta di patto di cittadinanza. “Aiutiamoci l’un l’altro”, “insieme ce la faremo” sono solo slogan consolatori o esprimono una nuova consapevolezza, portando alla luce quella che potremmo chiamare la radice virtuosa della democrazia? Forse l’educazione alla cittadinanza di cui abbiamo tanto parlato, senza mai riuscire a darne una convincente definizione, potrebbe cominciare proprio da qui.

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