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Le donne nei progetti di pace - di Gilda Gallerati

Le donne nei progetti di pace - di Gilda Gallerati

"Disarmata, giusta, duratura: la pace è parola che viaggia in coppia aggettivata. Non è termine assoluto..."

Sabato, 20/12/2025 - La pace oggi rappresenta la più grande sfida di civiltà per l’intera umanità. Disarmata, giusta, duratura: la pace è parola che viaggia in coppia aggettivata. Non è termine assoluto, ma ha bisogno di connotarsi anche per giustificare ritardi, interessi economici, incapacità d’azione. I numeri ci danno la misura: 100 conflitti armati nel mondo, 56 guerre attive, 92 paesi coinvolti direttamente o indirettamente, 160 mila decessi totali nel 2024 – uno degli anni più mortali dalla fine del secondo conflitto mondiale.

A ottobre scorso il rapporto del Segretario Generale delle Nazioni Unite su donne, pace e sicurezza segnala un altro dato allarmante: 676 milioni di donne, cioè il 17% di tutta la popolazione femminile mondiale, vivono nel raggio di 50 chilometri da scontri in cui si sono registrati decessi. Cifre che si sono raddoppiate dal 1990.

Il Rapporto celebra quest’anno il 25esimo anniversario della Risoluzione Onu 1325 del 2000, intitolato “Donne, pace e sicurezza”, con cui la comunità internazionale si era impegnata ad arrivare alla piena partecipazione sociale delle donne anche nel raggiungimento della pace.

Sotto il profilo giuridico la Risoluzione 1325 voleva essere un coinvolgimento vincolante delle donne nei processi di pace, nella prevenzione dei conflitti, nella politica di sicurezza internazionale, nelle azioni di ricostruzione delle strutture statali, capaci di tenere conto delle differenti condizioni di vita delle persone durante e dopo i conflitti.

La risoluzione introduceva per la prima volta quattro priorità: partecipazione, prevenzione, protezione e peacebuilding, per ribadire il ruolo fondamentale delle donne come agenti di pace e non come meri soggetti passivi. Tra le priorità erano ribadite: la partecipazione attiva delle donne sia ai processi di pace e di politica di sicurezza, che nelle azioni di prevenzione dei conflitti, per affermare e sostenere la leadership femminile.

In sostanza, la pace universale e duratura sembrava non poter essere conseguita senza la piena partecipazione paritaria delle donne in tutte le relazioni internazionali e nei processi decisionali inerenti la pace, nelle attività governative, negli sforzi di mobilitazione, formazione e ricerca per la pace.

Nella Risoluzione Onu 1325 è stato anche denunciato come spesso sia passato inosservato l’impegno femminile alla lotta per sradicare il totalitarismo, il colonialismo, l’imperialismo, l’occupazione e il dominio stranieri, la discriminazione razziale, l’apartheid e altre violazioni dei diritti umani.

Dunque la Risoluzione sembrava battere il ritmo di un cambiamento determinante nell’approccio alla pace. Ebbene, oggi a distanza di 25 anni i numeri ci dicono il contrario.

Il Rapporto ONU riporta che nel 2024, nove processi di pace su dieci non hanno incluso alcuna negoziatrice. Del resto nel mondo le donne ricoprono solo il 7% delle posizioni di negoziatrici. Mentre rappresentano solo il 14% dei mediatori di pace. E parliamo di pace solo quando parliamo di guerra.

Per approfondire il nesso tra donne, guerra e pace potrebbe essere utile partire da quanto affermato dalla scrittrice Birgit Brock-Utne: la pace, non è semplicemente “assenza di guerra”, ma richiede un processo positivo, dinamico e partecipativo, dove il dialogo e il confronto siano incoraggiati e i conflitti siano risolti in uno spirito di comprensione reciproca e di cooperazione continua.

La rivendicazione dei diritti delle donne nei tavoli di pace e la necessità di autodeterminazione dell’universo femminile nasce quando la filosofia della pace non si sforza più di interpretare la guerra o di giustificarla, ma di cambiarla e di eliminarla definitivamente.

I movimenti femministi dal secondo dopoguerra hanno cercato di evidenziare la naturale attitudine della donna alla pace, ma rafforzata da un sistema educativo, familiare e sociale, ricevuto molto orientato alla pace, alla cura, all’armonia, all’accoglienza. Ma è bene ricordare che non ci sono solo le donne impegnate politicamente, ci sono anche le eroine sconosciute e silenziose che operano in territori difficili, donne impegnate in azioni di protezione, di accoglienza, di difesa dei diritti, come pure donne impegnate nelle operazioni di guerra.

Cosa significa attribuire alle donne il ruolo di portatrici di pace?

Per tutta la vita e persino nella morte, tutti conserviamo l’impronta dell’esperienza della nascita. L’unica esperienza unificatrice, incontrovertibile, condivisa da tutti, è il periodo trascorso a formarci nel grembo di una madre.

Certo questo significa che la donna è dotata di una particolare attitudine a promuovere azioni di generazione, conservazione, anche nel quotidiano: ha capacità di ascolto, è perseverante e paziente, sa mediare e accogliere il diverso. Sono soprattutto alcune caratteristiche specificamente femminili a contribuire a costruire una cultura dell’incontro: il senso materno di accudimento e il senso di protezione verso gli altri, la capacità di creare spazi di dialogo e l’azione pacifica contro le ingiustizie.

Ma davvero le donne per natura sono più orientate alla pace degli uomini?

Certo se ci alimentiamo di cultura e mito, di allegorie e fantasie maschili c’è di che confondere le generazioni per l’eternità.

La storia culturale occidentale ci propone archetipi sulle donne che le descrivono come esseri malvagi, violenti e demoniaci. Un elenco infinito: Circe, le Parche, Pandora, Le Sirene, Le Amazzoni. E poi ci sono le sante, la Madonna, Le Regine, le grandi scienziate: donne irraggiungibili. E poi ci sono le allegorie nell’arte. Pensiamo al celebre ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena o a quello di Giotto nella Cappella Scrovegni di Padova.

Oppure al gruppo scultoreo del XVII secolo di Palazzo Pitti, dove Giustizia e Pace sono rappresentate da due donne che camminano insieme, sulla stessa strada, guardandosi dritto negli occhi.⁠

Virginia Woolf diceva che il modo migliore per «prevenire la guerra» sarebbe quello di «trovare nuove parole, inventare nuovi metodi, la radice dei conflitti va ricercata in qualunque forma di discriminazione, che si basa sulla presenza di un rapporto di forza – figura subordinata e sovraordinata – che dà origine ad una serie di dicotomie come: ricchi e poveri, giovani e anziani, uomini e donne.

L’Antropologa americana Reeves Sanday sottolinea come non sia «il potere femminile in sé che conta. Ma la chiave dei valori di cui sono portatrici. Se hanno la meglio valori competitivi e combattivi il risultato sarà lo stesso: assertività, violenza, guerra come arma di dissuasione. Così come se si lavora nella direzione dell’uguaglianza, dei diritti umani, dei bambini e dei poveri e contro il saccheggio dell’ambiente poco importa chi è alla guida, se maschio o femmina, dato che questo è l’unico modo per proteggere il mondo delle future generazioni da un mondo in progressiva disintegrazione». La vera soluzione sta nella capacità di proteggere chi è vulnerabile nell’interesse della pace e del benessere collettivo.

Il cammino faticoso della pace attraversa le strade impervie della relazione tra gli individui, la reciproca comprensione, l’educazione e la coscienza, la corretta informazione. E allora, se i processi educativi, i ruoli di genere e la visione innata nelle donne sembra definirle come ideali portatrici di pace e benessere, perché non trovano spazio sui tavoli diplomatici? Tornano alla memoria le parole di Angela Cingolani Guidi pronunciate alla Assemblea Plenaria della Consulta Nazionale, il primo ottobre 1945, il suo primo discorso nell’aula di Palazzo Montecitorio.

“Colleghi, nel vostro applauso ravviso un saluto per la donna che per la prima volta parla in quest’aula. Non un applauso dunque per la mia persona ma per me quale rappresentante delle donne italiane che ora, per la prima volta, partecipano alla vita politica del Paese.
… Noi donne che siamo temprate a superare il dolore e il male con la nostra operosità e con la nostra pietà, siamo fiere di essere in prima linea nell’opera di ricostruzione del nostro Paese e di pace prolifica.

Non si tema, per questo nostro intervento quasi un ritorno a un rinnovato matriarcato, seppure mai esistito! Abbiamo troppo fiuto politico per aspirare a ciò; comunque peggio di quel che nel passato hanno saputo fare gli uomini noi certo non riusciremo mai a fare!”

Articolo di Gilda Gallerati gentilmente concesso e pubblicato il 19/12/25 in Riformismo e Solidarietà 


 

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