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L'ipocrisia della libertà

L'ipocrisia della libertà

a proposito del dibattito su tradizione, religione e identità

Domenica, 22/04/2012 - I diritti delle donne non sono ancora considerati diritti umani. Sono sicura che in nome del rispetto per il multiculturalismo a nessuno, a sinistra, verrebbe in mente di accettare la richiesta della comunità cinese, in Europa, di applicare la pena di morte in caso di reati che coinvolgessero persone cinesi, adducendo a motivo che nel loro paese la pena di morte esiste. E invece, se si tratta di donne, e in particolare di corpo delle donne, di sessualità femminile, di visioni delle relazioni tra donne e uomini tutto cambia. Dal ‘senza se e senza ma’ si passa ai moltissime se e agli infiniti ma.

Accade che se in Francia si decide di bandire dalla scuola pubblica i simboli religiosi, (tutti, dalla kippa ebrea alla croce cristiana e al velo islamico) si scateni l’anatema da parte della sinistra radicale e di parte del femminismo per il non rispetto della libertà delle donne, come se non ci fossero anche le libertà dei cristiani e degli ebrei in gioco.

Il paradosso è che si sprecano le lodi culturali del velo proprio da parte di molte donne progressiste, che lo difendono a volte come legittimo vessillo di orgoglio antioccidentale, a volte come segno di legittima bandiera di quei valori tradizionali patriarcali tanto combattuti dalle progressiste stesse nella cultura cattolica. Una paradossale incongruenza logica, storica e politica.

Queste donne tanto desiderose di difendere la copertura del corpo delle loro sorelle musulmane sono definite così dall’attivista iraniana Chahdrortt Djavann, autrice di Bas Les voiles (Giù i veli): “Piccole smorfiose che si convertono al velo per gioco, senza preoccuparsi di ciò a cui condannano - così facendo - le loro sorelle più giovani, o meno libere: la schiavitù più brutale e più arcaica”.

Ora che in Francia il burqa diventa illegale, perché giudicato incompatibile con la Repubblica in quanto “attentato alla dignità della donna” e che in Belgio si sta discutendo un analogo provvedimento, persino Human Right Watch, per bocca di Judith Sunderland si dice preoccupata che, “in un momento di grande debolezza dei musulmani in Europa le donne siano considerate criminali”. Il problema enorme che io ravviso in un dibattito mai partito davvero in Italia circa il significato politico della copertura del corpo delle donne, imposto da una visione fondamentalista della religione musulmana, e non condivisa da tutto il mondo musulmano, è che non c’è coraggio. C’è paura di passare per razziste, ora che in questo paese la destra e in particolare la Lega la fa da padrona. Allora è tutto un distinguo tra velo e burka, e si tira in ballo la libertà di scelta.

Ciò che penso è che poco importa se si tratta solo della copertura della testa o dell’intera persona, perché al di là della questione tecnica della ‘sicurezza’ rappresentata dal burka è inutile cavillare sui centimetri: si tratta comunque di avallare una visione secondo la quale le donne sono, da una parte, pericolose per la loro sessualità nello spazio pubblico misto e dall’altra che possono solo mostrarsi nature ad un uomo, il legittimo marito, dimostrando così la dote indispensabile per una buona donna: la modestia.

“Harry Houdini si trovò una volta a lottare per ore con il lucchetto di una cella. Quando, stremato, smise di lottare e vi si appoggiò, la porta si aprì da sola: non era mai stata chiusa a chiave. È la migliore descrizione di cosa voglia dire essere nero e americano oggi”. Sono le parole di Debra Dickerson, quarantenne nera, americana, femminista, autrice del libro che sta facendo molto discutere negli Usa: The end of Blackness, nel quale racconta, senza autocompiacimento, la sua esperienza di ‘vittima’, (lo aveva già fatto partendo da sé e dal suo stupro nel precedente An American History), e lancia una provocazione difficile da digerire: la discriminazione non sta solo e soltanto in chi la attua, dice, ma sta soprattutto nella mente di chi la subisce. Debra Dickerson usa due immagini interessanti per disegnare il suo punto di vista, nel confrontarsi con le sue origini di donna e di coloured: afferma che questo confronto deve avvenire “senza vergogna e senza romanticismi”. Mi torna in mente la dura esternazione della recente premio Nobel per la pace, l’iraniana Shrin Ebadi, quando sostiene che il sessismo “è un virus trasmesso ai figli maschi da delle donne, le loro madri”. O l’analisi di molte femministe quando si riflette sulla violenza e la nonviolenza, e si invita a non considerare scontata la pacificità femminile come data dalla potenzialità procreativa del corpo di donna: è solo in un percorso etico e politico di posizionamento nel femminismo e nella pratica che si può saldare un pensiero femminile responsabilmente nonviolento, senza, appunto, slanci romantici sulla presunta ‘naturale dolcezza delle donne’, vista la crescente presenza femminile negli eserciti statali, in quelli dei rivoluzionari sanguinari come nelle fila dei gruppi terroristici. Così come la Dickerson irrompe nell’universo simbolico del nero come vittima costante della civiltà dei bianchi, un’altra autrice, su un fronte analogamente difficile, lancia un’altra sfida. Giornalista, canadese nata in Uganda e di origini egiziane e indiane, musulmana, femminista, lesbica: è Irshad Manji, trentacinque anni, che ha dato alle stampe qualche anno fa The trouble with Islam: a muslim’s call for reform in her faith, tradotto in italiano con il titolo Quando abbiamo smesso di pensare?. Un libro dirompente, perché Irshad Manji non intende rinunciare a nessuna delle sfaccettature che fanno parte della sua cultura e delle sue scelte, religione compresa, ben sapendo che per chi usa il credo in modo fondamentalista la sua vita è da spezzare. Il coraggio del libro sta nell’affermare che “Il Corano è contraddittorio, e come tale è umano. Noi musulmani non abbiamo avuto ancora la nostra riforma liberale, ma innumerevoli riforme conservatrici. Oggi riformare non significa dire alla gente come pensare, ma dare loro il permesso di pensare e di fare domande sui nostri testi sacri. E questa è considerata una sorta di eresia anche fra i musulmani non estremisti. Sono una musulmana dissidente, all’inizio del mio libro dico che sono una Muslim refusenik, ma questo non significa che io rifiuti l’Islam: rifiuto di unirmi a un esercito di automi in nome di un dio, incluso il mio”.

“Mi chiamo Hussein, sono afgano, e sono una delle vittime del fondamentalismo islamico. Credo che quello che i musulmani chiamano ‘il libro sacro’ abbia bisogno di una nuova e migliore interpretazione. Noi musulmani dobbiamo modificare il nostro antisemitismo, la nostra misoginia e le altre cattive abitudini. Irshad, ti ringrazio per il tuo lavoro, sono molto felice”.

Al sito www.muslim-refusenik.com creato da Manji si susseguono centinaia di messaggi e-mail di questo tenore, ai quali, per fortuna in misura minore, si affiancano missive cariche d’odio, minacce di morte, insulti sessuali.

E’ innegabile, infatti, che dall’11 settembre in poi la catastrofe della guerra e l’acutizzarsi del terrorismo hanno creato una situazione nella quale è difficile esercitare serenamente una critica all’Islam senza il rischio di essere accumunati al veleno della Fallaci et similia. Per questo l’operazione di disvelamento della Manji è feconda, richiama tutti e tutte a rimettersi a pensare ed a esercitare con il pensiero l’attività di critica, che lei istruisce triangolando femminismo, religione e politica, con una forza che molto ha a che fare con altri testi fondamentali dei femminismi, quali Il demone amante di Robin Morgan, o Questo sesso che non è un sesso di Luce Irigaray, o Il secondo sesso della De Beauvoir, o Nato di donna di Adrenne Rich, solo per citarne alcuni.

Con una prosa incalzante, innervata da racconti e aneddoti di vita vissuta (molti racconti riguardano la sua infanzia sotto le rigide regole della religione ma anche la sua esperienza di conduttrice televisiva a Toronto, Canada, di un programma su argomenti di cultura gay e lesbica, Queer Television), il libro può diventare un efficace strumento per costruire ponti che rafforzino quel movimento di riforma politica e religiosa dentro l’Islam come già avvenne nel cattolicesimo, con la nascita della teologia della liberazione e dei movimenti cristiani di base, e che con fatica opera nella società islamica, in particolare in Iran. Ascoltiamo la Manji: “Non ho peli sulla lingua, io. Dovrete abituarvi. In questa lettera pongo domande davanti alle quali non possiamo più nasconderci. Perché siamo ostaggio di quanto accade tra israeliani e palestinesi? Come spiegare la persistente vena di antisemitismo che percorre l’Islam? Chi ci vuole veramente colonizzare: l’America o l’Arabia? Per quale ragione continuiamo a sprecare il talento e la ricchezza delle donne, che rappresentano il cinquanta per cento abbondante della creazione divina? Cosa ci rende tanto sicuri che gli omosessuali meritino il nostro ostracismo – se non addirittura la morte- quando, secondo il Corano, tutto ciò che Dio crea è ‘eccellente’? Oggi, non solo a causa dell’11 settembre, ma in seguito a quell’evento con tanta più urgenza, dobbiamo porre fine al totalitarismo dell’Islam, e in particolare alle flagranti violazioni dei diritti delle donne e delle minoranze religiose. Nascondere questa realtà serve solo ad assolverci dalla responsabilità nei confronti dei nostri simili”.

Alla domanda da dove le venga il diritto di dire quello che pensa in modo così critico verso la religione alla quale lei stessa dice di appartenere la risposta è: “In primo luogo dall’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani: chiunque ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di fede, e poi dal Corano 4,135: Fedeli, vivete secondo giustizia e siate testimoni e portatori di verità davanti a Dio, anche se questo significa andare contro voi stessi, la vostra famiglia o le regole della vostra società.”

Chiedere e costruire, anche in nome della fede islamica verità, giustizia, libertà ma anche gioia, piacere ed espressione di orientamenti sessuali non certo conformi alle ferree regole del Corano: questa la sfida di Irshad Manji, che rilancia: “Favorire il cambiamento significa non prendere il Corano alle lettera, e nemmeno il multiculturalismo. Perché mai dovremmo mostrarci indulgenti nei confronti dell’infibulazione? Per quale ragione i poliziotti dovrebbero ritirarsi di fronte ad un padre(o una madre)

che minacci di uccidere la figlia perché vuole sposarsi al fuori della religione? Perché mai i diritti umani dovrebbero essere appannaggio esclusivo dei non musulmani?”

Domande importanti che cozzano contro l’indifferenza di troppa umanità che variamente minimizza, mentre il mercato ingrassa e ride. Il mercato si sta rapidamente e con grande entusiasmo adeguando alle esigenze poste dai fondamentalismi: la Costa crociere, affamata del denaro dei ricchi sauditi ha già annunciato che sulla sua prossima ammiraglia ci saranno spazi per la preghiera islamica e luoghi separati per donne e uomini, mentre proprio in questi giorni si stanno ultimando le pulizie nelle due spiagge del litorale emiliano (amministrato dalla sinistra) off limits per gli uomini, che aspettano le signore islamiche con i loro bambini maschi al di sotto dei 12 anni. Anche in Sudafrica c’erano le spiagge separate per bianchi, e si urlava giustamente alla segregazione razziale.

Saranno i miracoli della libertà di scelta e della democrazia.

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