Login Registrati
Ma la 'Palestina' non sarà proclamata ‘Stato’...

Ma la 'Palestina' non sarà proclamata ‘Stato’...

"...dopo la distruzione di Gaza rivisitare un sogno o, come dice un soldato israeliano frustrato, una sceneggiata della retorica della coesistenza..". Riflessioni di una militante della nonviolenza

Domenica, 07/09/2025 -

Dal 7 ottobre sono, uno dopo l’altro, precipitati tutti i principi e tutte le norme della Carta delle Nazioni Unite, del diritto internazionale, dei diritti umani, del diritto penale internazionale, perfino del diritto di guerra per l’afflizione deliberata di sofferenze disumane e le uccisioni mirate anche sui bambini, lo sterminio per fame alla popolazione civile.

Responsabile il governo israeliano. Vittima il popolo palestinese. Causa un attentato di straordinaria crudeltà e violenza, perpetrato dal gruppo nazionalista Hamas. Il presidente Netanyahu per ritorsione persegue la distruzione di Gaza, l’esproprio della Cisgiordania da parte dei coloni, la deportazione del popolo palestinese per costruire il Grande Israele del sovranismo biblico. La strategia di Netanyahu, presidente di un paese ritenuto democratico, reso disturbato da periodiche, costanti violenze causate dal terrorismo proprio e altrui, fin dalla prima strage di Deir Yassin, piccolo villaggio di 400 abitanti nel 1948.

Oggi tutti i paesi del mondo sono sconvolti, fino all’inedita richiesta da parte di molti governi del riconoscimento dello Stato palestinese, misura tardiva, quando mancano forse definitivamente i mezzi effettivi per applicarla. Inascoltati gli appelli per la tregua umanitaria e la disperata denuncia di genocidio del popolo palestinese di David Grossman.

Non so voi, ma la mia coscienza non è tranquilla: il dolore è arrivato al silenzio e anche gli israeliani poco nazionalisti sembrano conniventi. Si esautora un parlamentare ebreo del partito arabo e si cerca di espellerlo dalla Knesset: difficile reagire. Israele non è più uno Stato di diritto.

Da troppo tempo ci stiamo dentro tutti. Tutti come occidentali, soprattutto come europei. In fondo da sempre. Dal 1947, quando cessò il mandato britannico sulla Palestina e furono decise le frontiere dello Stato di Israele, con capitale Tel Aviv, ma moralmente Gerusalemme, città sacra divisa tra le due “entità” e, secondo il piano dell’Onu, affidata, come i Territori Occupati, alla Giordania e subito parzialmente occupati da Israele. Nel 1980 una riforma costituzionale votata dalla Knesset, la città dove dovevano convivere ebrei, musulmani e cristiani, divenne la capitale unita e indivisa di Israele. Era la pianificazione dello Stato di Israele. L’Onu non aveva articolato anche uno Stato della Palestina, con confini che stabilissero la statualità della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme Est.

Il mondo usciva dalla seconda guerra mondiale e dalla prima si portava dietro la dichiarazione Balfour (1917) che avallava la costruzione di un focolare per gli ebrei. Alla promessa si era aggiunto l’intendimento di espiare il crimine nazista della shoa e il mondo arabo islamico, dopo la sconfitta dell’impero ottomano, non era più protagonista. Forse nessuno si rese davvero conto della responsabilità nell’attuazione della nakba, la necessaria (?) deportazione dei palestinesi, detentori della Terra Santa. Non si previde che sarebbe stata l’origine del sempre rinnovato odio tra israeliani e arabi, in una guerra non dichiarata, latente e destinata a continue esplosioni.

Di questa situazione tra due anni faremo memoria per l’ottantesimo anniversario. Ottant’anni di tragici cui è difficile riconoscersi innocenti, anche il politologo competente e l’internazionalista attento.

Impossibile continuare a negare la responsabilità per il mancato compimento della promessa originaria dei “due popoli, due Stati”, rimasta per quasi otto decenni l’unica soluzione nonviolenta per un conflitto che, oltre all’esigenza specifica di giustizia, metteva periodicamente in crisi gli equilibri mediorientali. E che – a parte i tentativi di Carter e di Clinton – nessun paese o coalizione di paesi, nessuna organizzazione internazionale, nonostante le reiterate risoluzioni delle Nazioni Unite a condanna delle aggressioni e le stragi compiute dai governi israeliani, ha mai avuto il coraggio di assumersi formalmente la responsabilità.

L’importanza per gli Usa della lobby ebraica è stata enfatizzata strumentalmente, se è vero che da anni esiste una lobby araba di non minore rilievo elettorale. Le Grandi Potenze, signore delle “guerre fredde”, pur conoscendo il valore impegnativo dell’area sul piano internazionale, non vollero dare effettività agli intendimenti originari, quando era viva l’emozione per la presunta soluzione della questione ebraica, come se non si fosse aperta contestualmente una questione palestinese. Anche se preceduti dagli attacchi terroristici dei sionisti – l’attentato al King David – fin dai tempi di Ben Gurion si riteneva garantito l’impianto democratico del socialismo laico delle origini, erede della tradizione del kibbuz, consapevole che il rispetto dei diritti democratici comprendeva la questione di confini già contestabili dai sionisti esigenti delle promesse del dio biblico.

La religione dei valori universali dell’ebraismo si è ridotta – nel mondo laico preoccupato del ritorno dell’antisemitismo – a retorica ipocrita, anche se tutti li confermano fondamento della vita civile e della libertà religiosa. Intanto gli anni sono passati insieme con le stragi di Hebron, Sabra e Chatila, Tell al-Za’tar. La causa palestinese venne imponendosi da parte dell’indignazione dei popoli del mondo che, generazione dopo generazione, attivarono manifestazioni, proteste, boicottaggi dei pompelmi di Jaffa in nome di diritti umani che Israele violava e i governi deploravano. Ma l’indignazione dei popoli non basta se i cittadini –  che hanno idee chiare sui diritti umani – hanno governi passivi o internazionalmente bloccati dalla rigidezza delle relazioni congelate dai formalismi.

Oggi continuano gli appelli governativi e le proteste popolari, ma è solo grande, muta desolazione: a Gaza muore non solo un territorio e un numero assurdo e spaventoso di vittime – settantamila – ma il riconoscimento di un Stato palestinese, per la prima volta richiesto da alcuni governi europei, mentre l’Ue non è lo Stato Unito pensato a Ventotene e non può agire a nome di tutti i ventisette. Gli stessi arabi, fin dal primo giorno dichiaratisi fratelli degli altri arabi che possedevano la Palestina per esserci nati e vissuti, si limitano oggi ai percorsi diplomatici per trattare la tregua.

Palese l’iniquità delle pretese espansioniste, destinate a diventare la ferocia inaccettabile degli attacchi armati di tzahal, ormai in contraddizione con se stesso, se sono i capi militari a porre il problema della validità della strategia di totale distruzione di Gaza e di deportazione dei gazawi: Israele genocida rischia la sconfitta del discredito. Le reazioni pubbliche sono diventate anodine, cariche di dolore, indignazione, rabbia. Escono parole contro l’Israele della shoah che non si accorge, guardandosi nello specchio di Gaza, di produrre gli stessi corpi scheletrici ebrei nei campi di sterminio nazisti. Interventi tardivi, sempre più giustamente favorevoli al popolo palestinese, che dal 1948 auspicava, chiedeva, pretendeva il rispetto del diritto internazionale e delle risoluzioni delle Nazioni Unite. Anche i governi votavano mozioni favorevoli al conseguimento dei valori umani, religiosi, giuridici, ma senza turbare i poteri forti, unilateralmente schierati con Tel Aviv.

Anch’io ho a lungo partecipato a questo, diciamo così, integralismo dei principi, nelle manifestazioni che chiedevano che il mondo funzionasse – perché glielo chiedevamo noi – come i principi comandavano. Non mi è durato a lungo, per delusione di ripetere troppe volte gli stessi cortei e firmare gli stessi appelli. I popoli, anche dei paesi democratici, possono gridare, perfino in accordo con i loro governi, senza produrre neppure un’eco che risuoni “in alto”. Dopo il massacro di Sabra e Chatila ero così sconvolta che a una riunione internazionale dell’Associazione della Chiesa cattolica Pax Christi, proposi la chiusura dell’istituzione che, con quel nome, denunciava il fallimento reale di sé e del mondo. Mi resi conto che limitarsi a stare dalla parte effettivamente giusta, quella delle vittime, di fatto accetta la logica amico/nemico. Alla solidarietà non basta il rigore morale: se prendo posizione su un fronte, da cui non ricevo alcuns offesa o danno, divento un “soldato a remoto”, anche militando per la parte giusta. Per accrescere la forza della resistenza palestinese, è sempre stato necessario usare lo strumento politico.

Da allora, emotivamente mantenendo la condivisione reale con il movimento pacifista, non appartenevo più politicamente ad una parte sola: non ci sarebbe stata cessazione delle violenze se non avessi tenuto conto dell’altra parte. Della quale non vanno taciuti i crimini, senza reticenze, ma anche con la disponibilità a sedere allo stesso tavolo per fare giustizia, sia che il mio governo proponga una mediazione, sia che nella mia città ci possa essere dialogo con gli amici della sinagoga e della moschea. Tuttavia la nonviolenza concreta non riesce a diventare popolare: non si tratta di abbandonare “la causa”, si tratta di rendere attiva l’indignazione: scendere in piazza per condannare non attenua il danno. Se siamo buoni cittadini dobbiamo prima considerare la politica del governo a cui danno il voto e portare le questioni in Parlamento. Papa Francesco metteva in guardia dall’antisemitismo, ma non nascondeva i diritti delle vittime; oggi papa Leone XIV, il papa americano – colpito direttamente dal bombardamento della chiesa di Gaza – ha nominato i problemi della guerra che Israele conduce con violenza inaccettabile senza veli diplomatici e ha inviato il cardinale Pizzaballa a visitare Gaza e denunciare la responsabilità di Israele e l’impossibilità di ritenere “errore” le bombe che hanno distrutto e ucciso.

Un comportamento coerente con i principi laici e religiosi, diretto, formalmente ineccepibile. Per quanto seguito da tutti i media e dai governi, non ne derivano conseguenze coerenti. Anche in questi mesi, la Corte Penale Internazionale aveva emesso mandati di arresto per Netanyahu e il ministro della difesa israeliano, ma l’Ungheria era uscita dalla Cpi e lo aveva ricevuto, come Trump che aveva scritto uno dei suoi diktat e abbiamo visto il premier israeliano a Washington.

Ma occorre coraggio, perché a questo punto Netanyahu ci ha portato oltre la guerra e ha reso l’arma della fame non diversa dall’uso del nucleare: l’umanità ne è offesa e qualche soluzione dovrà sortirne. Solo che, dopo tanti anni di ipocrisia e ignavia, anche i potenti sono incapaci proprio di coraggio. Complici.


Lascia un Commento

©2019 - NoiDonne - Iscrizione ROC n.33421 del 23 /09/ 2019 - P.IVA 00878931005
Privacy Policy - Cookie Policy | Creazione Siti Internet WebDimension®