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Mafia e cultura della legalità

Mafia e cultura della legalità

Intervista ad Anna Puglisi - All’Associazione Donne siciliane per la lotta contro la mafia aderirono da tutta Italia. A oltre trenta anni dalla fondazione del Centro Siciliano di Documentazione intitolato a Giuseppe Impastato parliamo di cultura della l

Bartolini Tiziana Mercoledi, 25/03/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Marzo 2009

“Con i suoi studi e la sua attività di raccolta di testimonianze di vita, svolta soprattutto attraverso il Centro Siciliano di Documentazione, intitolato a Giuseppe Impastato, ha valorizzato il contributo delle donne nella mobilitazione antimafia”. Questa la motivazione con cui il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha conferito ad Anna Puglisi l'onorificenza di Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana l’8 marzo 2008, durante una speciale cerimonia al Quirinale dedicata a due ricorrenze simbolicamente molto significative: i 60 anni della Costituzione della Repubblica Italiana e della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Il Centro (www.centroimpastato.it) – di cui Anna Puglisi è stata co-fondatrice insieme ad Umberto Santino – nacque nel 1977 allo scopo di raccogliere documentazione e testimonianze riguardanti la lotta contro la mafia, avviare un’attività di studio e ricerca, di collaborazione e sostegno alle iniziative nelle scuole e sul territorio. L’incontro con Anna è occasione per parlare dell’Associazione donne siciliane per la lotta contro la mafia, del ruolo delle donne nell'organizzazione mafiosa e nella mobilitazione antimafia. “L’Associazione nasce nel 1980 e per circa venti anni ha organizzato numerose iniziative di impegno antimafia. La prima fu l’appello al Presidente della Repubblica Sandro Pertini e ai presidenti delle tre regioni meridionali più colpite dalla mafia, Campania, Calabria e Sicilia, per chiedere provvedimenti legislativi e mezzi idonei per combattere efficacemente la mafia. Raccogliemmo più di trenta mila firme di donne, ma soltanto dopo l’uccisione di Dalla Chiesa, nel settembre del 1982, il parlamento si decise a sancire finalmente, con la legge che porta il nome di uno degli estensori, Pio La Torre, il reato di mafia”.
Quali iniziative dell’Associazione delle donne siciliane contro la mafia ricorda in particolare?
Innanzitutto va precisato che avevamo l’adesione non solo di donne siciliane, ma di tutta Italia perchè il problema cominciava a essere considerato come questione nazionale. Abbiamo iniziato un lavoro nelle scuole, in un periodo in cui non era facile convincere i professori e i presidi che era importante parlare di questi temi agli studenti. Tra le nostre attività più significative il sostegno ad alcune donne del popolo palermitano che hanno deciso di costituirsi parte civile nei processi contro i mafiosi responsabili dell’uccisione di loro parenti, andando incontro all’isolamento da parte del loro ambiente e anche delle loro famiglie.
Siete riuscite a convincere qualche donna della mafia a collaborare con la giustizia?
L’unica donna che ha rotto con la famiglia mafiosa è stata Felicia, la mamma di Peppino Impastato, che anche prima della morte del figlio aveva imposto al marito di non portare in casa i mafiosi suoi amici, e dopo il delitto ha aperto la casa a chiunque volesse conoscere Peppino, e si è battuta, assieme al figlio Giovanni, ai compagni rimasti e a noi del Centro per avere giustizia per il figlio. Le donne di mafia che hanno collaborato con la giustizia lo hanno deciso da sole, spinte da diverse ragioni, anche dalla volontà di vendicarsi. Ma in genere le donne di mafia non si ribellano: per cultura (sono cresciute in famiglie mafiose), per interesse (usufruiscono di ricchezze), oppure per paura. Alcune, parenti di collaboratori di giustizia, hanno rifiutato la protezione: un modo per ‘comunicare’ che erano dalla parte della mafia.

Tornando alla vostra associazione, come si è evoluta nel tempo?

Per più di venti anni il lavoro è stato intenso, anche se abbiamo avuto poca attenzione da parte dei media. Voglio ricordare la manifestazione dell’88, assieme alle donne della Calabria e della Campania, a cui partecipò Nilde Jotti, presidente della Camera. E poi, oltre al lavoro nelle scuole che è continuato, convegni, dibattiti, incontri in Italia e all’estero. Voglio ricordare anche un’iniziativa, quelle delle “donne del digiuno”, lanciata da altre associazioni di donne palermitane, tra cui l’Udi e le Donne in Nero, dopo le stragi in cui sono morti Falcone, la moglie, Borsellino e gli agenti delle scorte, e a cui hanno partecipato anche socie della nostra associazione. Presidiarono Piazza Politeama digiunando e chiedendo le dimissioni degli uomini delle istituzioni che ritenevano responsabili dell’isolamento dei magistrati. L’Associazione delle donne siciliane contro la mafia negli anni ha esaurito il suo impegno, anche se non si è sciolta ufficialmente, ma quasi tutte le socie abbiamo continuato un’attività antimafia, chi in altre associazioni, chi nel posto di lavoro. Sono nate altre associazioni in cui le donne sono protagoniste. Ricordo, ad esempio, il lavoro nel quartiere Albergheria e nel quartiere Zen di Palermo. E’ bello pensare che i semi piantati dalla Associazione delle donne contro la mafia siano germogliati in altri luoghi e in altre situazioni.

Oggi si parla meno di mafia, i clamori della cronaca sono più attirati dalla camorra. Perchè?
Dopo le stragi del ’92 e gli arresti, ci sono stati dei provvedimenti del governo che, anche se successivamente annacquati, hanno ottenuto dei risultati colpendo l’ala militare della mafia. Inoltre i mafiosi hanno capito che l’eccesso di clamore provoca un effetto boomerang, per cui sono tornati al basso profilo, puntando alla capacità di infiltrazione. Oggi una buona parte dei capimafia è in galera, purtroppo non sono stati colpiti gli amministratori, i professionisti, i politici collusi, quelli che abbiamo chiamato “borghesia mafiosa”.

Cosa è, oggi, il Centro Siciliano di Documentazione intitolato a Giuseppe Impastato?
Sorto 32 anni fa, nel 1977, il Centro opera quotidianamente con soci e collaboratori impegnati come volontari e gli obiettivi rimangono ancora attuali: sviluppare la conoscenza della mafia e dei fenomeni analoghi a livello nazionale e internazionale, diffondere una cultura della legalità democratica e della partecipazione. L’abbiamo dedicato nell’80 a Peppino, che è stato ucciso dalla mafia nel 1978. Decidemmo di intestarlo a lui per diverse ragioni: perchè Peppino è l’unico esempio di lotta alla mafia partendo dalla rottura con la propria famiglia, per la sua capacità di unire l’impegno politico alla controinformazione e alla satira attraverso Radio Aut, e anche perché da subito abbiamo iniziato un’attività per avere giustizia per la sua morte. Ci tengo a precisare che le attività del Centro sono autofinanziate perché non siamo riusciti a ottenere una legislazione regionale che fissi dei criteri oggettivi per i finanziamenti pubblici e non abbiamo voluto accettare contributi grazie ai favoritismi di questo o quel politico.

C’è una donna vittima di mafia che vuole ricordare?
Rita Atria, la giovane che si è suicidata dopo la morte di Borsellino. Piera Aiello, moglie del fratello di Rita ucciso dalla mafia, ha reagito e ha spinto anche Rita a testimoniare. La famiglia le ha isolate, addirittura la madre non ne ha voluto più sapere di Rita. Furono costrette a trasferirsi a Roma. Dopo la morte di Borsellino Rita si è sentita abbandonata. Piera è presidente di un’associazione (nata per volontà di Nadia Furnari) intitolata a Rita e che, tra l’altro, si è attivata per avere giustizia per Graziella Campagna, ragazzina uccisa soltanto perchè aveva trovato un’agenda nella tasca di una giacca lasciata da Gerlando Alberti Junior, allora latitante, alla tintoria in cui lavorava.

Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”
Via Villa Sperlinga, 15 - 90144 Palermo, Tel 091 6259789 - csdgi@tin.it - www.centroimpastato.it


UNA DONNA ‘COMUNE’
“Come è nata la decisione di impegnarti nella lotta contro la mafia?
All’inizio l’istinto è quello di rinchiudersi nel proprio dolore...poi ho avuto la sensazione di non essere la protagonista di una tragedia soltanto personale, ma di una tragedia collettiva, che il pericolo minacciava un’intera società, ...quel filo che ci lega gli uni agli altri in una società civile ...è il filo della reattività. Altrimenti si rischia di scivolare nell’indifferenza e nella rassegnazione, si rischia di dimenticare. Certo per me che non avevo alle spalle nessuna militanza politica e nessuna esperienza di impegni sociali, ma che avevo semplicemente vissuto la mia vita di donna comune a fianco di un uomo di valore, è stato forse più difficile superare gli istintivi sentimenti di pudore e ritrosia. Ma affrontare una nuova realtà, volersi calare in problemi mai affrontati, è stato per me una elaborazione del lutto, in fin dei conti una vera risorsa, il giusto impegno da offrire al contributo pagato da mio marito”.
Da “Storie di donne”, brano tratto dall’intervista a Giovanna Giaconia Terranova (vedova del giudice Cesare Terranova)

(16 marzo 2009)

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