Login Registrati
Marta Ceroni: umanizziamo la scienza e non separiamola dalle espressioni artistiche

Marta Ceroni: umanizziamo la scienza e non separiamola dalle espressioni artistiche

L'Academy for Systems Change promuove le transizioni verso sistemi sostenibili della società, dal locale al globale. Parola di Marta Ceroni, ecologa forestale

Mercoledi, 06/04/2022 - Donella Meadows nel 1972 pubblicò The limits to Grow (I limiti allo sviluppo), che (aggiornato nel 2002) parte da un assunto fondamentale: la Terra non è infinita, né come serbatoio di risorse, né come discarica di rifiuti. Molte della capacità di recupero e rigenerazione della Terra sono già state esaurite, più tardi si agirà, più questi cambiamenti diventeranno irreversibili. Per giungere a una stabilità ecologica ed economica sostenibile, l’equilibrio globale dovrebbe essere progettato in modo da soddisfare le necessità di ogni persona e affinché ciascuno abbia uguali opportunità di realizzare il proprio potenziale umano. Nel 1996 la Meadows fondò il Sustainability Institute, ora Academy for Systems Change, per promuovere le transizioni verso sistemi sostenibili della società, dal locale al globale. Ne è attuale co-direttrice Marta Ceroni, economa ecologica, ma anche donna creativa dalle mille sfaccettature, raggiunta telefonicamente nel New Hampshire, dove vive.

Cos’è l’economia ecologica?
È una disciplina dell’economia alternativa, volta ad armonizzare economia ed ecologia, cioè i bisogni delle persone e i bisogni della natura, intendendo gli ecosistemi come la base fondamentale su cui poggia il sistema economico. Per l’economia convenzionale invece, la natura è un sottosistema economico, una risorsa da sfruttare. La disciplina dell’economia ecologica trova origine in vari pensatori: quello più recente, che io ho conosciuto all’Università del Maryland, dove ho studiato e lavorato, è Herman Daly, che negli Stati Uniti, ne ha ispirato la diffusione. Ponendo al centro i bisogni delle comunità umane e naturali assieme, l’economia ecologica si pone una domanda basilare: per chi e per cosa esiste l’economia? Pone una problematica dell’equità: se l’obiettivo è farci vivere bene, allora l’attuale economia convenzionale non è adeguata, poiché non stiamo vivendo bene.

Com’è nato l’interesse per questo specifico settore?
Sono sempre stata appassionata di alberi e foreste. Durante il dottorato all’Università di Parma, mi ritrovai incanalata in una ricerca specifica: raccoglievamo materiale vegetale, come le foglie dei faggi, per poi estrarne il DNA e capire come certi tratti genetici venissero ereditati dalle piante madri, alle figlie. Era molto affascinante dal punto di vista della scienza esatta, ma mi mancava la visione d’insieme per comprendere l’ecosistema. Mi sentivo un po’ frustrata poiché non mirava al futuro, a preservare le foreste, a capire perché venivano distrutte e riconvertite, in Italia e nel mondo. Attraverso un "journal club”, incontri di studenti che proponevano gli articoli che li appassionavano a colleghi e professori, mi imbattei in uno studio di Bob Costanza sul valore economico della natura. Il tema mi affascinò e, per una strana coincidenza, in seguito, finii proprio nel gruppo di ricerca che aveva effettuato quegli studi con Costanza.

Già ricercatrice presso l’Università del Vermont, ora co-direttrice dell’Academy for Systems Change: in Italia non ha trovato identiche opportunità?
Da giovane dottoranda a Parma, vidi che non c’erano fondi né sbocchi e così cominciai a guardare agli Stati Uniti. Prima andai all’Università del Maryland, poi il nostro gruppo di ricerca fu adottato dall’Università del Vermont, dove ci trasferimmo in massa, affrontando un ecosistema completamente diverso. Lasciai poi l’ambiente accademico: mi piaceva insegnare, ma ero lontana da dove si porta avanti il cambiamento sociale. Decisi allora di fare un grosso salto, passando al settore non profit con l’Academy for Systems Change, un’organizzazione educativa, un po’ più accademica delle non profit normali, con un Cda composto da membri del Messico e del Canada e partecipanti ai programmi provenienti da tutto il mondo (Cina, Giappone, Pakistan, Usa, Thailandia, etc.). Il mio lavoro attuale, 25 ore settimanali da remoto, è prevalentemente di gestione dell’organizzazione: creiamo percorsi educativi per professionisti adulti che lavorano al cambiamento sociale, che a sua volta comporta anche quello biologico ed economico. Poche notti fa, ad es., ho completato un modulo educativo che introduce il pensiero sistemico applicato al problema della condizione dei senza dimora. Mi occupo di sostenibilità, ma grazie alle intersezioni tra questa e la giustizia sociale, sono sempre in mezzo a entrambe.

Crisi, devastazioni naturali o indotte dalle guerre, che scenari ci prospettano?
L’emergenza è la crisi che si protrae senza una visione. Sono molto preoccupata delle devastazioni ambientali, ferite che non saranno facili né rapide da rimarginare: dovrebbero diventare occasione per scelte tese all’indipendenza energetica, investendo finalmente nelle energie rinnovabili. Temo però che le lobby del carbone e del gas, remino contro le rinnovabili.

La pandemia ha cambiato la visione della scienza?
La scienza è sotto pressione perché servono risposte scientifiche in tempi molto rapidi. Nei primissimi tempi della pandemia, un ricercatore italiano aveva scoperto che gli asintomatici andavano in giro spargendo il virus. Dopo aver letto l’articolo, gli scrissi chiedendogli di diffonderlo, in modo che anche qui si potesse imparare da queste prime osservazioni italiane: c’era fame di conoscenza e necessità di applicare immediatamente ciò che si scopriva. La capacità di comunicare e adattare rapidamente le nuove conoscenze, è stata invece alquanto deficitaria da parte dell’OMS.

In Italia, solo una ragazza su 5 sceglie la scienza: come invertire la tendenza?
Domanda da brividi, tanto è importante. Ho un’aspirazione: il giorno in cui sapremo che le donne hanno pari opportunità di vedersi realizzate nel mondo delle STEM (ndr, insieme delle discipline scientifico-tecnologiche), sarà quello in cui avremo abbattuto molti pregiudizi e barriere. Il primo stereotipo da abbattere, è che le donne sono meno portate per la scienza, una narrazione coltivata sulle bambine e continuamente ripetuta. Un’interessante ricerca in varie università americane, ha evidenziato come in alcune facoltà di Scienze informatiche ci fossero più donne che in altre. Il motivo era che i programmi di applicazione delle competenze e i programmi educativi, erano volti al cambiamento sociale. Si è scoperto dunque che le donne si appassionano alle Scienze informatiche, perché a loro interessa un’applicazione che renda il mondo migliore. Il sistema educativo attuale è un sistema patriarcale dominato da uomini, pertanto per le donne diviene difficile assimilarsi all’interno di un sistema che non le rappresenta. Facevo una riflessione personale: a volte come donna mi sembra di vivere una vita in cui gli uomini che ho intorno, sembrano gli impresari dei “talenti femminili”: riconoscono il talento delle donne (la parola femminile mi dà fastidio) e vogliono essere anche loro alleati, ma in generale tutte le dimensioni che vivo, sono dominate da uomini. Qualche esempio: sono stata invitata a far parte del Cda di una organizzazione importante: chi mi ha invitata? Un uomo! Sono andata a vedere un ufficio per non lavorare sempre da casa: chi è il proprietario? Un uomo! Sono invitata a parlare a una conferenza: da chi? Da un uomo! Pertanto, se i nostri talenti di donne sono riconosciuti dagli uomini, le forme di accesso sono gestite dagli uomini, che in un certo qual modo diventano i nostri impresari. Mi piace molto l’idea che le donne diventino autoimprenditrici: non attendiamo di essere invitate, prendiamoci i nostri spazi.

Quanto si sacrifica di personale per poter svolgere la vita da scienziata?
Ho lasciato l’Italia nel 1997 ed è stato molto difficile: ho avuto la sensazione di ricevere un calcio dal mio Paese, che non valorizzava a sufficienza gli studi. In quegli anni, fare il dottorato era considerata una follia, mancavano strutture e la mentalità per apprezzare il sacrificio dei ragazzi. Io vivevo da sola e per mantenermi agli studi, che peraltro non mi garantivano sbocchi lavorativi adeguati, facevo la postina. Quando il progetto di emigrare in America andò in porto, lasciai le poste, anche se a Parma, dove vivevo, ero benvoluta. Io sono però originaria di Trenno, oggi inglobata nella città metropolitana di Milano e contigua a Rho e Pero, dov’era attiva la raffineria Eni, i cui fumi tossici fin da piccola mi indignavano. Quei vapori chimici che ero costretta a respirare, erano un’ingiustizia ambientale: era inaccettabile che intere comunità di persone venissero considerate meno degne di altre di preservare la salute. Per sfogare la rabbia, scrissi persino delle canzoni: ho ancora il sentore dei miasmi chimici e tuttora non tollero di dover respirare fumi di qualunque tipo. La ribellione a quella condizione, mi portò alla ricerca di un approccio nuovo con la natura, che partiva dallo studio delle piante e come preservarle. Oggi non scrivo più canzoni, ma invento melodie e suono la fisarmonica, insegno il tango con il mio partner e prendo lezioni di pattinaggio sul ghiaccio: qui abbiamo un lungo inverno con temperature rigide, da novembre ad aprile. Durante il lockdown, oltre a continuare a curare l’orto, ho imparato a fare il kefir e il pane col lievito madre, spesso invito a cena i miei vicini e preparo le pizze nel mio forno a mattoncini…

Di cosa parla 'L’anatra sposa', romanzo pubblicato per Bompiani?
È una specie di anatra realmente esistente: in Italia è considerata ornamentale, tanto che si trova nei parchi delle ville (Stresa sul Lago Maggiore, ad es.), mentre qui, nel nord-est degli Stati Uniti, è nativa. La storia è nata dal forte desiderio di riconnettermi con i posti in cui sono cresciuta, non per nostalgia o per idealizzarli, ma perché mi sono resa conto che quando arrivai negli Stati Uniti non appartenevo al tipo di cultura che vi trovai. I primi due anni furono particolarmente duri: un po’ per l’enorme estensione territoriale, un po’ per la chiusura dei locali: non c’era un senso di comunità, che è ciò a cui ero abituata e che ho sempre cercato ovunque, bensì di isolamento. Altro problema fu la lingua: “una cosa è l’inglese che studi, un’altra è quello parlato sul campo, che all’inizio faticavo anche a capire. Protagonista del libro è la natura, con la sua sensualità capace di farci innamorare, il trait-d’union per riconnettersi. Attraverso la storia di due sorelle, una delle quali affetta da deficit cognitivo, che diventano donne in un ambiente isolato e retrogrado, si affronta il tema dell’appartenenza, del senso della costrizione ad abbandonare i propri luoghi, e anche della non appartenenza, delle radici fittizie di chi non è integrato nella comunità. C’è molta autobiografia, che riflette anche le vicende della mia famiglia, trasferitasi dalla città in campagna, non appartenendo mai veramente a quel substrato. Mia madre e mio padre e si erano conosciuti a Milano: mio padre era un intellettuale molto attivo politicamente e faceva il copyright per grandi ditte.

Vive nel New Hampshire: tornerebbe in Italia o sta meglio in America?
In questa interessante fase della mia vita e della mia professione, sono molto più sbilanciata verso l’Italia. Negli anni ho sempre cercato di fare progetti per contribuire al lavoro in Italia e non tranciare i rapporti. Spesso i miei ritorni hanno anche delle componenti di lavoro e spero di continuare così. Il risultato del tipo di vita vissuto finora, mi ha fatto rinunciare alla nozione di essere di un particolare posto: sono dell’idea di essere di un posto a metà strada. Non è stato facile, ma mi sento una cittadina del mondo, pronta a mettermi in gioco.

Che messaggio dare a una giovane che volesse intraprendere la professione di scienziata?
Per cominciare, suggerirei di crearsi un circolo di altre donne con una passione simile, per non affrontare da sola questo percorso. Sarebbe opportuno identificare subito una o due figure di donne che siano un po’ più avanti, una sorta di mentorship, funzione che in Italia non esiste, perché si pensa di dover imparare tutto da soli. Qui, chi vuole seguire percorsi un po’ più difficili, si circonda, in una relazione informale e non di potere, di persone a cui poter raccontare quel che gli succede. Negli Stati Uniti e in varie comunità del cambiamento sociale, ha preso piede un concetto di famiglia di scelta, ovvero la coltivazione di relazioni sociali intenzionali, con persone che siano d’ispirazione e di sostegno. Un’altra cosa importante, è cercare di non separare il mondo delle espressioni artistiche e la scienza: quest’ultima è un ambito altamente creativo, ma spesso viene epurata dalle altre dimensioni creative. Se sei scrittrice, ballerina, improvvisatrice, per es., è importante che queste energie non vengano sacrificate, sono espressioni importanti affinché diventi un ambiente ricco. Io ho sofferto molto, sia nell’ambito delle scienze, sia in ambito accademico, soprattutto per la mancanza di interesse verso la trasformazione personale interiore: il cambiamento non avviene solo attraverso la mente, la scienza va umanizzata, non ci si può lasciare dietro pezzi importanti della nostra identità. Mi sono sentita inadeguata per molto tempo rispetto ai modelli esistenti, per le mie tante passioni e le molte sfaccettature della mia personalità, che mi facevano sentire diversa dai colleghi uomini, capaci di appassionarsi a un’unica cosa, buttarcisi a capofitto e pubblicare solo su quella. È un’altra problematica che succede alle donne nella scienza: sto attenta a non generalizzare, ma quella è stata la mia esperienza. Il sistema capitalistico oltre all’efficienza, tende a premiare la linearità, dove gli uomini eccellono fin da piccoli, ma dopo averci sofferto, ho capito di recente, che non mi sentivo di conformarmi a un unico modello che non mi rappresentava: non era ciò che mi interessava. Floriana Mastandrea

Lascia un Commento

©2019 - NoiDonne - Iscrizione ROC n.33421 del 23 /09/ 2019 - P.IVA 00878931005
Privacy Policy | Creazione Siti Internet WebDimension®