Martedi, 22/06/2010 - Le cronache della nostra storia recente ci istruiscono frequentemente - elargendo lezioni sapienziali - sulla genealogia del fenotipo regionale della punta dello stivale, rimarcando i tratti della sostanza fenomenologica - attribuibile o meno alla filosofia del federalismo, non è dato sapere - quantunque è possibile ricavarne spunti, per una riflessione, che dimostri come ogni esperienza di verità è figlia dell’interpretazione, che se si legittima pretendendo di mostrare le cose come stanno, cioè spesso senza grattare la superficie di ciò che appare come in realtà non è – per pura ignoranza della sostanza.
Chiedendo venia all’irriverenza dei toni mi appresto ad argomentare. Noi cafoni del sud, siano infatti reticenti, insicuri e stranamente fini, infatti non solidarizziamo mai abbastanza con i perseguitati ma solo con i persecutori. Noi meridionali del sud che amiamo un sentire che poco appare; che poco contrasta, o che colpisce di striscio, amiamo le forme ibride, di contenuti e valori. Gli appetiti giangurgoleschi della nostra fame atavica che ci rendono falsi, retorici e sovente immorali, specie quando assistiamo inermi ai soprusi e alle violenze. Alle mie calabre latitudini, infatti, si matura sulla propria pelle, con ben precoce rapidità, come le molteplici declinazioni del Potere nelle variegate forme, ricorrano più spesso di quanto si creda, alla neutralizzazione di idee, di argomentazioni e soprattutto di valori, specie quando essi rappresentano l’espressione propria della legge del coraggio e delle virtù o magari anche solo del dissenso da certe pregiudizievoli mentalità. Da queste parti si apprende in fretta che l’una e l’altra sono spesso la faccia di una medesima medaglia. Con il tempo s’impara anche a placare l’indignazione, a contenere impotentemente la rabbia e spesso a cedere al ricatto, perché da queste parti le progenie si educano da generazioni a cogliere un’unica essenza quella Predatoria. Questa terra calabra, è terra di dolore e prostrazione in cui non c’è politica, n’è politici n’è sindacati, né stato, perché non c’è lavoro, né futuro, n’è libertà n’è vita; non c’è diritto, poca la legge; non c’è né salute né qualità, non c’è merito né razionalità, non c’è fiducia; c’è in una terra di mezzo, come questa, solo tanta sconsolata bellezza, che rende scarna essenziale, l’armonia e la bellezza tradotte sistematicamente in violenza e sopraffazione attraverso tanta insostenibile arroganza e da tanta imperturbabile ignoranza della mafia e delle criminalità diffuse.
Questa lezione sul sud ricordata di recente al paese intero, da Roberto Saviano, del cui coraggio non finiremo di esser grati; continua a essere sostenuta però quotidianamente da tutti gli uomini e le donne di questo lembo di paese, che qui sono rimasti e che mafiosi non sono diventati. A tutti costoro - agli italiani distratti, in parte tutti forse un po’ gente del sud anche solo per qualche vaga assonanza nei tratti - a coloro ai quali si nega la vita attraverso il silenzio, si paga il silenzio prima ancora che dignità e libertà; inchiodati a fragilità inenarrabili, divisi tra bisogno e necessità; ai tanti volti Puliti e amimici, alle ombre sospese dalla vacillante identità, che la fatica di un vivere troppo pesante riduce a nani o saltimbanchi. A questi dovremmo votarci per volontà rappresentativa e primato di resistenza, aspirando a trasformarli in moderni modelli di eroi senza terra e forse senza futuro alcuno. Per costoro l’impellenza, l’urgenza, la precarietà e la cronicizzazione, sono ossimori urlanti del disservizio e del “non-conteplato” di ogni settore, pubblico o privato; delle arti e dei mestieri, delle professioni e degli impieghi. Noi come loro annichiliti di fronte al comune gaudio di un potere silente e oscuro, dalle mille forme insospettabili, che abbatte il merito, omologa i bisogni e incatena le differenze, i meriti, le capacità.
Sono affranta e inerme, quando tento di urlare la rabbia e il dolore; quando tutte le volte tento di solidarizzare con loro con me, dialogando con qualche intensità di politica, per tentare di “dis-incatenarmi” per dignità e civica passione, da un tempo sospeso in cui passato, presente e futuro, fanno uguale la storia. Talvolta a noi calabresi rimproverano sin anche di essere poco “collaborativi” con lo stato, allora penso agli insegnanti di prima linea, agli operatori sanitari di trincea, agli imprenditori e agli intellettuali, alle menti civili pulite e creative che scrivono sulla loro pelle come generare idee e profondere prassi contro corrente. Penso ai tanti volontari e alle numerosissime forze vitali della nostra calabra società, che restano su questi territori disfatti. Capita perciò di pensare non di rado e specie quando il lavoro vacilla o viene meno del tutto che, la fragilità e la vulnerabilità, creati ad arte per rafforzare il potere criminale, sono strumenti di pianificazione del controllo delle nostre vite; fonti inesauribili di speculazione criminosa, a cui lo stato non nega l’imprimatur quando la politica interpreta all’occorrenza la caustica visione predatoria, e non risolve né l’insano declino fonte dell’atavico male, né scioglie e libera le catene e le maglie di quella prigione.
Tremo sempre al pensiero di una società che omologa i bisogni e i desideri, rendendoli funzionali solo alla ricchezza e ai consumi, non già perché attraverso Il teorema dell’egualitarismo, si annullano certi sani conflitti, le sane diversità e le contenute piccole tensioni di un quotidiano vivere per tutti faticoso e difficile; ma perché in questi luoghi il buono ed il cattivo si camuffano da attori e al tempo stesso da strumenti dell’inesorabile declino, che rende tutti eguali nella dipendenza da qualcosa. E se possibile lo spiraglio del cambiamento e di una vita nuova, quant’anche esile e fioco mi spinge ad agire come se tutto dipendesse da me sola, per rappresentare l’ancora della mia stessa salvezza, quella della mia terra, e del mio paese. Malgrado questo non basti né per me né per tutti gli altri, sostengo la speranza che la fine del degrado possa giungere il prima possibile.
La politica dal canto suo, agita spesso – anche quando non lo nomina il consensus - tutto avviene dentro questa metafora, al di fuori della quale collocare ogni altra cosa è mero terrorismo con tutti i suoi derivati. I politici di ieri oggi e forse domani, paralizzati, incapaci di porsi questioni morali ed etiche in profondità, né tanto meno aspetti sociali o economici. Inadeguatezza Incapacità, puntuale Improvvisazione della Politica, che non Neutralizza appetiti mafiosi, culture dello sfruttamento e del Potere; né aumenta Controllo, Autorità Efficacia, trasformando in una medesima cosa tutte le variegate articolazioni di certi conflitti, in sola pura violenza, che continuerà a generare ancora solo terrore e paura. Incertezza e confusione.
Questi aspetti riconducono senza ritrosia a una sola unica Storica Questione, quella Meridionale, ancora tutta da risolvere. E nascosta con vergogna colpevole sotto al tappeto. Appare pertanto inopportuno l’uso e non già per l’abuso della verifica, giacché certe forme d’interpretazione e comprensione dei fatti di questa realtà, non sono assunti paradigmaticamente , come modelli interpretativi di riferimento, né come spie di un degenere che rischia di diventare all’occorrenza strumentale, se si omettono serietà, rigore e fermezza. Ecco perché noi brutta gente saremo destinati a restarlo ancora, tutte le volte che sospenderemo il giudizio e l’autentica indignazione, distogliendo lo sguardo, per individuare scorciatoie brevi e di comodo, non meno colpevoli dei gesti che ci allontanano da ciò che offende dignità e coraggio. Molti gli esempi tra i tanti, per evocarne memoria e storia, grimaldelli più di rappresentazione mediatica che non di presa profonda sulle coscienze civili di donne e uomini di queste latitudini. Accade perciò di indignarsi, dispiacersi, scandalizzarsi ma isolarsi, allontanarsi o ritrovarsi con manipoli di <<offesi, silenti e impotenti, afoni>> che all’offesa non rispondono con adeguata asperità di toni; perché in terre come queste in cui non è dato condividere e solidarizzare mai fino in fondo, per cambiare o rivoluzionare, è concesso solo fermarsi almeno cento passi prima che il rimedio disveli la causa del male stesso.
Allora chiedo, quando cesserà l’insano conflitto tra forze, che confonde, offusca e annichilisce la mia terra, nella dipendenza e nel bisogno. Se mai cesserà, e se piuttosto non sia urgente più di qualunque altra iniziativa, virare verso una Nuova Resistenza attiva, che induca a scegliere di stare con quelli che progettano perché meno hanno, o se con i titolari, portatori di essenze qualunquiste e mistificatorie. Sospetto che la scelta con chi stare e per cosa solidarizzare, sia annosa questio non solo di noi calabresi, ma dell’Italia intera; di quello strano paese cioè, fatto solo per metà. Paleso pertanto l’importuna passione, che si realizzi un nuovo pacifico risorgimento culturale che parta dalla Calabria, e al paese intero arrivi, per sostenere il pieno compimento di una magnifica “regione” del sole, figlia non di un dio minore ma metafora di Autentico cambiamento di pura innovazione.
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