Perchè le donne devono poter gestire a casa l'Interruzione Volontaria di Gravidanza. I pericoli di ricoveri non necessari
La campagna ha lo scopo di rendere effettivo, in ogni regione italiana, quello che è già possibile grazie alle linee di indirizzo ministeriali del 2020, e cioè procedure chiare, definite e uniformi per l’aborto farmacologico in regime ambulatoriale, garantendo alle donne la possibilità di prendere il secondo farmaco a casa. Eppure ancora troppe sono le donne che non hanno la possibilità in Italia di accedere a questa modalità per interrompere la gravidanza.
Di recente, al seminario sulla libertà che si è tenuto ad Altradimora nel quale ha preso parola anche Anna Pompili, una delle ginecologhe impegnate nella Coscioni sul tema dei diritti riproduttivi, molte tra le partecipanti si sono chieste, con sgomento, se arriverà mai il tempo nel quale le donne potranno smettere di preoccuparsi degli ostacoli che permangono sulla strada dell’autodeterminazione nella scelta di maternità, così come in quella dell’interruzione di gravidanza.
L’accesso all’aborto farmacologico senza obbligo di ospedalizzazione, come già avviene in alcune regioni italiane, non è una questione secondaria: questo diritto, se pienamente garantito, tutela infatti non soltanto la libertà di scelta delle donne ma favorisce anche un uso più razionale delle risorse sanitarie.
Lo spiega con chiarezza Anna Pompili: “L’aborto farmacologico senza ricovero è la norma nel resto del mondo, e le eccezioni si verificano quando vi siano particolari condizioni cliniche che richiedono un attento monitoraggio medico, al contrario di ciò che avviene in Italia. La domanda da porre a chi governa le Regioni e a coloro che, nelle Regioni, si occupano di sanità pubblica dovrebbe essere: perché pensate che le donne che richiedono un aborto farmacologico debbano essere ricoverate in ospedale? Perché nella vostra regione non è possibile farlo in consultorio? Perché le donne non possono prendere il secondo farmaco a casa?”
Le risposte di chi è contrario all’aborto farmacologico sono spesso legate ai rischi per la salute: secondo alcuni, infatti, l’aborto farmacologico sarebbe pericoloso, e la salvaguardia della salute impone il ricovero e la supervisione medica. Ma questo non è vero, sostiene Pompili, che cita fonti internazionali autorevoli: nelle linee guida del 2019 del Royal Collage of Obstetricians and Gynaecologist (RCOG) non vi è ragione per la quale una donna debba essere ricoverata per una IVG farmacologica entro la 12ma settimana e secondo l’America College Obstetricians and Gynaecologist, (ACOG) che nel 2024 ha condotto una corposissima revisione della letteratura internazionale, il profilo di sicurezza del mifepristone (la sostanza attiva del farmaco per abortire) è sovrapponibile a quello dell’ibuprofene, venduto come prodotto da banco anche nel nostro paese.
I farmaci per l’aborto sono nella lista di quelli essenziali per l’OMS dal 2005, quindi da ben vent’anni: nel 2019, proprio in ragione della loro sicurezza, la clausola che ne raccomandava la somministrazione sotto supervisione medica è stata rimossa.
Poi è venuta la pandemia SARS-CoV2, che ha spinto molti paesi a misure eccezionali, tra le quali l’autorizzazione all’autosomministrazione a domicilio dei farmaci per l’aborto. È stata la più grande dimostrazione della sicurezza di tale procedura, tanto che quelle misure, inizialmente eccezionali e transitorie, sono state confermate, sono divenute la regola e l’OMS, oggi, la raccomandano.
“Gli amministratori regionali parlano di tutela della salute, e non prendono in considerazione i rischi di una ospedalizzazione non necessaria, primo fra tutti quello di contrarre infezioni, continua Pompili. Nel biennio 2022-2023 l’8,2% delle persone ricoverate nel nostro Paese, ossia circa 430mila persone, hanno contratto un’infezione ospedaliera. Non credo ci sia bisogno di ricordare che le infezioni ospedaliere sono potenzialmente molto gravi perché potenzialmente resistenti agli antibiotici. È ovvio: come qualunque altra procedura, medica o chirurgica, l’aborto farmacologico può avere complicazioni, ma l’altro elemento da sottolineare è che tali complicazioni, rarissime, si manifestano con maggior frequenza tardivamente, spesso dopo l’espulsione, e dunque, nel caso in cui la donna fosse ricoverata, dopo la dimissione dalla struttura ospedaliera. Ulteriore conferma della inutilità, anzi, della dannosità del ricovero”.
Fin qui le motivazioni tecniche, ma Pompili sottolinea che ce ne sono altre a supportare la contrarietà della procedura farmacologica, e senza mezzi termini evoca il paternalismo.
“Ricoveriamo le donne perché non vogliamo lasciarle sole”. È una motivazione che tradisce una narrazione patogena dell’aborto, che genera sensi di colpa e che guarda all’assistenza sanitaria come se fosse un’assistenza spirituale. È una motivazione che prescinde da un dato banale: le donne che chiedono l’aborto ambulatoriale, le donne che chiedono di prendere il secondo farmaco a casa, vogliono essere lasciate sole, o meglio: piuttosto che con personale sanitario sconosciuto, anche se disponibilissimo, preferiscono stare e condividere questa esperienza con persone a loro care, in ambienti a loro familiari. Magari qualcuno penserà che sia troppo comodo? Magari si, perché la realtà è che non si può non pensare all’aborto come ad una cosa che necessariamente deve accompagnarsi ad un vissuto di dolore e sofferenza. E allora qualunque facilitazione all’accesso diventa una banalizzazione. Semplificare l’accesso all’aborto non lo banalizza, certamente non toglie spessore morale alla scelta”.
L’art. 15 della legge 194 sottolinea il dovere istituzionale di garantire alle donne il ricorso alle “tecniche più moderne, più rispettose dell'integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l'interruzione della gravidanza”. L’autosomministrazione dei farmaci a domicilio è una procedura che ha al centro la donna, alla quale si riconosce la capacità di gestire autonomamente, e in prima persona, una procedura medica. Una procedura che va, dunque, nel senso dell’empowerment delle donne. L’aborto torna nelle loro, nelle nostre mani. È forse questo il problema?
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