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Nuove forme di schiavitù

Nuove forme di schiavitù

‘Maquiladoras’ - svolgono attività in subappalto, non sono soggette al pagamento delle imposte, importano materiale che deve essere solo assemblato o montato e i cui articoli non sono commercializzati nel paese in cui si trovano. Le ‘maquiladoras

Pisani Giuliana Martedi, 09/06/2009 - Articolo pubblicato nel mensile NoiDonne di Giugno 2009

Risale alla metà degli Sessanta l’apertura delle prime ‘maquiladoras’ sul territorio messicano. Fabbriche operanti attraverso contratti di subappalto, oggi presenti in molti Stati latinoamericani. Nel 1994 l’entrata in vigore del Trattato di libero commercio del Nord America, firmato nel 1992 da Canada, Stati Uniti e Messico, ha incoraggiato la ‘maquilization’ anche delle municipalità non di frontiera con un aumento degli impianti dal 27,4% del 1993 al 35,6% nel 1997. Minime condizioni di sicurezza, salari reali molto bassi e discriminazione di genere sono alcune pratiche diffuse all’interno di queste grandi imprese come: General Motors, General Electric, Zenith, Panasonic, Tyco Int. e Sanyo. La ‘maquilization’ ha permesso al governo messicano di svestirsi della responsabilità di tutore dei diritti sociali, economici e politici dei propri lavoratori, aderendo ad un progetto di sviluppo liberale basato sulla deregolamentazione del mercato e sulla creazione di un’industria export-oriented. Un effetto di questa strategia politicoeconomica è stato l’imponente flusso migratorio interno agli Stati messicani verso quelli di frontiera con gli Usa, quali Chihuahua, Nuevo Laredo e Tijuana, aggravando la concentrazione della forza lavoro, la squilibrata redistribuzione della ricchezza e il ‘discriminatorio’ trattamento riservato alla manodopera femminile rispetto a quella maschile. A questo proposito, le donne rappresentano la componente maggioritaria – oltre il 60 per cento - della forza lavoro impiegata negli impianti d’assemblaggio definiti da Evelyn Nieves (‘To work and die in Juárez’ in MotherJones, May/June.) come centri di sfruttamento di manodopera a basso costo, con un salario settimanale di soli 55 dollari. Nel rapporto sul Messico del 1998, Human Rights Watch ha condannato la negligenza del governo messicano nel tutelare i diritti delle lavoratrici, con riferimento all’urgenza di garantire un’equa remunerazione, e di sospendere la ‘pregnancy-based discrimination’, pratica di discriminazione di genere in ambito lavorativo che viola la Convenzione n.111 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (1958), la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici (1976), e la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (1979). Le donne sono, infatti, spesso vittime di umilianti trattamenti durante il processo di selezione del personale. Le candidate sono costrette, pena mancata assunzione, a sottoporsi a test di gravidanza e a periodiche ‘ispezioni’ di controllo sulla regolarità del flusso mestruale. Se la Tyco Int. ha giustificato il ricorso a questa pratica selettiva come necessaria per tutelare la salute delle operaie dedicate a particolari pesanti mansioni, la Zenit ha evidenziato come da un punto di vista legale il codice giuslavoristico messicano non ne proibisca in maniera esplicita l’uso. Mancanza di titoli di studio, di esperienze di lavoro altre dalla manovalanza e di denaro determinano l’impossibilità di tante donne di aspirare ad impieghi diversi da quelli offerti nelle ‘maquiladoras’. Tuttavia, la ‘maquilization’ non è un fenomeno esclusivamente messicano ma comune ad un Paese dalla diversa forma di governo: la Cina. Nel triennio 1989-1991 l’implosione del blocco sovietico ha innescato un processo di trasformazione interna agli Stati parte, noto come transizione dal sistema piano al mercato: development State vs. export-oriented industrialization. Oltre ad effetti di natura economica, la transizione ha determinato una rimodulazione delle politiche sociali e, dal principio maoista ‘women carry half of the heavens on their shoulders’, espressione della visione marxista femminista, si retrocede ad una visione maschilista e patriarcale che non riconosce la parità di diritti tra uomo e donna. La privatizzazione delle imprese di Stato e il trasferimento delle consociate straniere, ovvero l’apertura di ‘maquiladoras’, hanno incentivato flussi migratori composti da elevate ‘quote rosa’. Come nel caso del Messico, anche in Cina la maggioranza delle offerte di impiego sono state dirette ad un particolare target di donne definito dall’età, dal peso e dallo status sociale single. Gli annunci di lavoro hanno puntato ad una preselezione, inquadrando una tipologia di operaie da dedicare a lavori faticosi e di alta precisione, senza vincoli familiari, facili da ‘sfruttare’ e quindi da ‘sottopagare’. Anche in Cina sono state adottate pratiche invasive nella sfera personale delle operaie. E’ un esempio, la ‘one-child policy’ introdotta nel 1979 dal governo centrale con lo scopo di alleviare le difficili condizioni sociali, economiche e ambientali dovute al sovrappopolamento su scala nazionale. Nel 2000 il rilancio della ‘one-child policy’ è stato motivato dalla necessità specifica di limitare la ‘procreazione’ nelle aree urbane delle operaie migranti rurali. Questa misura politica ha avuto controversi effetti sociali ed economici, ovvero un aumento degli aborti, degli abbandoni e degli infanticidi femminili, determinando un aggravamento dello squilibrio tra i sessi e una diminuzione dell’impiego di manodopera giovane. Le denunce e le condanne morali da parte di Stati terzi, tra cui Stati Uniti e Regno Unito, e di organizzazioni dedite alla difesa dei diritti umani, come Amnesty International, non sono servite a metterne in discussione la validità, tanto che nel 2008 la Commissione nazionale cinese per la popolazione e la pianificazione familiare ne ha annunciato la reiterazione per un altro decennio. Se in Cina la posizione del governo è a favore della “maquilization” e di uno sviluppo economico a discapito dei diritti dei lavoratori e in particolare delle donne, alle quali non sono riconosciuti pari diritti sociali, politici ed economici; in America Latina, come ad esempio in Honduras, gruppi di operaie si sono associate in sindacati come la Colectiva de Mujeres Hondureñas con lo scopo di dare seguito alla lotta di ‘genere’ chiedendo l’intervento, nel caso specifico nel mese di aprile 2009, di istituzioni regionali preposte della difesa dei diritti umani come la Corte interamericana dei diritti umani.

(9 giugno 2009)

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